VAFFANCULO FRANCESCO

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Sono quello che ride,
quello che poi s’incazza
sono sempre distratto
quello senza corazza
devo ancora capire
questa vita cosa mi vuole dire

Sono quello che canta
Mentre guido da solo
E in questa giostra che gira
Cerco ancora il mio ruolo
In questo mondo che danza
Sento di non essere mai abbastanza

E non so cucinare
E mi perdo per strada
Sono un po’ Don Chisciotte
Però senza la spada
Faccio sempre fatica
A capire cosa vuole la gente che dica

Non sono mai puntuale
Non capisco l’inglese
E vaffanculo Francesco
Tu e le tue frasi sospese
Sento il tempo che vola
Con le parole che mi muoiono in gola

E non ho un cazzo da dire
A chi mi chiede consigli
Ho progetti a marcire
Dentro i miei ripostigli
E ho finito i cerotti
Per certi sguardi che sembran cazzotti

E mi sento stocazzo
Perché incastro parole
Mi sento come un bambino
Con le sue capriole
Ma scrivo solo cazzate
Spesso inutili come certe giornate

Forse sono normale
Forse solo un coglione
Forse sono felice
forse è disillusione
e ha proprio ragione
chi mi vuole cambiare
ma certi giorni, davvero, io non so come fare.

Tra il mento e la spalla.

Anche stanotte ho fatto l’amore sul tetto.
Ho aspettato che spegnessero le luci della città, che scendesse la quiete nelle case, nella vita frenetica delle persone. C’è un momento preciso in cui tutto si placa, quello in cui il groviglio dei pensieri si dissolve, è un attimo sospeso fra l’eco di oggi e l’illusione di domani. In quell’istante preciso salgo sul tetto, lancio il cuore in quella finestra socchiusa, prendo il violino e divento l’amante sfacciato, l’impostore arrogante. Non è solo musica, è istinto primitivo, è il connubio perfetto fra melodie, amplessi e sudore. Lo facciamo così. Ogni notte. L’amore.

Di giorno c’è troppa gente in giro, auto, tram, passanti, cazzi e mazzi e mica puoi startene a fare l’amore sulla cima di un tetto, ma di notte tutto diventa possibile. La sua finestra è lì, a portata di mano, basterebbe scavalcare un paio di balconi, roba da niente. Ma quelle sono scene da film, riservate ai coraggiosi. Quelli come me hanno l’animo pavido. Quelli come me preferiscono farsi male a distanza, preferiscono farlo a occhi chiusi, abbracciando un violino. E’ l’unico stratagemma che abbiamo per farlo senza rimpianti, l’amore.

C’è stato il tempo dei teatri pieni, con quegli occhi addosso e io su quel maledetto palco con un faro puntato dritto in faccia, che neanche riuscivo a distinguerle tutte quelle persone che stavano lì in attesa della prima nota. Facevo l’inchino, a occhi chiusi, l’archetto nella mano destra e incastravo tutta la mia vita tra il mento e la spalla. E suonavo. Scorrevano le dita sulle corde, quasi a volerle soffocare, scorreva l’archetto lungo quel manico di legno infinito, scorrevano tutti i miei rimpianti mescolati con la musica.

Ma la vita reale è altra cosa, voglio dire, non puoi avere la presunzione di capire il mondo standotene impalato nel bel mezzo di un palco con un faro puntato in faccia. Sono sparito, all’improvviso, senza dare spiegazioni. Ho smesso di suonare per i signori annoiati, per le donne appariscenti, per gli aristocratici e i morti di fame che si imboscavano ai concerti. Ho smesso di suonare per dovere e ho iniziato per farlo per gli amanti sotto i portici, per le puttane di strada, per i ragazzini impertinenti. Ho iniziato a suonare per le madri che lottano, per quelli che la vita se la sputano nelle mani, per la disperazione di certe giornate, che proprio non sai più come fare. Sono sceso da un palco e ho iniziato a vivere davvero.

Sono uno di quelli che di giorno suonano nelle piazze sconosciute, senza preavviso, mi piazzo in un angolo, e gioco a fare dio con la vita degli altri. Immagino momenti che non vivranno mai, dispiaceri e passioni che non sanno di avere. Li guardo passare, tutti quanti e improvviso la melodia della loro esistenza.

Ma è di notte che si vive davvero e allora lascio scorrere questo alveare di pensieri che mi prude in gola, salgo quassù, aspetto che la luce della sua finestra vada a morire e incastrando la vita fra il mento e la spalla iniziamo a farlo davvero. Ogni notte. L’amore.

I sognatori non hanno un cazzo da fare.

«E se loro si mangiano il mare?»
«Noi ci mangiamo il porto con tutte le barche. E se ci fanno girare i coglioni, ci mangiamo anche i pescatori».

«E se loro si mangiano i ponti?»
«Noi ci mangiamo i fiumi e le cascate».

«E se loro si mangiano i campi di pallone?»
«Noi zitti zitti ci mangiamo il codino di Roberto Baggio».

«E se loro si mangiano la musica?»
«Noi ci mangiamo gli spartiti e i rullanti. E siccome siamo figli di puttana, ci mangiamo pure il pianoforte di Ludovico Einaudi».

«E se loro si mangiano i tramonti?»
«Noi ci mangiamo le strade e i pensieri belli».

«E se loro si mangiano le risate?»
«Noi ci mangiamo le giornate piovose».

«E se loro si mangiano le piazze?»
«Noi ci mangiamo le bandiere, i cortei e tutte le rivoluzioni».

«E se loro si mangiano i teatri?»
«Noi ci mangiamo i baci delle ultime file».

«E se loro si mangiano i muri?».
«Noi ci mangiamo le frasi d’amore lasciate ad asciugare».

«E se loro si mangiano le parole?»
«Noi ci mangiamo i libri, tutti quanti».

«E se loro si mangiano le poesie?»
«Noi ci mangiamo Silvia, Rossana, Beatrice, Giulietta e visto che ci siamo, ci mangiamo anche Alda Merini».

«E se loro si mangiano i quadri?»
«Noi ci mangiamo la sposa nel vento e tutte le madonne con il bambino, ci mangiamo Frida e tutti gli amanti. E se ci fanno incazzare, ci mangiamo pure Amanda Lear».

«E se loro si mangiano le feste di paese?»
«Noi ci mangiamo tutta la banda e lo zucchero filato».

«E se loro si mangiano le domeniche mattina?»
«Noi ci mangiamo i panni stesi e una donna in cucina che canta De André».

«E se loro si mangiano la storia?»
«Noi ci mangiamo i lager, Norimberga, Marzabotto, Evita Peron E giusto per rompere il cazzo, ci mangiamo pure la motocicletta di Che Guevara».

«E se loro si mangiano l’Africa?»
«Noi ci mangiamo le mani tese e i capitani sovversivi. E per farli incazzare davvero, ci mangiamo anche il cuore immenso di Gino Strada».

«E se loro si mangiano i sogni?»
«Noi ci mangiamo le stelle e tutti i cassetti, i vetri appannati e le giornate di Aprile. E se continuano a rompere le palle ci mangiamo Firenze vista dal Piazzale».

«E se loro si mangiano le storie d’amore?»
«Noi ci mangiamo tutte le panchine, i vetri appannati e Cesare perduto nella pioggia. E siccome siamo molto cattivi, ci mangiamo pure l’addio di Casablanca nel tramonto».

«E se loro si mangiano il futuro?»
«Noi ci mangiamo quelli controcorrente, gli idealisti e tutti quelli che non si rassegnano. E anche se non servono a niente, ci mangiamo pure i sognatori, che tanto quelli non hanno un cazzo da fare».

«Va bene, ho capito, ma il tempo sprecato si conta o non vale?»
«Ma che cazzo di domande fai? Finisci di mangiare e poi mettiti a dormire. Fuori la situazione non è buona».