Alice Settegatti.

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Alice non sorride, Alice che ha paura, lei vorrebbe solo giorni a perdifiato, Alice ha sette gatti e una vita che non vuole, parla senza sosta per non farsi capire.

Alice ha un’armatura di acciaio e filo spinato, lei vive in un castello con un drago per amico, Alice sta al sicuro dentro alla fortezza, ha chiuso fuori il mondo per curarsi le ferite, perché certe persone andrebbero evitate, lei vive di parole e mastica emozioni.
Alice con la sua spada attende un’altra guerra, prenderà il suo scudo e attraverserà il suo regno, lei giura amore eterno solo alla sua solitudine e vive di boati e pugni contro i muri.
Alice capelli neri e sguardo contro il cielo, lei con il fuoco asciugherà i suoi mari, lotterà nelle notti piene di paure, lei che ha messo il cuore dietro la trincea, niente potrà colpirla nell’anima perché ha imparato a schivare le frecce degli inganni.

Lei che ha dato in pasto amore e giorni rosa a chi ne ha fatto cenere lanciata contro il vento, adesso le sue mani scavano fossati, per non sentir più dire “non sei come credevo”, e scocca le sue frecce piene di parole, come palle di cannone contro chi passa il confine, ha alzato barricate e ha messo sentinelle e non ne vuol sapere di lasciarsi andare.
Alice col rossetto scrive sopra i muri “se ti avvici sparo, perciò non mi sfidare”, con il suo bazooka gira per le strade, la gente si allontana, meglio lasciarla stare, a chi le lancia frasi risponde con occhiate piene di mascara e ti scaglia addosso sorrisi di veleno.

Alice ha la pistola caricata a salve, la spada è di cartone e il drago è il Bianconiglio, la chiave del castello è sotto lo zerbino, lei vorrebbe solo che qualcuno la trovasse, ma ci vuol coraggio a dirle “spara pure, non ho paura del cannone, non voglio indietreggiare”, perché lei aspetta un folle che le dica “io ci sono e ti aspetto da una vita”. Lei sogna il suo guerriero vestito d’illusioni, che le tolga l’armatura e sciolga i suoi capelli, che la sfiori con le dita e la guardi riposare, che sappia interpretare i suoi silenzi di frastuoni, che rimanga quando lei esplode in metafore al veleno. Lei vuole un sogno preso contromano che scavalchi le sue mura, che la faccia piangere e volare, bellissimo e imperfetto, qualcuno che riesca a vedere oltre le sue parole, che la porti per mano dentro le sue paure.

Alice ha sette gatti e un drago sotto il letto, l’armatura nell’armadio e un bazooka giù in cantina, il suo rossetto in una mano e con l’altra tiene stretta quella di un guerriero senza spada.
Alice non ha fretta, il suo cielo è più sereno, ascolta le parole, ha un sogno da cullare, aspetta il giorno giusto per essere felice, intanto prova a fidarsi senza lasciarsi andare.

“Io sono una selva e una notte di alberi scuri, ma chi non ha paura delle mie tenebre troverà anche pendii di rose sotto i miei cipressi.”
(Friedrich Wilhelm Nietzsche)

Perché c’è sempre qualcuno che lancia Polvere nel vento.

Morgana Nientebaci.

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– Primissimo piano -.
Due occhi castani, ma tiri ad indovinare perché non distingui bene il colore, occhi veloci, che sognano vallate e spazi infiniti, orizzonti di rondini e fruscii, occhi che nascondono tempeste e solitudini, sogni di bambina e barche a vela. E li nascondono talmente bene che se li guardi ci vedi solo labirinti di voci soffuse.

– Primo piano -.
Un viso di strade scavate, di fughe e di ritorni, di pomeriggi di febbre e rincorse, di carezze ricevute senza amore, di sorrisi disegnati col pugnale. Un viso che ha sentito sussurri non voluti, parole come sassi, respiri di sudore e spazzatura.
Odori di banchieri e clandestini, ministri e mendicanti, di doppiopetti e jeans strappati, di camicie inamidate e maglioni che sanno di tabacco e vino rosso.

– Mezzo busto –
Un collo di vene da baciare, di collane e bagnoschiuma, di regali mai voluti.
Due spalle di abbracci, di gioielli senza senso, di fatiche prese a nolo.
Seni di abbracci detestati, di mani ruvide di vetro, di bocche come draghi nel deserto, di lingue come lava nei polmoni.

– Piano americano –
Un corpo di diete e corse folli, di divani e perizoma, di schiena come a dire “passami le braccia sulla vita” non inteso in senso fisico.
Di cosce aperte senza anima, come quando “sto immaginando di essere altrove”, di gambe piegate e ginocchia su tappeti di chiodi, per regalare piaceri umilianti e spasmi nelle reni.

– Campo lungo –
Un letto a due piazze dove mettersi in croce aspettando il martirio, luci soffuse e profumi orientali, di incenso, solitudini rabbiose e istinti viscerali, pareti decorate di rimpianti e di vendette, materassi di illusioni per stenderti andando via da te, sotto a una voglia che striscia disperata, come un fiume asciutto dentro ai fianchi.
Evadere in un mondo di notti verdi e luci al neon, un posto di cieli chiari e rosmarino, per non dover vedere lo schifo di alberghi scintillanti, dove poter scegliere di non vendere il corpo ad ore, dove trovi nel cassetto bolle di sapone e sogni blu e mai preservativi e calze a rete.
Un posto dove nessuno è un’isola e l’anima non si incarta nel denaro, dove non serve essere Morgana, ma Patrizia può bastare, dove il tempo inganna gli orologi e i giorni non si perdono sul fondo di un’estate.

Una finestra che si affaccia su viali a perdifiato, in clacson accelerati e sui vetri la tua voglia di volare.
Adesso sei Patrizia, adesso respira forte, adesso togli i tacchi, cammina a piedi nudi, accendi la tua radio, lo senti? C’è Peter Gabriel che canta Shock the monkey, ti viene voglia di ballare, ti viene voglia di dire “ce la posso fare”.
Registrati i pensieri, adesso sei Patrizia e vieni da lontano, hai incendiato i progetti di ragazza, hai perso per strada i sorrisi le illusioni, hai incontrato i tuoi miraggi e li hai lasciati lungo il fiume, ma stai tranquilla, stanno bene. Stai per metterti a cantare
Ma bussano alla porta. Ricordati Morgana: niente baci.

– Campo lunghissimo -.

“Le prostitute sono più vicine a Dio delle donne oneste: han perduto la superbia e non hanno più l’orgoglio.” (Anatole France – Il giglio rosso)

Tori Amos: Cornflakes girls

L’aquilone di Cristina

Immagine presa dal web.

Lei è Cristina e sta dormendo, vorrebbe soltanto evitare di sognare.

Se la guardi da lontano non riesci a capire, se ti fermi a parlare ti racconta una storia.

Si mangia le unghie e ti parla, si sistema i capelli e respira di fretta, ti guarda indecisa, prende la mira e poi spara. E scaglia parole come sassi contro i vetri di una chiesa, e ti dice che lei ha scelto di essere folle, che se la compatisci si incazza, che il suo male lo ha cercato, amato e fortemente voluto. E con due occhi nerissimi sorride e racconta che “non si sfugge alla propria follia sforzandosi di agire come la gente normale” e te lo dice mentre ti guarda la bocca, per non incrociare il tuo sguardo, perché se la guardi negli occhi rischi di vederli davvero quei giorni passati allo specchio, quei pranzi non fatti, che ad ogni chilo in meno si sentiva più forte, che non era mai abbastanza ciò che aveva. O forse, semplicemente, era troppo.

Se la guardi negli occhi la vedi bambina, su una spiaggia a settembre a guardare aquiloni, e la vedi a dieci anni e ne riconosci lo sguardo, tiene in mano un pupazzo e si morde le labbra. Se la guardi negli occhi lo vedi quel giorno, il momento esatto in cui ha deciso di avere un riflesso diverso, l’attimo preciso in cui ha scelto di non essere più trasperente e per farlo doveva solo scomparire. Solo un po’.
Se la guardi negli occhi lo capisci il desiderio che aveva, un desiderio di perfezione, la voglia disperata e normalissima di essere notata, che ogni sguardo in più era una vittoria, ogni sorriso rubato una boccata di vita. Se la guardi davvero le vedi le ali, che due braccia leggere sono quasi d’impaccio, che per volare via dalla vita non serve poi molto, basta volerlo davvero.
E lei te lo dice di aver scelto il suo male, che non si sente una vittima dei suoi giorni allo sbando. Che era come un regalo vedersi bella e sicura. Quasi onnipotente.

Se la guardi negli occhi lo vedi ancora che è rimasta sospesa, sta lassù e ti guarda e cammina sul filo, con il suo equilibrio di passi sicuri, con le scarpe di tela e il vestito più chiaro a coprire i suoi diciassette anni e i trentasette chili. Ed era tutto perfetto.
Se la guardi la vedi la sua ossessione strisciante, le ha distorto i pensieri, un dolore dolcissimo che ti accarezza con la lingua di un cobra, che ti cura e ti tradisce e non rinuncia a donarti complimenti e veleno. Che ti nutre di illusioni e intanto lei ti mangia l’anima, che ti porta verso un peso che non esiste facendoti innamorare alla follia.

Se la guardi negli occhi lo vedi che è caduta da quel filo, che c’è sempre una soluzione alla fine di tutto. Anche quando tutto è già finito. Lo vedi che è stata cacciata dal suo paradiso, che qualche angelo le ha strappato con forza le ali, ché se voli ad oltranza rischi davvero di non atterrare mai più.
Lo capisci che è stata in luoghi dove esiste solo l’inverno, che ha visto galere senza sbarre, che certi muri se li porterà per sempre nel doppiofondo dell’anima. Una contrabbandiera di specchi, fili sospesi, ali di carta. E aquiloni.

Lei è Cristina e se la guardi adesso non lo diresti che stava scomparendo, ti parla ed è bellissima, anche se non aspetta principi, la guardi e proprio non te la immagini chiusa in bagno con due dita in gola a vomitare yogurt e paure, in giro tra la gente a ridere per dispetto. Ma lei te lo dice di essere una ragazza anoressica con un corpo sano in prestito, che non è morta, lei è restata, senza però esserci mai veramente. Che a pensarci è come morire. Lei è restata ma non sa dove andare.
Te lo dice che ci sono ancora giorni d’inferno in cui cerca disperatamente le sue ali e gesticola e parla e te lo dice, che non si pente delle sue scelte sbagliate.

Ha bisogno di innamorarsi, ne ha bisogno davvero, ma questo non te lo dirà mai, perché certe emozioni la spaventano a morte, è la voglia inspiegabile di prendersi cura di qualcuno, il desiderio incostante di donare sospiri. Lei vuole amare e incazzarsi, strappare baci e camicie, fare l’amore e annoiarsi, lei vuole Breva e Tivano, vuole carezze e rancori e giorni pieni di vita.
E se la guardi negli occhi lo capisci che è ancora su quella spiaggia. Ed ha di nuovo sei anni. Anche se non te lo dice.

Lei è Cristina e sta dormendo, quando si sveglia avrà trent’anni, non ha bisogno di volare, chiede solo di non sognare. E di inseguire un aquilone.

La bellezza non è che il disvelamento di una tenebra caduta e della luce che ne è venuta fuori. (Alda Merini).

La canzone non poteva che essere questa: Superchick – Courage.

Il carro dell’Orsa Maggiore.

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C’è una distanza incolmabile, una misura infinita, un punto perso nel nulla, fra la disfatta e la vera gloria.
Sono i millimetri che ci separano da un bacio.

Quella è l’unità di misura dell’anima, il confine fra un sorriso e un sospiro, la chiave che serve ad aprire il carcere del cuore.
È lo spazio tra un pianeta e il suo satellite, lo squarcio di un’emozione messa a lutto, la distanza fra il vivere e il sopravvivere.
È il percorso che separa i respiri, il sogno allo specchio di un salto senza rete, il secondo più lungo di un giorno immortale.

Sono quelli, i millimetri che ci impediscono di mescolare le nostre esistenze, è la voglia che urla di non stare più soli, quel battito improvviso come nella notte un tuono, un passaggio di stelle fra l’anima e la pelle, il sentiero che ci lascia qui, liberi e servi.

È quel tempo meschino, che fa crescere una fame incessante al gusto di rivolta e rassegnazione, quel vento di uragani che ci sfiora le mani, è l’attimo eterno prima di staccarsi piano per salpare via da un molo, il nostro sguardo intatto di latitudini da esplorare, la realtà di marciapiedi che si scontra con le vertigini di un’illusione clandestina.

È quello spazio di cielo più sereno, dove tirare tardi fra sbuffi di incoscienza e di impaziente frenesia, è la buona compagnia dentro una cantina d’inferno, un’esistenza passata in attesa fino a scordarsi per quale motivo dover respirare.
Sono gli anni passati a guardare il nostro brivido di fronte, il percorso di un viaggio indeciso contro un richiamo ammaliante.

È quella, la distanza più difficile, quella che separa due labbra, che non sono due labbra, sono due vite, non sono due bocche, sono due costellazioni e se le guardi vedi il carro dell’orsa maggiore, non sono due corpi, sono due voci che vibrano insieme e se le ascolti senti Maria Callas in Casta Diva.

Quel bacio è lì, in attesa, aspetta solo un atto di coraggio.
Io di strada ne ho fatta e sono arrivato fin qui, di quel bacio ne sento il sapore, però ti prego, questi due millimetri adesso falli tu.

“Beato cioccolato, che dopo aver corso il mondo, attraverso il sorriso delle donne, trova la morte nel bacio saporito e fondente delle loro bocche.” (Anthelme Brillat-Savarin, Fisiologia del gusto).