Tra il mento e la spalla.

Anche stanotte ho fatto l’amore sul tetto.
Ho aspettato che spegnessero le luci della città, che scendesse la quiete nelle case, nella vita frenetica delle persone. C’è un momento preciso in cui tutto si placa, quello in cui il groviglio dei pensieri si dissolve, è un attimo sospeso fra l’eco di oggi e l’illusione di domani. In quell’istante preciso salgo sul tetto, lancio il cuore in quella finestra socchiusa, prendo il violino e divento l’amante sfacciato, l’impostore arrogante. Non è solo musica, è istinto primitivo, è il connubio perfetto fra melodie, amplessi e sudore. Lo facciamo così. Ogni notte. L’amore.

Di giorno c’è troppa gente in giro, auto, tram, passanti, cazzi e mazzi e mica puoi startene a fare l’amore sulla cima di un tetto, ma di notte tutto diventa possibile. La sua finestra è lì, a portata di mano, basterebbe scavalcare un paio di balconi, roba da niente. Ma quelle sono scene da film, riservate ai coraggiosi. Quelli come me hanno l’animo pavido. Quelli come me preferiscono farsi male a distanza, preferiscono farlo a occhi chiusi, abbracciando un violino. E’ l’unico stratagemma che abbiamo per farlo senza rimpianti, l’amore.

C’è stato il tempo dei teatri pieni, con quegli occhi addosso e io su quel maledetto palco con un faro puntato dritto in faccia, che neanche riuscivo a distinguerle tutte quelle persone che stavano lì in attesa della prima nota. Facevo l’inchino, a occhi chiusi, l’archetto nella mano destra e incastravo tutta la mia vita tra il mento e la spalla. E suonavo. Scorrevano le dita sulle corde, quasi a volerle soffocare, scorreva l’archetto lungo quel manico di legno infinito, scorrevano tutti i miei rimpianti mescolati con la musica.

Ma la vita reale è altra cosa, voglio dire, non puoi avere la presunzione di capire il mondo standotene impalato nel bel mezzo di un palco con un faro puntato in faccia. Sono sparito, all’improvviso, senza dare spiegazioni. Ho smesso di suonare per i signori annoiati, per le donne appariscenti, per gli aristocratici e i morti di fame che si imboscavano ai concerti. Ho smesso di suonare per dovere e ho iniziato per farlo per gli amanti sotto i portici, per le puttane di strada, per i ragazzini impertinenti. Ho iniziato a suonare per le madri che lottano, per quelli che la vita se la sputano nelle mani, per la disperazione di certe giornate, che proprio non sai più come fare. Sono sceso da un palco e ho iniziato a vivere davvero.

Sono uno di quelli che di giorno suonano nelle piazze sconosciute, senza preavviso, mi piazzo in un angolo, e gioco a fare dio con la vita degli altri. Immagino momenti che non vivranno mai, dispiaceri e passioni che non sanno di avere. Li guardo passare, tutti quanti e improvviso la melodia della loro esistenza.

Ma è di notte che si vive davvero e allora lascio scorrere questo alveare di pensieri che mi prude in gola, salgo quassù, aspetto che la luce della sua finestra vada a morire e incastrando la vita fra il mento e la spalla iniziamo a farlo davvero. Ogni notte. L’amore.

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