La valigia senza peso.

Finì di piovere il giorno della festa del santo. In realtà nessuno aveva mai dubitato di questo. Non c’è memoria di una festa del santo sotto la pioggia. Il temporale era finito, come era logico aspettarsi, se n’era andato lasciando poche tracce di sé, tranne qualche pozzanghera qua e là, che presto sarebbe scomparsa, eliminando definitivamente le prove del suo passaggio. Andato, svanito, così come si era manifestato adesso non esisteva più. Come quando arrivi alla sera, in un giorno come tutti gli altri, che neanche te lo saresti aspettato che fosse quel giorno lì, invece arrivi alla sera e ti rendi conto che quel dolore non c’è più. Finito, come era logico aspettarsi. Se n’era andato lasciando poche tracce di sé, tranne qualche livido in fondo all’anima, che sarebbe rimasto lì per sempre, mostrando in eterno le prove del suo passaggio.

Sabrina è arrivata qui, oggi, per caso, viene da lontano, in fuga da qualcuno e cerca chissà cosa. Ed è arrivata qui. Cammina per i vicoli, come se fosse in cerca di risposte. Cammina tenendo in mano una valigia senza peso, cerca meraviglie. E oggi le troverà.

Sabrina è partita qualche giorno fa, ha lasciato il suo lavoro di insegnante, suo marito che dormiva abbracciato ad un fucile e una bottiglia, suo fratello chissà dove sotto tre metri di terra e una raffica di mitra nel costato, ha lasciato il suo paese con un mare troppo scuro ed un cielo troppo basso che si piega sotto il peso delle bombe, che da quelle parti tiri a sorte con la vita.

E’ partita per trovarlo, il suo sogno, per farsi cogliere dallo sgomento e dalla bellezza che avrebbe accompagnato la sua ricerca. E’ partita per imparare a crederci davvero nel suo sogno possibile.

E’ arrivata qui, con una valigia senza peso, il giorno della festa. E trova Robert l’inglese, che suona con le dita i suoi bicchieri e ti ci perdi a guardare quelle mani frettolose che corrono sui bordi di vetro, come chi ha perso ogni speranza e danza sul ciglio di un burrone.

Trova Coppelia delle tenebre, che morì dieci anni fa ma nessuno glielo disse. Si aggira per i vicoli bui di questo borgo declamando versi di Lucrezio e Ceronetti, gli occhi neri come il culo dell’inferno e la voce di ragazza davanti a uno stupore. Un vestito di nebbia fitta a coprire il suo scheletro inquietante. Si avvicina ad un metro dal cemento, ti si pianta davanti, con quell’anima che ha e ti sfiora il viso con un dito. E tu lo senti il freddo delle ossa sulla pelle e preghi iddio che non si abbandoni mai. Ma Coppelia fa un inchino e si allontana e a te non rimane che un rivolo di cenere sullo zigomo sinistro.

Sabrina non smette neanche per un attimo di guardarsi intorno. E di cercare le sue risposte.

Da un angolo un po’ nascosto sbuca Mirandola dei ratti, vestita di crepuscoli e curiosità. Si aggira fra la gente all’ora del tramonto con il suo corteo di topi a farle da riparo. Sono scappati da una fiaba che profumava di tragedia, sfuggiti al controllo del loro distratto romanziere. Mirandola non ha un passato, la penna dell’autore non ha fatto in tempo a descrivere i giorni che ha vissuto. Così non conosce i suoi pensieri di bambina, il batticuore e le complicazioni del destino di ragazza. Non sa cosa sia l’amore da ricevere e poi dare, le notti con lenzuola intrise di istinto e di sudore. Lei impara ogni singolo dettaglio guardando le persone che le passano vicine, prende la tua mano fra le sue, ti soffia sulla fronte. Ti ruba un singolo ricordo, uno soltanto e in cambio ti dona un topolino per farsi perdonare. Lei, curiosa come un gatto.

Sabrina è frastornata, in mezzo a tutta quella gente dimentica il rumore delle bombe, dimentica l’odore aspro della guerra. Questo è soltanto il suo viaggio e non ci vuole rinunciare. Non smette neanche per un attimo di guardarsi intorno. E di cercare le sue risposte.

In mezzo alla discesa che porta alla piazza delle erbe c’è la tenda di Alice del nigredo. Alchimista e ciarlatana, insegna filastrocche ai bambini e piaceri di altro tipo ai loro padri. Un po’ strega in calze a rete un po’ fata immacolata, additata come eretica dalle donne del paese, bramata come il vino nel deserto dagli uomini furtivi. Trasforma il metallo in oro, il vile in guerriero, medica le ferite dell’anima cantando frasi in rima.

Sabrina si affaccia all’ingresso di quella tenda, un gesto appena accennato.

–  Ti stavo aspettando ragazza della sabbia, dimmi cosa cerchi e io ti aiuterò

–  Cerco le risposte, tutte quelle che posso avere, le cerco da sempre, da quando quel boato annunciò l’inizio di un mondo che non volevo. Non le trovo, le mie risposte, maledizione non le trovo.

– Saranno loro a trovare te, è sempre stato così, fin dall’inizio dei tempi. Noi non possediamo niente, abbiamo solo l’illusione del possesso. Adesso chiudi gli occhi, segui il ritmo del respiro, pensa alla domanda, sceglila bene, senza giri di parole. Quando sarai pronta apri gli occhi e prendi la tua risposta da uno di questi calici di fronte a te. E non dimenticare mai che sarà stata lei a scegliere te.

Sabrina formulò la sua domanda, era un pensiero deciso, quasi fastidioso, puntuale come l’inizio dell’inverno, poi senza dire una parola aprì gli occhi e prese un biglietto da un calice viola.

– Questo è ciò che stavi cercando, solo tu riuscirai a comprenderne l’esattezza dell’inchiostro sulla carta.

Le due donne si guardarono per un istante lungo quasi un’esistenza, poi Alice la baciò sulla bocca e le indicò l’uscita.

Appena in strada Sabrina aprì la sua valigia, completamente vuota, portata in giro per metterci dentro le risposte, prese il biglietto che teneva tra le dita lo rilesse ancora una volta.

Lasciò fuori i timori, le paure e i ripensamenti, mise dentro solo quel biglietto, con la sua potente filastrocca.

Chiuse la valigia e partì.

– Svegliati Sabrina, è ora di scrollarsi i sogni di dosso.

La ragazza aprì gli occhi, i contorni della stanza le furono subito familiari, un rapido inventario con lo sguardo, giusto per essere sicura che fosse tutto regolare. Ad una prima occhiata non si notavano sobbalzi strani, solo un biglietto rosso arrivato da chissà dove, l’inchiostro color oro proclamava una filastrocca che suonava come una sentenza.

“Dopo una lunga guerra Re Bianco si arrese. – Mandami alla forca, dunque! – Ma Re Nero gli donò castelli, cavalli e tesori. – Non li voglio! – No? – E la guerra ricominciò”

Se questo sogno avesse una colonna sonora sarebbe questa: Dei pensieri – Ezio Bosso

L’amore forte.

C’è una bambina seduta sulla spiaggia che guarda verso il mare, in mezzo all’acqua c’è una donna vestita come un vento di Marrakesh, sembra un quadro in movimento,. qualcosa da ammirare senza farsi domande.

E’ così che funziona, le capita sempre più spesso, si alza all’improvviso dal divano, indossa qualche tipo di abito improbabile ed esce, con un’unica irremovibile destinazione. Il mare. E’ così che deve essere, in quelle mattine appena affacciate. Quella donna dall’età indefinita esce di casa per andare a fare l’amore.

Arriva alla spiaggia e sorride. Va verso quel deserto di acqua con uno sguardo di sfida, un passo sicuro e sinuoso, di chi è avvolto da pensieri scandalosi e non fa niente per tenerli nascosti. Si ferma ad un respiro dalla riva, da quel confine preciso in cui l’onda esprime il suo vigore assoluto e poi va a morire.

Alla fine si guardano, quella donna e il mare. E lo fanno forte, quasi a farsi male. E si immerge dentro, quella donna, in una distesa smisurata di acqua e tempeste, in quell’amante fragile e deciso, come un arcobaleno costante. E fanno l’amore. L’amore insicuro, delle sei del mattino, dell’acqua immobile, che quasi hai paura a metterci dentro le mani, che ci passi sopra le dita. L’amore, quello vero, quello senza ritorno, con le mani fra i capelli a guidare la testa verso una forma di paradiso. Quello che lascia i segni sulla pelle, che il giorno dopo li guardi nello specchio e ti mordi le labbra. L’amore forte, che ti graffia la schiena e l’esistenza, che ti allarga gli sguardi e i sospiri. L’amore sconosciuto del mare impetuoso, che non ti dà tregua, che ti strappa i vestiti e le voglie. Il mare indecente che fa sentire i denti sul collo e lecca le pieghe dell’anima. L’amore disperato del mare, che ti devasta i fianchi con spinte rabbiose, tenendoti in bilico fra la voglia di urlare e la fame di ossigeno. L’amore clandestino, con le spalle contro il muro e le gambe intorno alla vita. A tutta la sua vita. E lo senti arrivare quell’uragano implacabile di spasmi e lamenti e un po’ ti spaventi, ma punti i piedi, apri le braccia e lasci crollare i muscoli in quel confine preciso in cui l’onda esprime il suo vigore assoluto e poi va a morire.

In giornate come queste quella donna esce di casa, con addosso un vestito improbabile e va a fare l’amore forte. Quello che ti stravolge i sensi. L’amore di chi non sa più come fare.

Io sono Eleonora e quella donna è mia madre, o almeno lo è stata fino al giorno in cui non ha più fatto ritorno. Si è arresa a quel mare, disciolta in tutto quel mondo insidioso fatto di onde e correnti. Solo onde e correnti. A perdita d’occhio. E’ stata inghiottita da quel richiamo ammaliante.

Pioveva quella mattina, di una pioggia strana, verticale e pesante, non era un temporale arrogante, ma caduta precisa di acqua, come un velo a tinta unita, come una preoccupazione costante. Una di quelle sensazioni che hanno l’aria di non finire più. Il mare sembrava un dipinto neorealista, con la sua pelle crivellata da pallottole infinite. Era uno sguardo capace di scatenare pensieri inattesi. La strana visione di acqua nell’acqua.

Lei disse soltanto “questo cancro che mi mangia l’anima non mi avrà mai. Vivi senza fretta bambina mia e quando non sai più come fare vieni qui e guarda il mare. Mi troverai là”.

E lo faccio, ogni volta che mi scappa l’anima, lo faccio. Mi siedo su questa spiaggia e guardo quel confine preciso, in cui l’onda esprime il suo vigore assoluto e poi va a morire. E lo sento quel mare addosso, quel suo modo di abbracciarmi la vita. Quel suo modo di fare l’amore. L’amore forte.