Certi alberghi

Ho bisogno degli alberghi, questa è la verità, ma non quelli di lusso, no, quella è roba fatta per gente con i soldi, che va lì per lavoro e per scopare. No, io ho la necessità degli alberghi di terza categoria, quelli un po’ decadenti con gli armadi che si portano dentro l’odore di muffa e naftalina. Ammesso poi che ci sia, un armadio. Devo avere i mobili datati, un po’ dozzinali, con il tavolo graffiato, la sedia che dondola e tutto il resto. E mi ci perdo con quegli alberghi lì. Metto un po’ di blues in sottofondo. E mi ci perdo. E scrivo.

Io devo scrivere. Questa è la verità. Voglio dire, non è uno sfizio, è proprio una questione di sopravvivenza, tipo respirare, ecco, scrivere è quella roba lì. Ma è anche farsi del male, perché tocca andare a strapparsi qualcosa dentro, non parlo solo di sofferenze, ci mancherebbe, anche se scrivi una cazzata, una scemata qualunque, ecco, anche in quel caso, hai dovuto metterti lì e ascoltarti e farla uscire quella cosa. E non c’è niente da fare, appena la scrivi non è più tua. Questo è sicuro.

C’è stato un periodo che scrivevo in auto, mentre guidavo, cioè non è che facessi materialmente entrambe le cose insieme, mica sono così scellerato, no, guidavo e scrivevo, con la testa intendo. Non serve per forza avere carta e penna o magari una tastiera per scrivere qualcosa, no, quello è semplicemente il risultato finale. Guidavo e con la mente ero già là, che non è un posto preciso, è semplicemente “là”. Oddio, non è che andasse sempre tutto liscio, ogni tanto bucavo le uscite dell’autostrada e invece fermarmi a Parma mi ritrovavo a Luino, per dire.

Poi c’è stato il periodo dei treni, ma non quelli belli e luccicanti eh, no, i miei treni erano i regionali, quelli dei ragazzi pendolari, degli operai delle acciaierie che tornano a casa portandosi addosso la certezza che prima o poi qualcosa dovrà cambiare e l’odore della consapevolezza che non cambierà mai un cazzo di niente. Scrivevo lì, nel bel mezzo di un vagone di seconda classe, in mezzo a tutte quelle vite che mi giravano intorno e io che ne rubavo un pezzetto per me. Come quando strappi una pagina di un libro e la metti nel portafogli.

Ma negli alberghi, porca puttana, negli alberghi c’è una catastrofica dolcezza, che certe giornate come fai a resistere. Giornate quasi normali o dannatamente complicate, che stai lì nella merda fino al collo, che boh, non hai i soldi per arrivare a fine mese, la Juve ha perso, hai chiuso una storia d’amore…che ne so, cose così, normali e devastanti. Ecco, in quei giorni lì ho bisogno di stare in un albergo, a fermare il tempo. O almeno, a rallentarlo un po’. E neanche mi ricordo di mangiare, è proprio una dimensione parallela, sei tu, solo e la tua vita seduta accanto a te che si fa i cazzi suoi.

Mi sono sempre chiesto come cazzo fanno i pianisti a stare seduti davanti a tutti quei tasti, ma ore e ore, a far scorrere le dita senza stancarsi mai, cioè, mai uno che si alzi e dica “oh basta, mi sono rotto i coglioni”, no. Stanno lì, ma giornate intere eh, a creare musica, persi in quell’oceano di note. Vita e note, tutti giorni. Incredibile.
O i pittori, cazzo i pittori sono assurdi, prendono una tela bianca, un pennello e qualche colore e tirano fuori un paesaggio, un volto o comunque roba geniale. Magari hanno davanti, che ne so, una discarica e sbam! Dipingono un tramonto. Ma dove diavolo ce lo vedono il tramonto in una discarica. Devono aver dei gran casini nella testa, i pittori.

Gente strana, i musicisti, i pittori, gli artisti di strada, ma anche i pendolari dei treni, le mignotte d’alto borgo, i manager incravattati, o i ragazzetti che si baciano sui tram, quelli che rimangono appesi a un lampione aspettando qualcuno che non arriverà, o gli altri, quelli che stanno insieme da quarant’anni e ancora si tengono per mano.
Persone così, gente strana davvero. Io invece no, a me basta stare chiuso in questo albergo a scrivere di loro.

Tra il mento e la spalla.

Anche stanotte ho fatto l’amore sul tetto.
Ho aspettato che spegnessero le luci della città, che scendesse la quiete nelle case, nella vita frenetica delle persone. C’è un momento preciso in cui tutto si placa, quello in cui il groviglio dei pensieri si dissolve, è un attimo sospeso fra l’eco di oggi e l’illusione di domani. In quell’istante preciso salgo sul tetto, lancio il cuore in quella finestra socchiusa, prendo il violino e divento l’amante sfacciato, l’impostore arrogante. Non è solo musica, è istinto primitivo, è il connubio perfetto fra melodie, amplessi e sudore. Lo facciamo così. Ogni notte. L’amore.

Di giorno c’è troppa gente in giro, auto, tram, passanti, cazzi e mazzi e mica puoi startene a fare l’amore sulla cima di un tetto, ma di notte tutto diventa possibile. La sua finestra è lì, a portata di mano, basterebbe scavalcare un paio di balconi, roba da niente. Ma quelle sono scene da film, riservate ai coraggiosi. Quelli come me hanno l’animo pavido. Quelli come me preferiscono farsi male a distanza, preferiscono farlo a occhi chiusi, abbracciando un violino. E’ l’unico stratagemma che abbiamo per farlo senza rimpianti, l’amore.

C’è stato il tempo dei teatri pieni, con quegli occhi addosso e io su quel maledetto palco con un faro puntato dritto in faccia, che neanche riuscivo a distinguerle tutte quelle persone che stavano lì in attesa della prima nota. Facevo l’inchino, a occhi chiusi, l’archetto nella mano destra e incastravo tutta la mia vita tra il mento e la spalla. E suonavo. Scorrevano le dita sulle corde, quasi a volerle soffocare, scorreva l’archetto lungo quel manico di legno infinito, scorrevano tutti i miei rimpianti mescolati con la musica.

Ma la vita reale è altra cosa, voglio dire, non puoi avere la presunzione di capire il mondo standotene impalato nel bel mezzo di un palco con un faro puntato in faccia. Sono sparito, all’improvviso, senza dare spiegazioni. Ho smesso di suonare per i signori annoiati, per le donne appariscenti, per gli aristocratici e i morti di fame che si imboscavano ai concerti. Ho smesso di suonare per dovere e ho iniziato per farlo per gli amanti sotto i portici, per le puttane di strada, per i ragazzini impertinenti. Ho iniziato a suonare per le madri che lottano, per quelli che la vita se la sputano nelle mani, per la disperazione di certe giornate, che proprio non sai più come fare. Sono sceso da un palco e ho iniziato a vivere davvero.

Sono uno di quelli che di giorno suonano nelle piazze sconosciute, senza preavviso, mi piazzo in un angolo, e gioco a fare dio con la vita degli altri. Immagino momenti che non vivranno mai, dispiaceri e passioni che non sanno di avere. Li guardo passare, tutti quanti e improvviso la melodia della loro esistenza.

Ma è di notte che si vive davvero e allora lascio scorrere questo alveare di pensieri che mi prude in gola, salgo quassù, aspetto che la luce della sua finestra vada a morire e incastrando la vita fra il mento e la spalla iniziamo a farlo davvero. Ogni notte. L’amore.

I HAVE A DREAM.

“Cosa vuoi fare da grande?” quante volte ce lo siamo sentiti dire. Io avevo l’ansia di questa domanda, perché ero un bambino timido, decisamente, troppo timido e vivevo nel timore costante di essere inopportuno. La verità è che non lo sapevo cosa volevo fare da grande, ma mi affasciavano i mestieri alternativi, tipo lo spazzacamino, lo zampognaro, l’arrotino, cose così. E ogni volta che provavo a rispondere si creava sempre un imbarazzo palpabile fra i parenti. Perché diciamocelo, nessuno vuole un figlio o un nipote zampognaro.

Ero terrorizzato da quella domanda, incrociavo le dita e supplicavo il cielo che nessuno me la facesse, un po’ come faceva mia zia quando le chiedevano del fidanzato, lei che aveva trentadue anni ed era ancora zitella. Che essere zitella a trentadue annii negli anni settanta era peggio che essere mignotta.

E allora, per non deludere nessuno, i miei sogni li inventavo, lì sul momento. Dicevo di voler fare il cantante, il pilota, senza specificare di cosa, così, un pilota generico. Poi il calciatore, il medico, il rigattiere, cioè, che cazzo fa un rigattiere? Non si sa, ma io volevo farlo.

Poi sono cresciuto e anche i desideri della vita sono cambiati, sognavo l’amore, il divertimento, la frattura di tibia e perone della prof di latino. Sognavo il motorino, o almeno una bicicletta decente, sognavo….sognavo di andare allo stadio con mio padre e di tirare un rigore a Stefano Tacconi. E poi sono cresciuto ancora e man mano che crescevo il livello dei sogni si abbassava. Sognavo di pagare le rate del muto, della macchina, della bicicletta che finalmente era decente. Sognavo di andare in centro e trovare parcheggio, per dire. Anche a pagamento. Che lo vedi da lontano quel rettangolo dal perimetro blu, è vuoto, lo punti come Salvini punta le navi delle ONG, deve essere tuo, è un po’ stretto ma pazienza, fai settecento manovre, non ci pensi neanche per il cazzo di cercarne uno più largo, vuoi quello. Alla fine hai due braccia come Ivan Drago in Rocky IV, scendi e tutto sudato ti dirigi al parcometro che si trova più o meno a un chilometro e mezzo di distanza. Servono monete, trovi venti centesi per caso, puoi restare ventisette secondi, accetti, premi invio ma….per avere il tagliando devi inserire la targa. Ma non hai tempo di tornare alla macchina e leggerla e allora ti sforzi di ricordarla…”aspetta com’erà?…ah sì, gli anni di Cristo, seguiti dalla data di nascita del cane, poi…Genova Rosignano…no aspe’ forse era un’altra autostrada…ah sì, la Milano Bologna…no…” Puoi dimenticarti tutto, ma se parcheggi e dimentichi la targa è finita la vita!

Poi ho iniziato a sognare di avere ciò che vedevo in tv, ciò che sentivo alla radio, tutta una miriade di oggetti di cui ignoravo l’esistenza e soprattutto, di cui ignoravo la necessità di volere. E così ora sogno caldaie a condensazione, zanzariere oscuranti, pancere contenitive e assorbenti discreti per le perdite urinarie. Sogno tutto, copro tutti i target, dai prodotti per famiglia a quelli per anziani, dagli shampoo per la calvizie a quelli per la forfora. Sogno il montascale del vecchietto sorridente, a volte sogno di avere anche il vecchietto, poi però mi passa. Mi sono fatto crescere la barba solo per potere avere rasoi elettrici precisi e performanti, dopobarba rinfrescanti e lenitivi, uso talmente tanti prodotti che ho la barba cromata come i pomelli della porta del battistero, che poi ancora mi ci devo abituare e ogni tanto la mattina mi guardo allo specchio dicendo “e tu chi cazzo sei?”

Sogno cose che non avrò mai, la casa sulla spiaggia, la Tesla elettrica. Sogno di andare da Poltrone&Sofà e comprare un divano a prezzo pieno.

Sogno cose che non userò mai, gli attrezzi per fare ginnastica, il telefono che fa i video che neanche Tarantino per girare Kill Bill, lo sogno quel telefono, anche se quando mi faccio un selfie prendo mezza faccia. Sogno di avere la Manzotin che mi salta sul piatto dal frigo, anche se a me la carne in scatola fa vomitare, Sogno di avere sette decoder e vedere tutte le trasmissioni del mondo, anche se poi guardo solo Netflix. Sogno la visiera delle consolle, quella che ti fa vedere le immagini in 3D, il mio amico ce l’ha, una volta me la fece provare, nel frattempo entrò sua suocera e io le saltai al collo come un mastino napoletano perché ero convinto che fosse un fottuto alieno.

Sogno tutte queste cose, si chiamano “bisogni indotti”, cioè, ti convincono di aver bisogno di qualcosa e quel “qualcosa” ce l’hanno loro. – Loro chi? – Non lo so, loro, qualcuno che non sei tu, o io.

Con me questa tecnica funziona alla grande, riesco a desiderare tutto ciò che loro vogliono che io desideri. Ma non so più distinguere quali sono i sogni miei. Perché, a pensarci bene, di tutte queste cose posso farne tranquillamente a meno, ma non posso fare a meno dei sogni che avevo da ragazzo. Per questo ogni tanto sogno di stare su un palco con un microfono in mano, oppure seduto al posto di guida mentre corro in pista.
Da ragazzo le cose che sognavo davvero erano scrivere un libro e creare una famiglia felice, ma non in quest’ordine. Il libro alla fine l’ho scritto, l’altro sogno sto cercando di realizzarlo giorno per giorno, io ce la metto tutta, speriamo bene.

UNA BAMBINA ALLA FINE DEL MARE

Ti guardo di sfuggita mentre dormi, con quel tuo profilo fatto di attese e giorni che verranno e il respiro impetuoso di tempeste in mare aperto. Ti guardo e provo a immaginare la donna che sarai, sapendo che farai la tua strada e non potrò fare altro che augurarti di trovare ciò che stai cercando.

Posso solo dirti che per fortuna non è tutto pianificato, che ci saranno sempre piccoli dettagli pronti a sfuggire al normale corso degli eventi e sono quelli che  ti renderanno unica. Sarai tu a guidare, ma spero che lungo il viaggio possa imbatterti in qualcosa e qualcuno ti faccia distogliere un attimo lo sguardo dalla strada.

Ti auguro di incontrare qualcuno che ti faccia ballare e ogni ballo sia un grande amore, non importa che sia un tango o un valzer da balera, l’importante è che la testa stia girando. E chi se ne frega se non vai a tempo. Improvvisa, inventa tu i passi e pazienza se poi finirà la musica e ti sentirai morire. Certi balli vanno affrontati senza pensarci troppo su.

Ti auguro  di incontrare qualcuno che ha rubato un libro di poesie, qualcuno che scrive pensieri su fogli di carta, che usa la chitarra come una spada. Un rivoluzionario, un illuso, un disattento, qualcuno che si dimentica ciò che deve fare, che perde le chiavi di casa, che si ferma all’improvviso e scatta una foto. Qualcuno che parla poco e profuma di sogni.

Ti auguro di avere un’amica matta, una di quelle che bussa alla porta alle tre di notte e ti trascina fuori a sentire il silenzio che c’è. Una di quelle amiche che parla svelta e muove le mani, piena di “cazzo che casino”, e di “ce la faremo, fidati”. Quella che ti manda a fanculo e ti abbraccia forte, sempre di corsa, come se l’aria non fosse mai abbastanza. Quella delle canzoni a squarciagola lungo strade polverose a prendere la vita di petto.  

Ti auguro di inseguire progetti fuori tempo, quelli in cui credi solo tu, che te ne freghi e vai avanti nonostante le cantonate prese. Ti auguro un viaggio nella piazza a Marrakech, rumorosa e profumata come solo certe piazze sanno essere. Ti auguro la Londra di Canary Wharf, quella di acciaio e vetri alti, ma anche quella di Hammersmith, fatta di Tamigi e batticuore. Ti auguro Istanbul e Lisbona, Lubiana e Notre Dame e Barcellona e Dublino e tutti i luoghi che non lascerai mai più riportando tutto a casa.

Ti auguro di sbagliare, di sentirti perduta, e di avere qualcuno vicino che ti dica “ce la faremo”. Ti auguro di essere la donna che vorresti diventare, imperfetta e libera, onesta, insicura e splendente, allegra, malinconica e spensierata. Felice. Spudoratamente felice.

Provo a immaginare la donna che sarai, ma tu non farci caso, rimani ancora un po’ quella bambina alla fine del mare. Dormi amore, la situazione non è buona.

LA RAGAZZA DEL PIRATA.

L’estate è di gran lunga la stagione che mi piace meno. Gli amici del mio quartiere se ne vanno tutti al mare e i compagni di scuola, anche loro vanno al mare. Io ne farei volentieri a meno, cioè, il mare mi piace, ma fa troppo caldo e poi mi rimane il segno bianco degli occhiali sul viso. Ma la cosa che proprio mi fa vergognare di più sono i miei costumi. Ogni anno la mamma me ne compra un paio nuovi, ma sono troppo colorati, mi si nota da tutta la spiaggia, come l’insegna del bar Marilena quando c’è la festa del quartiere. Io invece vorrei essere guardata il meno possibile, perché ogni volta che qualcuno mi vede o mi parla fa sempre quell’espressione come a dire “poverina”, che alla fine non lo dice mai, ma ce l’ha scritto in faccia e si vede benissimo. Come l’insegna del bar Marilena. La mamma dice che quei colori mi illuminano il viso, io vorrei dirle che così mi si nota di più il segno bianco degli occhiali, ma mi limito a sorridere alla meglio e fare di sì con la testa.

Sono Maria e ho sette anni, ma sembro un po’ più piccola dei ragazzini della mia età. La mamma dice che è questione di tempo, che anche sua sorella, la zia Antonella, era bassina ma ora è una stangona. E io le credo, anche se quando lo dice la sua voce si incrina un po’ e lo sguardo è meno croccante. Faccio visite da quando sono nata, un dottore dopo l’altro, come quando sei sul treno e vedi passare le stazioni dal finestrino e ti fermi giusto il tempo per fare pipì e ripartire subito senza che sia cambiato niente e non vedi l’ora di scendere davvero e goderti la vita oltre la stazione.

Pare che io abbia una malattia che chiamano “sindrome” legata a un cromosoma, roba complicata, però io non mi fido mica tanto di questi dottori, perché non mi sembra di essere malata, io sto benissimo. Sì ok, leggo lentamente e sbaglio spesso le parole, ma lo fa anche nonno Michele che ha ottantasette anni e non mi pare che faccia tutte queste visite. Anche se dicono che lui ha il “morbo” e quando lo dicono allargano tutti le braccia rassegnati. Forse lo hanno fatto scendere a forza dal treno in una stazione che non era la sua e ora si guarda intorno in cerca di un passaggio, che forse non arriverà mai.

Alla fine mi rassegno e parto per la spiaggia, anche perché a Livorno se d’estate non vai al mare finisci per passare le giornate dentro casa e come dice nonno Michele mentre cammina dalla cucina alla sala cercando l’uscita della sua stazione, «a stare in casa ti incattivisci». E appena finisce la frase piscia al termosifone convinto che sia la statua della Libertà. Perché dice sempre che «gli americani non capiscono un cazzo», ma non si ricorda il motivo.

Mi piace venire al mare qui, in mezzo a tutta questa gente con nomi importanti. Sembra di stare a Hollywood. La mamma dice che se fossi nata in America avrei fatto sicuramente l’attrice. Magari quando sarò alta come zia Antonella ci farò un pensierino, per il momento cerco di imparare a parlare bene, perché non si è mai vista un’attrice che inciampa sulle parole, traballa, e alla fine si scapicolla.

Ogni giorno alle sedici in punto vado a fare la fila al bar, per prendere un ghiacciolo alla fragola. La mamma dice che con questo caldo c’è bisogno di qualcosa di rinfrescante, e ogni giorno, sempre, cascasse il mondo, mi viene incontro Samuel, il barista. Lui è alto, la barba disegnata bene e i capelli raccolti in una coda. Sembra un pirata con quegli anelli e gli orecchini. Un pirata che profuma di buono. A lui non interessa se sono bassa, se ho il segno degli occhiali, lui non ha l’insegna del Bar Marilena dentro allo sguardo, o se ce l’ha la tiene spenta. Ogni giorno si avvicina, ha un tatuaggio di Che Guevara sul braccio destro e lo stemma del Livorno Calcio su quello sinistro. Io non lo conosco questo signore Che Guevara, ma pare che qui sia amico di tutti. Mi solleva, bacino sul collo e poi mi dice:

«Te oggi sei la mia ragazza, se ti azzardi a farmi le corna ti stacco le braccine, intesi?». Ogni giorno. Cascasse il mondo.

Io non glielo dico che mi piace Iuri di terza F, non vorrei che ci rimanesse male. Però un po’ mi fa piacere essere la ragazza del pirata.

Magari quando sarò alta come zia Antonella mi farò invitare a cena fuori. Perché certe occasioni vanno prese al volo, alla faccia di tutte le sindromi e di tutti i cromosomi.

Le ragazze degli anni novanta.

Avresti dovuto vederle le ragazze degli anni novanta,

che fumavano sotto le stelle con Dolores O’ Riordan che canta,

di frasi d’amore riempivano il diario,

Come una Alice qualunque che si innamora di Mario

E scriveva i “per sempre” sulla Smemoranda

Avresti dovuto vederle le ragazze degli anni novanta.

Poco più di vent’anni e il duemila alle porte,

ma il futuro è un bugiardo con le gambe un po’ corte,

poco più di vent’anni e qualche pena d’amore,

ma certe notti era bello aver mal di cuore,

con i sospiri intrecciati in fondo a una Panda,

Avresti dovuto vederle le ragazze degli anni novanta.

In quel posto segreto, quello del primo bacio,

rimanevi in attesa come un gatto randagio,

arrivava improvvisa bella come un temporale

e ti sentivi un po’ dio quando guarda il suo mare.

era la risposta perfetta a ogni domanda.

Avresti dovuto vederle le ragazze degli anni novanta.

Ne è passato di tempo e son cambiate le facce,

di Alice e di Mario si son perse le tracce.

Lei si è fatta ingannare da un amore bugiardo,

lui si trascina la vita e ha spento lo sguardo,

ma ogni tanto alla radio c’è Dolores che canta.

Non si sono mai arrese le ragazze degli anni novanta.

Alcune hanno un uomo a cui far promesse

altre hanno figli e diverse scommesse

spesso i sogni e la vita fan fatica a coincidere

ma loro fanno spallucce si ostinano a ridere

Hanno un lampo negli occhi che nessuno comanda.

Le riconosci tra mille, le ragazze degli anni novanta.

Adesso son donne con il basco e lo scudo,

soldatesse in tailluer con lo sguardo sicuro,

ma si accendono ancora quando si apre il sipario

e ripensano al posto, quello del primo bacio.

il cuore ha un sussulto e il respiro si incanta.

Sanno amare davvero, le ragazze degli anni novanta.

Tutta colpa di Foppa Pedretti.

Ci sono domande che attanagliano il genere umano fin dalla notte dei tempi:

«è nato prima l’uovo o la gallina?»,

«come si è formato l’universo?»,

«la Juve quest’anno vincerà la Champions?».

Ma la regina di tutte le questioni irrisolte che ci perseguita dai tempi di Neanderthal è:

«perché un uomo deve accompagnare la sua fidanzata/moglie/compagna in giro per negozi?».

Voglio dire, apparentemente non c’è uno straccio di motivo valido.

È giusto annotare che il comportamento del maschio alfa che si trova nella situazione di accompagnatore cambia radicalmente con il prolungarsi della relazione amorosa.

Di solito c’è un rapporto direttamente proporzionale tra i due fattori: più la relazione è lunga, più lui si rompe i coglioni fuori dal negozio.

Questo ineluttabile assioma cartesiano è facilmente individuabile mettendosi seduti su una panchina della via principale di una qualsiasi città e osservare. Tra l’altro, Cartesio non si è mai sposato. Per dire.

Nelle coppie appena formate, quelle che sono nel pieno dell’esaltazione amorosa, per intenderci, il soggetto maschile è fiero ed entusiasta di accompagnare la sua metà della mela in un qualsiasi negozio. Indipendente che al suo interno ci siano prodotti cosmetici o cure omeopatiche per le ragadi anali del volpino di pomerania, Il paladino dell’amor cortese avrà un sorriso a tremila denti e pronuncerà frasi del tipo:

«certo passerottino, scegliamo insieme il mascara, sarò onorato anche di darti il mio parere sulla tonalità dello smalto che più ti si addice». Poi però, gentili donzelle, non vi lamentate se il vostro cavalier servente inizierà a farsi le sopracciglia ad ali di gabbiano.

Dopo circa due anni dall’inizio della sfavillante storia d’amore l’accompagnatore baldanzoso ed entusiasta si trasforma in un “servo muto”. Avete presente quella specie di appendiabiti che si trova nelle camere da letto? No, non ha i pedali, quella è la cyclette.

L’uomo all’alba della biennale della relazione sembra l’albero delle idee di Foppa Pedretti. Tiene appese alle braccia buste di ogni sorta, la borsa della compagna tenuta a tracolla e prega il cielo di non avere un’erezione per non fornire altri appigli.

Lei deve avere le mani libere per esaminare la mercanzia, lui la testa occupata per non coniare nuove bestemmie.

Dal quinto al settimo anno di relazione l’accompagnatore assume le sembianze di pastore maremmano. Aspetta fuori facendo la guardia al malloppo, perché entrare in un negozio con merce comprata altrove “pare brutto”.

Lo scodinzolante guardiano rimane immobile in un angolo, all’ombra se è fortunato, altrimenti a schiumare Sali minerali sotto il sole a picco. Lei nel frattempo entra a dare un’occhiatina.

In realtà l’ingresso del negozio è uno stargate.

Una volta varcata la soglia il tempo non segue più un percorso lineare. Lei gira fra le corsie in quell’atmosfera ovattata di pizzi e merletti e musiche di Radio Subasio. I minuti vengono percepiti come battiti di ciglia e raggiunge l’uscita convinta di aver girato l’intero negozio in uno schiocco di dita. Per lui che invece aspetta fuori, l’attesa sembra infinita. Il suo tempo segue quello della sua natura di canide e un’ora ne vale sette. Il povero animale da compagnia può trascorrere le vacanze estive aspettando il ritorno della sua dama. Alla fine dell’attesa lo ritrovano immerso in un lago di sudore come le mozzarelle Santa Lucia.

Dal settimo al decimo anno le soste nei negozi diventano, per l’incolpevole convivente, come le stazioni della Via Crucis. Di solito infatti il pover’uomo cade tre volte sotto il peso del fardello che trasporta. Nessuno lo deve aiutare ad alzarsi altrimenti verrà squalificato come Dorando Pietri alle olimpiadi del 1908. Non può bere né mangiare e se per caso si azzarda a pronunciare con un filo di voce frasi del tipo «cara, ti voglio un bene dell’anima ma mi sarei leggermente rotto i coglioni», sarà immediatamente additato come eretico e fustigato in pubblica piazza.

Dopo i dieci anni di relazione l’uomo busta sapiens inizia a prendere coscienza di sé.

Familiarizza con altri individui della stessa specie, scambiandosi opinioni e battute sui vari culi femminili che solcano l’orizzonte. Molto spesso organizzano tornei di calcetto lungo la via principale, usando le buste della Benetton come pali delle porte e la lampada “luna piena” della Maison du monde come pallone.

Alla luce di queste considerazioni, il primo pensiero che nasce spontaneo è:

«ma chi ce lo fa fare?».

In effetti, noi portatori seriali di buste, progettiamo rivolte, inneggiamo alla lotta di classe e formiamo gruppi sovversivi su whatsapp per combattere lo sfruttamento a colpi di meme.

Ma alla fine desistiamo dal procurar battaglia e rimaniamo nella nostra condizione passività. Però non ci sottovalutate, la nostra non è mancanza di coraggio.

La verità è che evitiamo lo scontro perché loro, l’altra metà del cielo, hanno una cosa che noi voglia tantissimo e no, non è il telecomando di Sky.

Limbes. (parte 1 di boh)

Questo è una parte di un qualcosa a cui non riesco a dare un senso logico, ma che comunque ha il diritto di prendere aria. Forse ci saranno altre parti, forse no, lasciamo fare al caso.

Chi arriva a Limbes si ritrova davanti a questo lago che si illude di essere mare, acqua che travisa lo sguardo dei passanti, nascondendo alla vista gli argini della riva opposta. Un tappeto liquido che porta con sé una nebbia complice. Il mago e l’assistente, imprescindibili l’uno dall’altra. È questo che fa il presuntuoso lago, ammalia le menti, offuscandone la percezione, come una donna che sfuma il perimetro della pelle con abiti morbidi nel tentativo di regalarsi un profilo migliore.

Le persone giungo qui attraversando il lago, si materializzano lentamente, oltre i rovi della nebbia. Sono un punto in lontananza che, col passare dei minuti, prende la forma di una barca. Arrivavano remando. Tutti. Come se dall’altra parte non esistessero barche a motore. Hanno lo sguardo fisso davanti a loro, mentre affogano i remi nel lago facendoli riemergere prima che sia troppo tardi. Poi rimettono i legni di nuovo in acqua e poi in aria. In un eterno equilibrio fra la vita e la morte.

Quelli che arrivano qui hanno una luce. Tutti. Fosse anche solo una candela, una lampada a olio o chissà quale altra diavoleria che a contatto con la foschia si trasforma in un alone biancastro. Li vedi in lontananza, con questa idea di faro messa sulla prua, sembrano anime sfuggite a un castigo, e forse lo sono. Forse quel castigo se lo portano dentro. Appena toccano terra la loro luce svanisce, come a sancire la fine di un viaggio che non ha più bisogno di schiarite.

Era quasi l’inizio di un nuovo autunno quando Piero giunse a Limbes, più che un paese, uno sputo di mondo. Uno di quei luoghi che molti chiamerebbero frazione, come a sottolinearne l’inferiorità. In posti come questo la vita segue logiche alternative, chi vive qui non si fa troppe domande su ciò che accade, qui le persone si limitano a prendere atto, adeguandosi al naturale svolgimento degli eventi. Limbes è una frazione, così come lo sono le emozioni rispetto a un amore, un posto piccolissimo con l’infinito del mondo a disegnarne i confini. Tutti quelli che sbarcavano qui cercavano qualcosa, Piero giunse in cerca di un perdono.

Arrivò come arrivavano tutti gli altri, su di una barca a remi, ma non aveva nessun tipo di luce sulla prua, niente lampade, niente candele, niente di niente. Solo lui e la sua barca. E un pianoforte sopra. Un pianoforte a mezza coda, nero, come se ne vedono pochi in giro. Linee morbide, suono leggermente graffiato, in altre parole un connubio perfetto di legno, corde e bestemmie. Come diavolo fosse riuscito a trascinarlo fin qui senza far affondare la barca rimane un mistero. Gli abitanti di Limbes si limitarono a prenderne atto.

Scese dalla sua barca trascinando a fatica il pianoforte sulla terraferma, tornò a prendere lo sgabello e si sedette davanti al suo strumento, poi con lo sguardo perso chissà dove appoggiò le dita sui tasti bianchi e neri. L’intenzione di iniziare a suonare non lo sfiorò neanche per un attimo.

Piero Giuliani trascorreva le giornate sulla spiaggia, con quel lago a fare da sentinella, seduto al suo pianoforte. Applicava un rituale consolidato: lasciava cadere la giacca delicatamente, arrotolando le maniche della camicia appena sotto al gomito e si sgranchiva le mani. Gesti  precisi, armoniosi e impeccabili. Posava le dita sui tasti, senza affondare il colpo. E apriva gli occhi, rimaneva così fino alla fine del giorno, senza suonare neanche una nota. Con lo sguardo teso verso un qualcosa che vedeva solo lui, oltre la spiaggia, oltre il sipario di nebbia. Oltre ogni cosa visibile. Se qualcuno avesse avuto il coraggio di domandargli cosa stesse guardando, lui avrebbe risposto perentorio – Il mare aperto –.  Lo avrebbe detto come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

Guardando quell’immagine dalla strada si aveva la sensazione di trovarsi di fronte a un quadro, uno di quelli appoggiati momentaneamente in un angolo, tra il pavimento e la parete, che interrompono le linee ordinate della stanza . Era la visione di un pianoforte a mezza cosa in attesa che il suo condottiero si decidesse a prendere le briglie per iniziare una cavalcata a perdifiato. Quella meraviglia di strumento era un alveare che racchiudeva uno sciame di note, pungenti e smaniose, che proprio non ne volevano sapere di rimanere chiuse in quella prigione di corde e legno. Si dimenavano, sbattevano contro le pareti, alcune perfino imploravano l’uomo seduto di fronte a loro di renderle libere. Lui non le guardava neanche, teneva lo sguardo teso verso d  solo sa cosa, avvicinava le dita a quel tappeto di tasti, senza sfiorarli. Con movimenti impercettibili faceva salire quelle note su per le mani, lungo le braccia, le lasciava confluire al centro del torace, su per il collo, in mezzo alla gola. Un tumulto di suoni armoniosi, graffianti, come quando non c’è via di scampo; ma anche ballate dolci, di quelle che ti profumano i pensieri , notturni leggeri, capaci di prenderti per mano e portarti a spasso per i tuoi sogni. Tutta quella musica, silenziosa e testarda arrivava alla sua mente, fermandosi al centro di un’emozione. E moriva.

Dal pianoforte non usciva nessuna melodia,  ma in realtà Piero Giuliani stava suonando. Perché ognuno suona la propria musica, che  lo voglia o no e nella mente di Piero si affollavano armonie composte molti anni prima, suoni che lo tormentavano, odori che diventano nodi irrisolti. Insieme ai suoni arrivavano immagini, perché è questo il meccanismo diabolico dei ricordi. Vedeva una sposa innamorata e sognante, una bambina intenta a raccogliersi i capelli in una treccia, ma vedeva anche le liti furibonde, quella donna in una camera bianca d’ospedale, quella bambina che non riusciva a capire la forza devastante di certe malattie della mente. In mezzo a tutto questo c’era la musica, pronta a curare i patimenti creandone di nuovi, l’antidoto e il veleno. Piero Giuliani non riusciva a fare a meno di quella dolcissima ossessione. In qualche modo salire su un palco e iniziare a suonare era la sua salvezza e allo stesso tempo la sua condanna.

Guardando quell’immagine dalla strada si aveva la sensazione di trovarsi di fronte a un uomo che guardava lontano in cerca di un’ispirazione, in realtà Piero Giuliani stava seduto sulla riva del lago in attesa di un perdono.

Meno di un minuto.

Mi chiamo Teresa e tra meno di un minuto sarò morta. Solo pochissime persone al mondo sono in grado di sapere con esattezza il momento della loro scomparsa. Meno di un minuto, così ha detto il medico che mi ha appena visitato, quello bello, con gli occhiali e la bocca carnosa. “La pallottola ha trapassato lo sterno,” Ha detto con quelle labbra perfette, “non c’è più niente da fare”. Dio cosa gli farei ad una bocca così.

Meno di un minuto, il tempo che ho impiegato ad innamorarmi dell’uomo sbagliato, il comandante di un esercito di mercenari. Tutti con qualche nemico nuovo da affrontare con chili di tritolo, acido e cemento.

Meno di un minuto, la durata del boato sull’’autostrada e dell’auto vicino al centro di Palermo, meno di un minuto, l’attesa del treno per Peppino. Perché a certe persone non basta ammazzare qualcuno, no, devono fare in modo che si sappia.

Meno di un minuto, il tempo che durava la stretta di mano tra il comandante e quella processione di faccendieri, pancioni, puttanieri, in cravatta e doppiopetto, venuti a chiedere un compromesso per la loro fame di potere. Li spiavo da dietro la porta socchiusa, tutti devoti e imploranti, come a dire “comanda me, comandante”.

Meno di un minuto, il tempo necessario per inventarmi cento modi di fuggire, meno di un minuto per abbassare la testa e rinunciare.

Meno di un minuto per trovarmi fra le braccia di un ragazzo, avrà avuto vent’anni, io almeno quaranta. Non era amore, era solo aria sana, ma quelle come me non sono destinate a respirare ossigeno. Cerco di pensare a lui, ogni giorno, per meno di un minuto.

Meno di un minuto è il tempo che mi resta per pensare al figlio che non ho, si sarebbe chiamato Giovanni e a quest’ora sarebbe laureato, magari avrebbe cambiato cognome, magari, chissà, avrebbe potuto anche amarmi.

Meno di un minuto per imparare a chiede scusa, quelle come me non conoscono il significato, ma l’ultima volta che mi sono vista nello specchio mi è venuto da piangere forte.

Meno di un minuto per pensare al comandante, che a suo modo mi ha voluto bene e io, a mio modo, ho tradito ogni giorno.

Meno di un minuto per beccarmi una pallottola in mezzo al petto, a far compagnia a tutti gli altri dolori incastrati nel respiro. Una fatalità, dicono, io invece sono convita che mi aspettasse da tempo quel proiettile. Come un amante paziente seduto al tavolo di un ristorante con una rosa in mano in attesa di qualcuno da liberare.

Mi chiamo Teresa e adesso ho perso il conto dei secondi, il dottore dalle labbra perfette mi sta guardando e io vorrei solo dirgli che ho pau

Margherita e i tulipani.

Giovanni attraversa mezza Europa con la sua bici dei primi anni settanta. Lo fa ogni mattina da oltre quindici anni e ancora non ne sente la fatica. Scende in strada con un sorriso indefinito. Ma non è l’unico ad averlo.

Esce dal suo bilocale di via Roma numero 9, percorre i quattrocento metri che lo separano dall’incrocio con via Londra, facendo un cenno con la mano a Piero seduto al tavolo del bar Marilena, con un budino di riso, un cappuccino scuro e la Gazzetta aperta alla pagina del Milan a fargli compagnia. Anche se lui tifa Fiorentina. Giovanni imbocca via Madrid, alla fine della discesa rallenta e manda un bacio a Rossella che sta in piedi, con il telefono all’orecchio, davanti alla porta della sua merceria. Quel bacio è talmente forte che interrompe il flusso dei pensieri. E la telefonata di Rossella.

Giovanni ha settantadue anni ma ne dimostra almeno settantaquattro, si veste come se ne avessi cinquantuno e parla come un ragazzo ventisei. Uno di quei ragazzi con i sogni che profumano ancora di incoscienza e pane fresco, quelli che si sentono felici davanti ad un quadro di Monet e piangono sulla scena finale de “L’attimo fuggente, Uno di quei ragazzi che hanno il loro mondo chiuso lì, in quel punto preciso, a metà fra il polso destro e l’infinito.

Giovanni è strano, sì, è decisamente strano, ma sfido chiunque a trovare qualche innamorato che non lo sia. Ama Margherita e la ama talmente tanto che non lascia cadere neanche un istante senza farglielo sapere. Perché l’amore è così, ti fa scordare tutto il resto, mangi poco e ridi spesso, ti dimentichi le chiavi sul sedile e ti lavi i denti con la schiuma da barba, piangi e non sai perché e quasi vivi temendo una sventura. E non sai quale. Ama e basta, perché non gli costa fatica farlo, perché quella strana sensazione lo culla, come il rollio di una barca a remi ai bordi del porto. Ama di un amore fantastico e disperatissimo. Uno di quegli amori come i gelati d’Aprile, benedetti dal sole come i panni stesi. Un amore un po’ smarrito in questo traffico di cuori.

Ma quanti amori sono appassiti in attesa del giorno giusto in cui sbocciare, se ne accorgeva ogni volta che guardava i tulipani, quelli che metteva in vetrina, fra le gerbere e l’anthurium. In ogni mazzo c’era sempre un tulipano che rimaneva chiuso, succedeva sempre. Ce n’era sempre uno che non aveva avuto il coraggio di mostrarsi, preferiva restare nell’ombra, continuare a sognare indisturbato il momento giusto in cui uscire allo scoperto, rinunciando a tutto quel mondo che non smetteva un attimo di girare. Rimaneva nel suo guscio, stringendosi le ginocchia al petto, contando fino a dieci ma nell’attimo esatto in cui decideva di squarciare il suo silenzio c’era sempre qualcosa che lo faceva desistere. Un rumore, un’ombra di inquietudine, una nuova ondata di incertezza che alzava di un metro l’innaturale barriera al volo dei sogni. Serviva una specie di miracolo per convincere quei tulipani a lasciarsi andare. Che dove lo trovi poi un miracolo così. Che passa talmente tanto tempo che alla fine ti convinci di non meritarlo neanche un miracolo così. Con Margherita era capitato tutto all’improvviso. Uno sguardo, un sorriso fugace, la vita che li ha fatti incontrare e tenere abbracciati come dopo un lunghissimo tuono.

Giovanni attraversa mezza Europa con la sua bici dei primi anni settanta. Lo fa ogni mattina da oltre quindici anni e ancora non ne sente la fatica. Scende in strada con un sorriso indefinito. Ma non è l’unico ad averlo. Entra in quello che un giorno era il suo negozio di fiori. Una sosta veloce, roba da niente. Arriva ad una panchina, di quelle che ci passi davanti centinaia di volte e non ne noti la presenza, si siede lì ad ascoltare la voce dell’acqua che scorre sotto di lui e parla e muove le mani e racconta la sua vita a qualcuno che non c’è. E si vede che è felice, come quando condividi una gioia con qualcun altro stingendogli le mani. Poi si alza e si allontana, si ferma un istante, roba da niente, si volta come per salutare, uno sguardo alla panchina sulla quale ha posato un tulipano ed uno alla ringhiera dove anni prima ha inciso qualcosa che assomiglia molto ad una frase lasciata sul parapetto di un ponte che sovrasta un fiume irrequieto. “a Margherita, che adorava questa vallata. Da Giovanni, che le teneva la mano. E mai smetterà di farlo”. Perché è così che ogni giorno riesce a fregare la morte. Solo così. Perché è così che si spiegano certe esistenze. Solo così. E’ il miracolo dei tulipani.