Sopra un tram in Costa Rica.

20140801-225647-82607920.jpg
Foto presa dal web (tanto per cambiare)

Sono cresciuto all’ombra di una stazione e che mi piaccia o no, certi treni mi son rimasti dentro.

Non importa che siano stati treni presi o persi, l’importante è averli visti passare, guardati di nascosto o magari vissuti appieno. Come certi amori che incroci lungo il cammino. E non mi riferisco solo all’amore di coppia, ma a quella sensazione di benessere che provi quando una persona ti sta vicino, ti parla, ti urla contro, ti sorride, insomma, una persona che si lascia vivere.

E ognuno alla fine ama a modo proprio.

Non ci sono regole scritte, ma solo emozioni da gestire e puoi decidere se tenere saldo il timone o lasciarti naufragare, e in entrambi casi sarà comunque sorprendente ed imprevisto.

Li guardo gli amanti, immersi nel loro entusiasmo di passioni travolgenti, quelle eclatanti, quelle che ti sollevano, che ti scuotono dal profondo, che ” oddio mi manca il fiato” e poi magari ti scaraventano a terra facendoti sfracellare al suolo, si, perchè certi amori sono anche così, ma va bene comunque. Non è la partenza o la méta, quello che conta veramente è viaggiare.

Sono così, gli amanti, costruiscono rifugi e li proteggono, sono le baite in alta montagna sono le mani intrecciate in metropolitana, ladri sfacciati di baci e parole.

Li guardo gli amanti, quelli che si amano piano, quelli che si amano e lo dicono poco, quelli che si lasciano i biglietti sotto al paltò. che “si sentono” anche a centinaia di chilometri di distanza e non sto parlando di voce.

Gli amanti dei primi giorni, che si rubano i pensieri, quelli dei “incredibile, stavo per dirlo io”, o gli amanti che sognano da vent’anni, quelli dei “ti vedo ancora come quel lunedi, di una bellezza che fa male come la sposa nel vento di Kandinsky”.
Gli amanti che dissimulano sospiri in vagone rugginoso di un regionale qualunque, che si mandano le foto a distanza. quelli che “dio benica gli smartphone”, quelli che si spingono al muro sfinendosi di mani sulla pelle, che si concedono in modo sconveniente, che si corrono incontro sotto a un temporale, che prendono la metro ma hanno l’anima su una spiaggia in Costa Rica, quelli che “questa aurora dovresti vederla”, quelli che “toccami per farmi capire che esisto”, quelli che “dimmi che conto io per te, dimmelo spesso” quelli che “dimmi che mi ami, perchè non ho mai avuto nulla per cui lottare davvero”.

Sì, perchè i treni sono come certe persone, che ti attraversano la vita e rimani lì combattuto fra il fermarli e il lasciarli passare. Rilassati e goditeli che comunque ti resteranno dentro, che tu lo voglia o no.

“Se la tua amante è sincera e fedele, amala per questo; ma se non lo è, ed è giovane e bella, amala perché è giovane e bella; e se è piacevole e spiritosa, amala ancora; e se non è niente di tutto questo, ma semplicemente ti ama, amala ancora. Non si è amati tutte le sere.”. Alfred de Musset( Le confessioni di un figlio del secolo).

Per tutti gli amanti, intesi come persone che si amano.
Direi che è giunto il momento di scomodare zia Tanita. Con questa.

Come Marco Tardelli.

20140726-132825-48505126.jpg

Questo post nasce grazie ad un commento lasciato su questo blog da una persona che stimo molto.

Fumo e lacrime, un binomio indissolubile, due cose che non ti permettono di vedere con chiarezza la realtà, la intuisci, ne percepisci i contorni, ma non riesci a coglierla appieno. E secondo me non è un grosso problema.

Fumare e piangere, non si possono controllare, non ne andiamo fieri, ma fanno parte di noi, e se qualcuno ha da ridire, se qualcuno, per un motivo di cui non me ne puo’ fregare di meno, ha veramente da ridire, non so che farci, veramente.
Si piange e si fuma per le stesse cose, perche ci incazziamo, per darsi un tono, perchè siamo grandi. E fragili.
Si ecco, questo è il motivo vero. Si piange e si fuma per fragilità.

E le persone fragili non si riconoscono facilmente, non urlano, non sanno imporsi, muovono l’aria, ma lo fanno con rispetto, ridono, ma lo fanno nascondendosi il viso, non parlano, loro preferiscono ascoltare e prendere appunti, che potrebbe servire qualche frase ad effetto da tirare fuori al momento giusto, che poi…vai a trovarlo il momento giusto. Non controbattono, ma dicono “va bene” e ingoiano macigni.

Cantano, si le persone fragili cantano, e mentre cantano fumano, e piangono sull’ultima strofa de “La sera dei miracoli”.
Fanno cose strane le persone fragili, scrivono, ma lo fanno di nascosto, al riparo, e hanno ancora la Smemoranda del ’94 e ogni tanto la sfogliano e rivivono quell’estate, e magari non piangono, però si accendono una sigaretta.
Non fanno runore, non le senti arrivare e neanche partire e non fanno mai la differenza, come quella festa di fine anno a cui non sono andate e nessuno ha notato la loro assenza.

Amano, le persone fragili, ma non lo fanno vedere e nessuno saprà mai codificare la loro inquietudine, perchè loro sorridono e nascondono il viso e quello è il loro modo di dire “ti voglio bene…un po’ di più”. Stanno appese alle fermate del tram e sognano di perderlo, che magari qualcosa potrebbe cambiare. Ma non lo perderanno, lo sanno già e allorano nell’attesa fumano, piangono e nascondono il viso.

Camminano piano le persone fragili, si riparano al buio di portoni, studiano i passanti e si accendono una sigaretta e se ne stanno in silenzio ma vorrebbero urlare, si cazzo, per una volta vorrebbero urlare, come Tardelli, e uscire allo scoperto, con la loro maglietta azzurra e il numero 14 sulla schiena e non fermarsi, mandando a fanculo le lacrime e le sigarette.

Le persone fragili hanno una fottuta voglia di essere scoperte, hanno un bisogno disperato che qualcuno si prenda la briga di conoscerle. Veramente. Di spogliarle piano dai loro timori, di un qualunque angelo rinnegato, arrivato da chissà dove che si avvicina al loro orecchio sussurrando “io ti vedo”. E capire non c’è niente di così spaventoso nell’essere visti.

Forse non le vedi le persone fragili, o forse sono loro che non vogliono vedere te, nascondensosi gli occhi tra una lacrima e una boccata di fumo. Poi si nascondono il viso dicendo “va bene così”. E deglutiscono.

Ah si, quasi dimenticavo. il commento è questo “Mi hai fatto venire voglia di ricominciare a fumare, o di ricominciare a piangere, e, in fondo, non c’è molta differenza, sono due vizi e due cose “belle” alle stesso tempo, e tutte e due, se esageri, possono ucciderti.” E lui è Erre che, non a caso, ha smesso di fumare.

“La fragilità del cristallo non è una debolezza ma una raffinatezza.
Christopher McCandless

Sperando che ogni sera possa essere “la sera dei miracoli”.

Le libellule e il lampione.

20140719-221649-80209640.jpg

C’è un posto, appena fuori città dove le persone vanno a pettinarsi la vita.

È un parcheggio, di quelli con un solo lampione che a malapena ti permette di vedere oltre il vetro dell’auto, è il posto di coloro che riescono ancora ad assaporare emozioni. Di quelli che hanno ancora bisogno di frugarsi nell’anima.

Ogni città ne ha uno, è il posto adatto per liberare emozioni, che volano come libellule e si incontrano fra loro riconoscendosi fra mille.
Ci sono auto con gli amanti che si baciano, auto con dentro due amici da una vita che ascoltano i Jetrho thull con una birra sul cruscotto, auto gonfie di musica e di sere accellerate che si fermano a riprendere fiato, altre con qualcuno dentro che viene qui “a dar la nanna un pò ad un altro brutto giorno” (come dice il buon Luciano).

È il posto dei sogni interrotti, delle sigarette fumate guardando il carro dell’orsa maggiore, delle teste cariche di pianto appoggiate sul volante, degli “stavolta è davvero finita” e degli “è talmente bello che fa quasi male”, è il bicchiere di vino in una sera di luglio, il tempo passato a prendere a schiaffi i tormenti.
È la terra consacrata degli amori impossibili, delle mareggiate emotive, degli spruzzi di allegria, dei baci rubati i respiri condivisi e le parole non dette. Che in quel posto lì le parole non servono veramente a un cazzo.

È il luogo delle cose fuori posto, quelle che fuori da lì devi nascondere per essere “normale”, è il muro degli “Anna ama Luca” ma anche dei “Marco ama Andrea”, che lì i pregiudizi se ne vanno a fanculo, che tanto quel lampione non fa abbastanza luce per svelare le confessioni degli sguardi.

È il giardino dei sognatori, delle porte sbattute in faccia, dei pugni presi e mai ridati, del padre e della figlia che si tengono per mano, del ladro e del santo che giocano a carte, delle speranze di monetine lanciate nelle fontane.

È la nostra scatola nera, quella che si trova due dita oltre la parete del cuore, che non la vediamo, ma sappiamo che c’è.

È fuori città, ha un solo lampione, non potete sbagliare, se chiederete ai passanti e vi prenderanno per pazzi significa che siete sulla strada giusta.

Amore è tutto ciò che aumenta, allarga, arricchisce la nostra vita,
verso tutte le altezze e tutte le profondità.
L’amore non è un problema, come non lo è un veicolo;
problematici sono soltanto il conducente, i viaggiatori e la strada.

Franz Kafka

Per entrare nel mio parcheggio, da sempre, chiudo gli occhi e metto questa

Quando Roberto sorride.

Per gentile concessione di Barby
Per gentile concessione di Barby

Il mio amico Roberto non si chiama Roberto, tanto per cominciare.

È un tipo strano, anzi, stravagante direi, muove le mani in continuazione, ma in modo delicato, come se fossero farfalle, le persone parlano con lui e intanto si scambiano piccole gomitate d’intesa fra loro. Lui fa finta di niente, ormai credo non ci faccia più nemmeno caso. E sorride.

Parla, parla in continuazione, non fa dire una parola e con un tono di voce alto, troppo alto, che la gente non riesce ad ignorarlo, e fanno una faccia infastidita, ma lui si fida ad occhi chiusi della gente. E sorride.

Roberto si veste da schifo, colori che non ci combinano un cazzo fra di loro, ma profumano di sole, però dai Roby, la maglia blu sui pantaloni gialli è un cazzotto in un occhio. La gente gli fa una foto e la condivide sui social commentando “oggi Fufy è in forma”. Lui si mette in posa. E sorride.

Roberto sa di fragola, a volte anche di panna, e ha le labbra di creme caramel, certi giorni è una torta mimosa, altri una crostata di mirtilli, la gente gli passa vicino, lo annusa e scuote la testa. Lui saluta. E sorride. Roberto, non fa sport, lui fa il tifo, si esalta, grida e si sbatte come un ossesso e non importa che sia una finale mondiale o una partitella fra scapoli e ammogliati, lui fa il tifo. Comunque. La gente si sposta e lo fa passare, non lo vogliono alle spalle. Lui va in prima fila. E sorride.

Roberto è biondo, cioè sarebbe moro, ma è biondo, si aggiusta il ciuffo e muove la testa e lo fa spesso, troppo spesso e mentre lo fa si guarda intorno e si guarda spesso intorno. E sorride.

Roberto lo conosco da una vita, siamo cresciuti insieme e ve lo posso assicurare, non è un tipo che sorride. Roberto è uno che si incazza. Si alza alle dieci, ma si sveglia dai suoi sogni un paio di ore più tardi, vuole avere sempre ragione, ma poi ci ripensa e chiede scusa, si contraddice è un tipo che ti tira le parole e il bagnoschiuma alla vaniglia.

Sulla parete verde della sua camera da letto c’è una frase di Ruben Dario che dice “Quando va il mio pensiero verso di te, si profuma”, si, dice proprio così e se guardi più in basso vedi la laurea in filosofia, ma devi guardare bene, perchè è semi coperta dal foulard di chiffon. E c’è anche il quadro di Oscar Wilde. E quello si vede benissimo.

Non ride Roberto, quando è da solo si lascia mangiare dai pensieri, e c’è veramente poco da ridere, perchè lui non è forte, gli stronzi sono forti, dice lui, e se ne batte il cazzo, vuole piangere quando gli pare.

Me lo ricordo Roberto, a fare la pista per le palline dei ciclisti su una spiaggia che mi sembra ieri, certe volte è ancora quel bambino pelle e ossa. E già allora me lo ripeteva spesso Roberto “Fra’ io in questo mondo non mi trovo”.

Probabilmente fu in quel periodo che iniziò a sentirsi a disagio.

E non si arrende, a suo modo si difende, no, non si è messo a tirare cazzotti, ogni tanto ne prende uno, ma non fa niente. Ha solamente imparato a sorridere. Della gente che rideva di lui.

Perchè Roberto che non si chiama Roberto non chiede mai niente, vorrebbe soltanto non aver bisogno di sorridere.

Roberto sono io quando me ne frego e esco di casa con la maglia di Charlie Chaplin, è mia madre quando sbaglia i congiuntivi nello studio del dentista, è mio padre quando canta le canzoni degli anni sessanta inventando le parole. È ognuno di noi quando ci sentiamo fuori posto e vorremmo sedere in ultima fila. Almeno per una volta. Una volta soltanto.

“Nessuno può essere libero se costretto ad essere simile agli altri.” Oscar Wilde.

Dedicato a tutti coloro che riescono ancora a dire “…ma si….’sticazzi”. Nonostante tutto.

Direi che questa ci sta tutta. Non cadete nella trappola, sostituite lei con un lui.

P.S. Un ringraziamento particolare alla mia amica Barby Di Cronache di un pigiama rosa per avermi regalato una delle sue splendide foto

Alice si è persa nel “Deserto”

20140706-105025-39025362.jpg

Lo ammetto, la Big City mi mette ansia, mi innervosisce un po’ e solo l’idea di doverci andare inizia a disturbarmi già da tre giorni prima.
Non è grandissima la mia Big City, no, non è Roma, neanche Milano, no, quelle sono davvero troppo Big per noi gente di provincia, non scherziamo, sono fuori dalla nostra portata, non riusciamo neanche a concepirne l’idea, troppa gente sconosciuta, troppe cose strane, ci sentiremmo fuori posto, come quando vai ad una festa con tantissima gente e cerchi disperatamente lo sguardo di qualcuno che conosci, giusto per sentirti un po’ a tuo agio. Ma nelle smisurate Big City qualcuno che conosci non c’è mai.

No, ci basta la nostra media Big City per farci sentire come se fossimo vestiti da metalmeccanici al raduno degli azionisti Fiat, e allora cerchiamo di nasconderci un po’, almeno, io lo faccio eccome, cerco il barretto fuori mano, dove fanno il panino classico dei posti fuori mano, accompagnato da un bicchiere di Coca che sa di Sprite e il caffè che sa di fosso.
Ieri mi sono spinto oltre, sono andato decisamente fuori mano, avete presente quelle strade di confine, quelle che sei ancora nel perimetro cittadino ma se lanci un sasso cade in un’altra provincia? ecco, quelle strade lì, che costeggiano i container del porto e i fumi della zona industriale, mi sentivo decisamente al sicuro, talmente al sicuro che al posto del solito panino scongelato a metà ho preferito cercare un posto qualunque per mangiarmi un piatto di pasta.

E girato l’angolo della raffineria che appesta mezza città lo trovo, “il deserto”, è il nome del locale, cazzo è perfetto, entro.

Solo che…era strapieno e ci saranno state una ventina di persone che smadonavvano aspettando che qualche stronzo si decidesse a liberare un posto. Almeno queste erano le parole del marchese Unto de Untis che attendeva davanti a me.
Come fanno un po’ tutti mentre sono in fila ad aspettare, inizio a guardarmi intorno e a studiare la varia umanità che affolla quel posto.
Niente tavoli singoli, solo tavolate di persone sconosciute fra loro che mangiano gomito a gomito e si passano la lanterna del vino.

E allora mi sono reso conto che nel giro di 60 metri quadrati ci saranno state 120 persone tutte diverse, e che in quel “deserto” avresti potuto trovarci chiunque, dal direttore di banca con la camicia inamidata al camionista con il tatuaggio di Padre Pio, dalla segretaria pettinata come Grace Kelly alla mignotta persa nei suoi pensieri con la forchetta a mezz’aria, lo sguardo verso il pontile e un sorriso a metà, che ricorda Lili Marlene dell’Alice di De Gregori, si la ricorda eccome.

Si ok, sorvolo, sulla cameriera che ti porta i bicchieri che ustionano e ti guarda come dire “ciccio, so’ usciti dalla lavastavoglie, che cazzo guardi” e tu pensi che al posto del brillantante abbiano messo la lava dell’Etna, sul fatto che ciò che devi bere lo decidono dalla cucina, e non si discute, si, ok, il mangiare lo scegli tu, ma non ti allargare. E allora ripieghi su una sicura frittura e quando arriva la tipa dei bicchieri esclama “cocco, è tua la piattata di paranza e scoppiettini?”….”ehm…si…”….”oh, guarda che se un è tua torno e te li levo anche se l’hai biascicati” (detto in dialetto). E così mangio alla svelta, incrociando le dita nella speranza che “la piattata” sia veramente mia, e cercando di capire che diavolo siano gli “scoppiettini”.
E il caffè, ecco il caffè te lo bevi nel bicchiere di vetro, non ci son cazzi e se ti azzardi un “in tazza per favore”, il Mastro Lido dietro il bancone ti guarda torto …”seee certo, in tazza…ma vaffanculo va”. E intanto distribuisce il ponce al rum come se piovesse.

E lì, in quel “Deserto” non importa a nessuno chi sei, non sono li per giudicarti, puoi vestirti in giacca e cravatta o con la tuta costellata di olio sudore e bestemmie, è uguale, la cameriera ti guarderà il culo comunque, l’acqua te la porteranno del rubinetto comunque e il caffè sarà nel vetro, sempre, comunque.
Si, è un pò il paese delle meraviglie, la cameriera è la regina di cuori, il ragazzo dell’acqua lo Stregatto e il barista il cappellaio matto, sicuramente ci sarà anche il Bianconiglio, magari è in cucina a far ballare i coperchi e le padelle, che ricicla gli avanzi di scoppiettini e ci fa un cacciucco. Lili Marlene la troverai sempre sempre seduta nell’angolo in fondo a destra, che guarda oltre i vetri, sospira, non mangia e risponde alle telefonate dei clienti. Ma tutto questo Alice non lo sa.

Come dici? Il caffè lo vuoi in tazza?…ma vaffanculo va.

Il deserto non è deludente, neppure qui, su questo limitare, dove comincia appena. La sua immensità sovrasta tutto, ingrandisce tutto e, in sua presenza la meschinità degli esseri si dimentica“. Pierre Loti

Questa è la mia Big City