La risposta definitiva è aloe?… “l’accenTiamo?”….”accenTiamola”!!

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Ok, svelo un piccolo mistero, da un po’ di tempo stiamo (e quando dico “stiamo” mi riferisco al mio nucleo familiare, cane e pesce inclusi) esplorando a piccole dosi il mondo della medicina alternativa. non proprio omeopatica, ma qualcosa di simile.
Oggi ho scoperto le proprietà curative dell’aloe. Già il fatto che la persona che me ne ha parlato assumesse questo prodigio della natura per via rettale avrebbe dovuto mettermi in guardia, ma una volta appurato che era possibile introdurla nel corpo tramite altre vie d’accesso, mi sono lasciato convincere e ne ho ordinato un barattolo.

Ora qui vale la pena aprire una piccola parentesi.
Partiamo dal principio che personalmente non ci capisco una mazza, ma pare che di questa aloe ne esistano una quantità innumerevole di varianti, vabbè, la faccio breve: navigando fra un sito di divulgazione scientifica e uno simile (ma senza la “scienti”), mi sono imbattuto in un articolo di un fabbricante locale di prodotti derivati da questa fantasmagorica pianta.
E’ fatta, prendo il numero e chiamo, me ne faccio preparare un bel barattolo da chilo e oggi pomeriggio mi sono fatto, con la gioia nel cuore, i quaranta chilometri che mi separavano dal raggiungumento del mio scopo.

La padrona della fazenda si è dimostrata molto disponibile, prodigandosi nel decantare le proprietà benefiche del prodotto. E’ un toccasana per le seguenti patologie: serve da filtro e depuratore dell’organismo, distrugge le tossine, introdotte anche dall’inquinamento idrico, atmosferico e alimentare, ristruttura, rigenera e rivitalizza il midollo osseo, è antiossidante, riabilitante ed energetico molto utile dopo le convalescenze, riattiva in modo specifico il sistema immunitario, stimola la produzione di endorfine ed esercita un’azione antidolorifica ed analgesica, utilissimo negli sportivi, tonifica i capillari sanguigni.
E’ particolarmente efficace in caso di emorroidi, artrite, asma, cancro al colon, alla prostata, al seno, ai polmoni, alle ovaie e al cervello; problemi circolatori, diabete, allergie, epilessia, eruzioni cutanee, verruche, eczemi cellulite, psoriasi, bruciature, malattie senili, depressioni nervose, morbo di Parkinson, e malattie degli occhi.

Ok e qui voi (o parte di quelli che sono arrivati al terzo rigo della descrizione), come me, avrete esclamato “cazzo è miracolosa”, forse si, a parte il fatto che in questa descrizione sono stati affiancati le ovaie e il cervello, ma probabilmente l’ha scritta un uomo e quindi…ci sta.

Certo, i metodi di conservazione sono quantomeno…bizzarri.
Puoi stappare il barattolo, ma non puoi richiuderlo, ti è concesso di avvitare leggermente il tappo, ma se lo fai con troppo vigore potresti causare una reazione a catena e distruggere la via lattea. Non deve MAI essere esposta a luce diretta, una cosa tipo Bernardo Provenzano dei tempi d’oro, pena la condanna ad assistere in prima fila a tutti i dibattiti della Santanchè. Infine è assolutamente vietato fare boccacce e smadonnare durante la degustazione del prodotto.

Ora ammetterete che ne è valsa la pena farsi ottanta chilometri (quaranta andata e quaranta ritorno) di sabato pomeriggio mentre tutte (e sottolineo tutte) le persone che conosci sono a cazzeggiare in riva al mare, ma ne è valsa la pena, anche se ti devi sorbire la fermatona della tua dolce metà al mega negozio di scarpe in piena campagna pisana, ma ne è valsa la pena, anche se fra intrugli medicamentosi, autostrada e soggiorno nel paradiso dei calzolai, avresti pagato la retta universitaria alla Bocconi per tutta la durata del corso di laurea di Renzo Bossi. Ma ne è valsa la pena.

Oddio, questa mia ferrea convizione ha iniziato a vacillare quando sono tornato a casa, ne ho preso (come da indicazioni posologiche della “fazendera”) un’abbondante cucchiaiatona. Lì è iniziata una serie catastrofica di eventi.
Ho realizzato di aver stappato il barattolo davanti alla finestra (l’effetto vampiro è stato inevitabile), il sapore m’ha fatto intasare gli orecchi e lacrimare sale dall’occhio sinistro, preso dalla rabbia ho avvitato il tappo come Silvio farebbe con la testa della Boccassini.
Il tutto è durato circa dieci minuti, il tempo necessario per realizzare di essere allergico all’aloe.

Sono giunto dalla guardia medica (mia vecchia conoscenza, vedi “pronto soccorso intimissimi”) rosso come il culo del cercopiteco in amore, con un prurito assurdo alle mani e ai piedi, un giramento di palle da centrale eolica e il solito dubbio che mi attanaglia in queste situazioni: ma sull’aloe (vera o finta non importa)…dove va l’accento?

Ok, il punturone di antistaminico gentilmente somministratomi dal sedicente medico risolverà anche questo problema.

Insomma, nel volgere di poche ore ho santificato il coltivatore di aloe, gli ho infamato la moglie, sputato l’amaro intruglio nella ciotola del cane e sono stato soprannominato “torsolo” (che dalle mie parti è sinonimo di “coglione”) dal dottore, ma almeno mi sono tolto la soddisfazione di mostrare il culo a qualcuno.

Ma “L’infinito” di Leopardi è leopardare?

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Cercando disperatamente un suggerimento per un nuovo post, mi sono imbattuto in un vecchio compagno di scuola che mi ha pagato il biglietto per fare un giro sulla giostra dei ricordi, perciò se questo post dovesse fare particolarmente schifo, la colpa è solo e soltanto sua.

La prima confessione doverosa è quella di ammettere che la scuola mi piaceva tantissimo, per questo motivo ho cercato di prolungare la mia permanenza in quella fucina di neo classe dirigenziale, il più al lungo possibile. così i canonici cinque anni per me sono diventati sette/otto.

Praticamente sono andato a dare l’esame di maturità lo stesso giorno in cui ho compilato il modulo per andare in pensione.

Come nei migliori romanzi d’appendice che si rispettino, il bravo scolaretto ha sempre come socio di studi un lucignolo di turno che lo fa desistere dalle sue buone intenzioni.
Le mie di solito terminavano alla fermata dell’autobus. Dilaniato fra il salire e farmi massacrare dalla prof. di matematica o optare per un estenuante turno di sei ore al mitico Bar Luna diviso fra tornei di tressette e gironi infernali di calcio balilla (in tutte le sue varianti: calcino, calcetto, biliardino…paese che vai nome proprio che trovi).

Sinceramente l’opzione “matematica” mi allettava un casino, ma la evitavo per non dare un dispiacere alla prof., ci teneva poverina e quando esordivo dicendo che “l’angolo retto bolle a novanta gradi”, una nuova ruga di dolore compariva sul suo volto già provato. Mi metteva un secco tre, ma dalla sua espressione costernata si capiva che dispiaceva molto più a lei che a me.
Quindi il mio saltare la scuola era solamente un gesto di umana carità.
Ancora oggi non riesco a spiegarmi come tale palese atto di bontà, fosse invece interpretato dal corpo docente e dai miei stessi genitori, come sintomo di scarsa voglia di studiare.

Comunque sia, mi assumevo le mie fottute responsabilità e prendevo la decisione più difficile….Bar Luna.

Otto e trentacinque. Si aprivano le danze.
Appena si arrivava, l’odore dei cornetti alla crema e del caffè corretto al Sassolino si impadroniva delle nostre misere cellule cerebrali trascinandoci, privi di ogni volontà al bancone.
Una volta espletate le funzioni vitali minime (bombolone, cappuccino e caffè di rimorchio), ci rendevamo conto che oltre a noi due, ci saranno stati almeno una quarantina di altri puri d’animo che avevano preferito il martirio del biliardo all’italiana piuttosto che minare la salute psico-fisica dei propri insegnanti. No, no, non vogliamo sentirci dire grazie, le buone azioni vanno fatte senza aspettarsi niente in cambio, almeno secondo Frate Indovino.

La mattinata trascorreva veloce, fra gruppi di maschi che si sfidavano a colpi di primiera e settebello e gruppi di studio femminili che ripassavano filosofia, in preda a laceranti sensi di colpa e che giuravano col sangue che quella sarebbe stata l’ultima volta che saltavano la scuola.
Un po’ come quando tornavi dalla discoteca, camminando sui gomiti e miagolando, promettevi sul poster di Roberto Baggio, che non saresti più uscito, ma poi ti ricordavi che fra tre giorni sarebbe stato il compleanno del “pasticca” (e lui non prendeva quella per il colesterolo) così i tuoi buoni propositi si incendiavano e il “Divin Codino” quella domenica avrebbe lasciato il menisco a San Siro.

Insomma mi capitava sempre di tornare a casa in una giubbata di sudore, ma con la soddisfazione di aver reso incandescenti le manopole del calcio balilla, mia madre mi guardava con un punto interrogativo stampato in fronte e prima che potesse aprire bocca dicevo “Ciao Ma’, mi fiondo sotto la doccia che stamani c’era il compito di educazione fisica a sorpresa”.
Lei faceva finta di crederci e la vita continuava.

Certo, le scuse andavano studiate bene.
Ricordo che una volta il bar chiuse per malattia, noi in preda alla disperazione andammo sulla spiaggia a meditare e come atto estremo di protesta contro la malasorte, ci fermammo dal primo barbiere a tagliarci i capelli a spazzola.
Praticamente i nostri genitori videro uscire alle otto il Tenente Colombo e si ritrovaro alle tredici e trenta con il bagnino di Bay Watch.

Ma sono solo periodi della vita, siamo cresciuti, siamo gente seria, abbiamo preso il diploma, il bar Luna ha chiuso e al suo posto c’è un’agenzia immobiliare, ma io, ogni tanto, un caffè corretto al Sassolino me lo bevo ancora.

Ciao Ma’, ora posso dirtelo, quella volta lì non era vero che ci avevano sequestrato i narcotrafficanti colombiani. Ciao. Bacio.

 

Oh mamma ho quasi quarant’anni, ma ne dimostro trentanove.

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Un giorno, da qualche parte, ho letto una frase che nasconde una dura verità “Il conformismo ci uccide”.

Citandola così posso sembrare un ex figlio dei fiori nostalgico dei capelli lunghi, con fascia elastica in fronte, colorati, fluenti e assolutamente non lavati. Uno di quei giovani che sognano i tempi in cui si fumavano cannoni di salvia e tè Ati, con la musica di Cat Stevens in sottofondo e si sentivano tutti ganzi abbestia.

In realtà io quell’epoca lì non l’ho vissuta direttamente, mi sono manifestato con la generazione successiva, quella post-sessantottina, post-rivoluzionaria, post-comunista, insomma, si arrivava sempre dopo, ma anche noi abbiamo avuto le nostre belle soddisfazioni, a parte la salvia e il te Ati.

Non avevamo la cinquecento abarth, ma la Panda mille, (la mia rossa Ferrari si chiamava Pepita, ma non l’ha mai saputo nessuno), in tv non c’era Carosello, ma si sognava ugualmente con Capitan Harlock e le sfide di Topomoto e Autogatto, non abbiamo vissuto l’epoca della rivoluzione sessuale, ma abbiamo fatto arricchire una generazione di oculisti grazie a Postalmarket.

Perchè sto difendendo la categoria dei moderni quarantenni?, non saprei dirlo, forse perchè il padre del mio amico anti-lavoro tutte le volte che ci vede insieme ci squadra da capo a piedi con le mani giunte, sospira e scuote la testa, iniziando con un “alla vostra età io prendevo i passerotti al volo con le pinze, voi vi massacrate di…” Di che cosa non lo sapremo mai, visto che nel frattempo abbiamo già iniziato il torneo di PES2013; o forse semplicemente perchè avevo voglia di scrivere qualcosa e sono due ore che fisso la pagina immacolata cercando disperatamente un’ispirazione, poi mi sono voltato e ho visto la carogna che giocava a Mario Bros bestemmiando e rovesciando il Baileys sul divano e mi ci sono un pò rivisto, a parte il fatto che mi fa schifo il Baileys.

Insomma, ho iniziato questo post con la sparata intellettuale, ma sono in quella fascia di età che quando senti dire “i giovani d’oggi…” capisci che probabilmente non si stanno più riferendo a te e allora realizzi che i capelli spettinati e “gellati”, la maglietta semiseria, le scarpe “giuste” e la suoneria di “è arrivato l’arrotino” rischiano di farti sembrare antico e non rassegnato.

Insomma, qualche giorno fa parlavo con il figlio di dieci anni di un amico, l’ho guardato rincoglionirsi con il nintendo ds (3D…che è pure peggio) ho giunto le mani, scosso la testa ed esclamato “dai…spegni quel coso, io alla tua età prendevo gli uccelletti al volo bendato”…e lui “si bravo, se continui così fra un pò non prendi più neanche il tuo… in pieno giorno”

E allora via, tutti insieme a sfondarci di messaggini con whatsapp, a ritrovarci per l’apericena con qualcuno che rimedia una sbornia e una milf (che all’inizio pensavo fosse il nuovo modello della Smart) e qualcun altro che se vede da lontano suo figlio, cambia strada per non farsi chiamare papà/mamma.

Ok, finisco di fare inutili proclami, anche perchè la carogna sta tamburellando nervosamente sul tavolo, è già in tiro, occhialoni da sole, infradito e telo mare sponsorizzato “tè Ati”.

 

Il caffè è un piacere, se non è a Sasso…che piacere è.

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Ci sono nell’arco di un anno almeno 5/6 giornate in cui esco di casa alle 7 di mattina e torno alle 10 di sera con settecento chilometri di autostrada sul groppone.

Oggi è stata una di quelle giornate.

Premetto che per fortuna non affronterò tutto da solo, ma ci saranno con me almeno un paio di colleghi/compagni/scansafatiche/ma chi se ne frega tanto domani è sabato, che allieteranno il tutto con sproloqui di ogni sorta.

Parto da casa solo e mi sparo la prima mezz’ora a centocinquanta all’ora per arrivare baldanzoso come se dovessi fare una visita alla prostata, alla prima fermata, dove c’è ad aspettarmi “il tinto”, chiamato così perchè i quattordici capelli che ha in testa sono nero corvino artificiale, con uno strato di colore sopra che se per caso indossa una camicia bianca e disgraziatamente piove, gli cola tutto e si ritrova con una tenuta a strisce degna di un arbitro inglese di polo.

Ci conosciamo da almeno dieci anni e tutte le sante volte ci ritroviamo sempre nel solito posto. Uscita autostrada Pisa Nord, alla piazzola sull’Aurelia.

Ora per chi non è pratico della zona è doveroso spiegare che quel particolare tratto di strada è considerato da secoli, oasi naturale del wwf, infatti è frequentata da svariati esemplari di fauna, un assortimento tale da essere in grado di soddisfare anche i palati più esigenti, e dopo i bagordi notturni, al mattino il ciglio della strada e la piazzola, sono piastrellati da uno strato di lattice e kleenex che con i raggi del sole formano riflessi di luce estremamenti suggestivi. Di solito per non calpestare quelle opere d’arte evito di scendere dall’auto e quando torno a casa butto il tappettino del lato passeggero nel cassonetto.

Il tinto parcheggia e sale con me, già, perchè la frase di rito è sempre la solita “oh, si va con la tua che si spende meno”. Come dargli torto, è a gpl, ma loro spenderebbero la stessa cifra anche se andasse a criptonite, il carburante è a carico mio, un tempo pagavano l’autostrada, ma sai com’è, ora faccio il figo…ho il telepass. Per loro vale il principio “non tiri fuori i soldi=non spendi”, il doppio “bip” che si sente attraversando il casello lo hanno catalogato come “rumore di fondo” e la sbarra si alza automaticamente perchè ormai ci conosce e si fida di noi.

Un’altra mezzora ci divide dal secondo passeggero. “Mr crocodile Dundee”. Non è un selvaggio avventuriero, ma comunque avrà ventisette paia di scarpe di ventisette rettili diversi, dal biacco al drago di Komodo.

Di solito la mezz’ora diventa un’ora abbondante, in quanto siamo presi dai nostri discorsi e buchiamo sistematicamente l’uscita dell’autostrada, segue inchiodata, bestemmione a due voci e commento del tipo “boia che palle, ma perchè non si lascia lì, tutte le volte ci fa perdere un’ora”, come se il fatto di aver cannato l’uscita fosse colpa sua. No, (forse) non lo è, ma insultare sia lui che il boa muschiato che ha ai piedi, ci fa stare meglio.

Ok, lo carichiamo. La carovana è al completo, siamo già in un ritardo pazzesco, dovevamo essere a Forlì per le dieci, sono le 9:45 e il navigatore segna due ore e quaranta all’arrivo, io non ero un’aquila in matematica, ma qualcosa mi dice che forse non saremo puntuali. Il primo che dice che deve pisciare sarà giustiziato.

Ok, niente bagno, niente bere nè mangiare, ma cazzo dopo due ore di viaggio una sigaretta ci vuole. Fumare in macchina non se ne parla, il tinto ha smesso vent’anni fa e ora non sopporta l’odore. Anch’io sono quindici anni che non gioco col game boy, ma ogni tanto una partitina a kick off ’89 la farei volentieri.

Comunque non ci sono alternative. Tocca fermarsi. Di solito scendiamo a Sasso Marconi, nebbia fitta, umido che si mangia a morsi e freddo cane. Loro due per risparmiare tempo pisciano alla colonnina del diesel self service, io ne approfitto per entrare dentro e mangiarmi di nascosto un cornetto con caffè incorporato. In diaciannove secondi netti deglutisco tutto, esco strabuzzando gli occhi a causa del cornetto che ho ingoiato intero e ora è fermo all’altezza della carotide. Miracolosamente sopravvivo, avrei bisogno di acqua, ma di tornare dentro non se ne parla, un sorso al liquido del lavavetri risolve il problema.

Visto l’orario assurdo decidiamo di fare i bimbi corretti e telefoniamo per annunciare le nostre due ore e ventiquattro di ritardo. È un fenomeno inspiegabile, ma ogni volta che dobbiamo andare in azienda, sulla A14 si formano improvvisamente code interminabili. La segretaria risponde “strano, sono sintonizzata su Onda Verde e non ci sono segnalazioni”. “Senti ciccia, se ti dico che c’è fila fidati”. Chiudo la comunicazione, alzo lo sguardo e davanti a me c’ê solo una lingua d’asfalto dritta, l’auto più vicina è in Croazia.

Finalmente arriviamo. È ora di pranzo, il titolare ci fa salire sulla sua astronave e ci porta a mangiare. Ordiniamo tutto quello che c’è nel menù, il tinto raccatta una sbornia che lo fa camminare a tastoni, Dundee si fa mettere gli avanzi in un sacchetto e li porta a casa, probabilmente ci deve governare gli animali della scarpiera.

Si rientra in azienda, quattro chiacchere (la crisi, il calo delle vendite, la concorrenza che deve morire folgorata con gli esperimenti del piccolo chimico), ci riempiono il bagagliaio di cataloghi, utilissimi da mettere sotto la gamba del tavolo quando dondola, salutiamo tutti, andiamo a fare gli occhi dolci alla segretaria, lei sembra la figlia del signor Vodafone, è sempre al telefono, ci sorride, io le faccio la linguaccia lei alza il dito medio, termina la conversazione col rompicoglioni di turno, sta per dirmi qualcosa, ma non fa in tempo ad arrivare alla doppia effe di vaffanculo che squilla di nuovo il telefono. Peccato, ci tenevo tanto.

Rifacciamo tutta la strada a ritroso.

Con la scusa di farmi controllare una ruota faccio scendere Dundee a due chilometri dalla sua auto, appena mette i piedi in terra parto a razzo, lui ce ne dice di tutti i colori ma noi siamo già in autostrada.

Riporto il tinto alla sua vettura e noto il cofano decisamente più lucido rispetto al resto della carrozzeria. Penso che deve essere una soddisfazione avere la consapevolezza che la sua Renault Megane sia stata teatro di amplessi animaleschi, ma sono un amico fidato e tengo questi pensieri per me.

Così guido da solo al buio verso casa, finestrino aperto, piede sui centoventi, sigaretta e radio con cd di Tracy Chapman, mi ritrovo a pensare che in fondo è stata una bella giornata, e che quei due scrocconi sono una piacevole compagnia, mentre faccio queste smielate considerazioni, noto qualcosa che svolazza nel porta oggetti vicino al freno a mano.

Entro in casa con un viso stanco ma sorridente e con due banconote da venti euro nella tasca dei pantaloni.

I miei compagni di viaggio stavolta si sono svenati, speriamo solo che i soldi non li abbiano fregati al benzinaio di Sasso Marconi.

Casablanca a batteria.

ImmagineFaccio outing e lo confesso. Io fumo.

 

Lo so, fa male alla salute, provoca malattie cardiovascolari, invecchia la pelle e ti induce a mettere le dita nel naso al semaforo.

Tutto vero. Ma ormai è uno (stra)vizio, se vogliamo, è una piccolissima forma di autolesionismo, sai che fa male, ma lo fai lo stesso. Un pò come la depilazione per le donne.

 

Cerco di limitarmi, non tanto per il bene del mio fisico, ma per la salute del mio portafoglio, attualmente un pacchetto di bionde costa quanto un chilo di plutonio.

Coloro che appartengono alla mia categoria converranno con me nell’affermare che ci sono svariati motivi per accendersene una e tutti maledettamente validiti.

Sei incazzato? Ti serve per scaricare il nervoso.

Ti stai annoiando? Ti serve per ingannare il tempo. Sei ubriaco? Girala dall’altra parte che stai incendiando il filtro.

 

Una sequenza inevitabile di eventi avviene alla fermata dell’autobus. Sei in attesa da un quarto d’ora, all’orizzonte nessun segnale di arrivo imminente, azzardi e pensi “ma si…ne accendo una, tanto prima che arrivi…”, dai un ultimo sguardo di conferma. Tabula rasa. La metti tra le labbra, tiri fuori l’accendino e…fai fuoco. Ed ecco l’infernale trittico di azioni. Accendi. Bestemmione. La butti. È inevitabile come il festival di San Remo.

 

Esistono due “dopo” in cui, per chi fuma, è assolutamente impossibile resistere al richiamo della nicotina. Quella “dopo” il caffè e quella “dopo”…va bhe, personalmente mi devo accontentare di quella del caffè.

 

E poi…dai…diciamocelo, chi è che non ha mai usato la più stupida e banale delle scuse per cercare di abbordare una ragazza avvicinandola con l’aria da Humphrey Bogart in “Casablanca” dicendole “Ehi pupa hai da accendere?”, ma soprattutto, chi è che non ha mai ricevuto come risposta “Si guarda, datti fuoco, ti regalo pure l’accendino”.

 

Ma, (perchè c’è sempre un “ma” che spunta quando meno te l’aspetti), tutti questi rituali, dogmi religiosi e stratagemmi da Pacciani in tempesta ormonale, rischiano di essere spazzati via dall’avvento del nuovo ritrovato della tecnologia moderna. La sigaretta elettronica.

 

La usano in tantissimi e sono tutti orgogliosissimi di averla, la puoi fumare ovunque, non danneggia te e neanche chi ti sta intorno e ha un milione di gusti. Parli con persone e senti l’odore di menta, fragola, gianduia, frittura di calamari e gusto puffo. Ieri parlavo con un cliente ad un certo punto non ho resistito e ho chiesto “ma usi la sigaretta elettronica? ma è un’aroma nuovo?” e lui “no, è colpa del fegato con le cipolle che ho mangiato a pranzo”.

I consumatori si scambiano i gusti fra di loro, se ti dò quattro vaniglia mi dai quello al tartufo?

Si narra che il gusto “fonduta di taleggio” valga più del “Gronchi rosa” (che non è un gusto ma un francobollo, ed è quindi sconsigliabile fumarlo).

Ma soprattutto…la puoi fumare dove è vietato!!! Al ristorante, in treno, nei centri anti-fumo e sulla tazza del bagno senza il timore di uscire con un’ustione di terzo grado ai testicoli.

 

La cosa che indubbiamente dà più soddisfazione a chi si esibisce nell’arte dello sfumazzamento virtuale è quella di essere avvicinato, guardato con disprezzo e severamente redarguito dalla petulante signora di turno che esplode in un “senta, non lo sa che qui è proibito fumare?”. E in quel preciso istante il presunto colpevole si sente Dio, la sua statura si alza di venticinque centimetri, come Silvio quando deve fare la foto di gruppo, guarda dritto negli occhi la poveretta e con voce possente esclama un laconico “è elettronica”, ma vorrebbe dirle “grazie di avermi concesso la possibilità di farti fare una stratosferica figura di merda”.

 

Per quanto mi riguarda, non biasimo chi la usa (anche perchè ce l’ho in catalogo e la devo vendere a tutti i costi) e confesso di averla provata per un paio di giorni.

Ho smesso di usarla per un semplicissimo motivo: il primo cliente a cui l’ho fatta vedere l’ha presa in mano, guardata come se fosse un armadio a quattro ante dell’Ikea da montare, l’ha messa in bocca e l’ha accesa…con l’accendino Bic.

Nel giro di quattro secondi si è propagato un odore di gomma bruciata che pareva di stare all’inceneritore di Parma.

Dopo questa devastante esperienza, ho giurato eterna fedeltà alle mie Winston e sono giunto alla conclusione che certe bellezze naturali non possono essere sostituite con la plastica, anche se Alba Parietti non la pensa così.

 

Insomma, io non sono qui per giudicare nessuno, ma mi chiedo: ce lo vedete voi Humprey Bogart che chiede a Ingrid Bergman “ehi piccola, hai mica una ministilo che mi si è scaricata la pila?”

Il vicino avrà anche l’erba più verde, ma spesso gli mancano le cartine

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Qualche giorno fa ho incontrato per caso un mio vecchio amico, non ci vedevamo da almeno quindici anni.
Mi sono sentito improvvisamente vecchio.

Premetto che siamo amici su facebook, ma è una di quelle amicizie che, come direbbe l’attuale ministro Grilli, fa parte del sommerso.
La cosa è ovviamente reciproca.
Non leggiamo i nostri post e non ci teniamo aggiornati sugli sviluppi delle nostre esistenze.
Ma appare la fotina nella colonna della chat, tu la vedi, sai che c’è ma la ignori, come la bolletta del gas che ti arriva dieci giorni prima della scadenza.

Comunque un’occhiata ogni tanto la butti, per una sana morbosità, per controllare il grado di decadimento dei tuoi coetanei e anche come sprone per non lasciarti totalmente andare ad uno stato di sciatteria completa.

Questo a patto che ognuno degli utenti applichi le regole minime di onestà intellettuale.

Così vai in giro con l’immagine patinata dei tuoi amici-psico-ignorati stampata della mente.
Poi arriva quel fatidico giorno in cui la realtà si palesa davanti a te. Il tipo che per un caso fortuito ha incrociato il tuo sguardo ti ricorda qualcuno ma proprio non sapresti chiamarlo per nome. Lui ha il tuo stesso identico atteggiamento, ma probabilmente le sue sinapsi sono più attive (misero risultato, dato che i tuoi neuroni alle nove di mattina sono ancora a Copacabana), e ti saluta.

E in quel preciso istante gli salteresti alla gola, come un mastino napoletano, gridandogli “Sciagurato!!! Aggiorna la foto del profilo!!!”
Scopri così che l’immagine che vuole dare di sè, risale a otto anni prima, con capelli fluenti, fisico asciutto e sorriso sornione di uno che la sa lunga.
Ora invece stai per interagire con un tizio che porta in testa uno spiazzo tale da poterci organizzare il prossimo Palio di Siena, la sua fiera muscolatura è finalmente esplosa e qui una leggera vena di cattiveria, mista a passata invidia, ti fa esultare come quando andavi a scuola senza aver aperto libro e invece della prof, entrava la supplente in minigonna.
Il tuo ego si nutre di quella visione e raggiunge proporzioni smisurate.

Sul momento non sai su quali argomenti puoi intavolare la discussione, e la tua espressione è identica a quella di uno che sta andando a raccogliere le castagne a piedi nudi.
Inizi con un rassicurante “Come stai?” E il tuo interlocutore parte con una filippica snocciolando aneddoti che suscitano in te interesse pari ai dati di proliferazione delle trote salmonate nella regione del Piave. Conclude la sua rassegna ironizzando sui postumi della sua mega festa di compleanno svoltasi due giorni prima. Adesso il tuo imbarazzo è totale. Maledici il momento in cui hai ignorato la notifica che faceva bella mostra di sè nella colonna “compleanni”. Accampare scuse peggiorerebbe la sua già misera considerazione che ha di te. Glissi e inizi a parlare della crisi e delle trote salmonate.
Poi lo guardi meglio e noti dettagli che ad una prima occhiata ti erano sfuggiti.
Scarpe simili alle tue, ma più fashion, la sua sciarpa è trendy, mentre la tua sfoggia una bella etichetta “made in P.R.C.” e ringrazi il cielo di essere ignorante in inglese, altrimenti la lista sarebbe più lunga dell’elenco degli invitati all’inaugurazione della nuova stagione della Baia Imperiale.
Insomma, sembra te, ma un pò più rigovernato. La solita teoria dell’erba del vicino…

Ti congedi simulando un appuntamento di lavoro e durante il tuo peregrinare ti assalgono dubbi atroci del tipo “ma anch’io avrò avuto lo stesso decadimento fisico?” E per sicurezza ti passi la mano fra i capelli sperando di trovarli ancora.

Arrivi a casa e ti fiondi davanti allo specchio, più che guardarti, ti stai facendo direttamente una T.A.C., la pancetta e quei 6 (bugiardo sono almeno 10) chili che non riesci a perdere, stanno minando pericolosamente la tua autostima. Sei in piena crisi di identità, per un attimo non ti riconosci nell’immagine riflessa, ti senti la reincarnazione del pirandelliano Vitangelo Moscarda di “uno nessuno centomila”. Corri in cucina a bere un bicchiere d’acqua, apri la credenza e il barattolo della Nutella placa la tua sete.
Mentre sei intento a ricoprire la fetta di pane con uno strato consistente di quel gratificante cibo degli dei, il tuo unico pensiero è ” Ma si…, se ingrasso, sul mio profilo di facebook ci metto la foto di Jeeg Robot d’acciaio, e vaffanculo”.

 

Pesce rosso e rostinciana

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E’ ufficialmente iniziato il periodo delle sagre paesane.

Ogni agglomerato urbano ha la sua, da quella del tortello a quella del ginghiale al mare in perizoma.
Tutti gli alimenti commestibili o pseudo tali, trovano la giusta coronazione in banchetti conviviali a loro dedicati.
Non se ne salva uno, ami le chiocciole? i primi giorni di giugno puoi andare ad ingozzarti a Vicopisano e lì ti renderai conto che le corna sono un virus trasmissibile da invertebrato a essere umano; ami la trasgressione? corri subito a Borgo San Lorenzo, ti troverai immerso nei festeggiamenti della sagra del prugnolo, ti renderai conto che il novantasette per cento dei commensali non sa che cazzo sia il prugnolo, il restante tre per cento sono ex tossici, semi-acculturati, che sono venuti con la speranza nel cuore di trovare in quel turbinio di funghetti il miceto d’oro capace di scatenare visioni celestiali.
Se invece ti trovi a passare in quel di Zeri (paesino in provincia di Massa), potrai imbatterti in stormi di maschi sognanti, spinti da desideri incoffessabili, intenti ad accaparrarsi i posti migliori per sfogarsi nell’evento mondano dell’anno: la sagra della pecora zerasca. La delusione più assoluta si manifesterà suoi loro volti quando capiranno che la festicciola è dedicata semplicemente alla degustazione del quadrupede ovino e non alle bipedi locali.

Ok, organizzi con un gruppo di quattordici amici l’insana magnata.
Passi i primi ventisette minuti a cercare un parcheggio, arrivi al punto di odiare la tua vettura, ti fermi sul ciglio di una scarpata, scendi, metti in folle, togli il freno a mano e lasci che i suoi centoventi cavalli vadano a pascolare nel campo seminato a maggese che ti si para davanti.

E’ giunto il momento di ordinare.
Ti accodi ad un numero di persone pari alla popolazione dell’Uzbekistan, tiri fuori il telescopio col quale dal terrazzo di casa tua ci puoi contare gli anelli di Saturno, ma che adesso non ti pemette di leggere il menù appeso alle pareti del casottino della cassa talmente sei lontano.

In questi baccanali le norme minime di igiene sono prese, appallottolate e buttate nel cassonetto della differenziata.

Le cucine sono improvvisate in castri suini dismessi e il capo chef indossa fiero la parannanza (ex) bianca che indossava il suo bisnonno e che si tramanderà per altre sei generazioni evitando accuratamente che venga a contatto con qualsiasi forma di sapone.

Ti siedi su due tavoloni di sette chilometri che spesso si uniscono improvvisamente tra di loro pizzicandoti le chiappe, quando ti alzi avrai il culo a pois. Come la Pimpa.
Hai ordinato tutto quello che potevi, dall’antipasto all’ammazza caffè, te la vuoi proprio godere e soprattutto, vuoi prendertela comoda.
Inizi a interloquire con i tuoi commensali ignaro di quanto sta per succedere. Improvviso come l’herpes labiale, si manifesta all’orizzonte il bambinello con calzoni corti che ha preso la tua ordinazione, cammina con in mano un vassoio enorme contenente un numero illimitato di piatti (di plastica), bicchieri (di plastica) e bistecche….(di plastica). Sembra un equilibrista del circo Togni, catapulta il tutto sulla tua porzione di tavolo, e quando dico “tutto” intendo proprio l’intero menù, così ti ritrovi a dare un morso ai crostini con i fegatini, addentare la torta della nonna del capo chef e degustare gli spaghetti al tartufo nello stesso boccone. Devi sbrigarti perchè fra dieci minuti inizia la musica e devono sparecchiare.

Così ti ingozzi come un criceto, conservando le scorte di cibo nelle guance, per i periodi di magra.

Parte il primo colpo di batteria, lo show è iniziato, gli “Hurrà” stanno intrattenendo la folla con le note del ballo del pinguino, aspettando così, tra un saltino e un passino, l’arrivo della guest star della serata.
Ci siamo, l’attesa è finita, mettete a letto i bambini che il rocker maledetto è arrivato. Finalmente il mitico Tony Dallara fa il suo ingresso sul palco e si scatena incendiando la pianola tra “Romantica” e “Ghiaccio bollente”.
Infine alla coppia con la migliore dentiera verrà consegnato un buono per una revisione gratuita della protesi all’anca.

Sei giunto al limite, mastichi svogliatamente gli ultimi brandelli di rostinciana, ti pulisci le mani alla camicia del pensionato seduto al tuo fianco, ti scoli l’ultimo sorso di China Martini e te ne vai.

I tuoi amici si sono dileguati quando sul palco si cantava “siamo i watussi”.

Torni a casa, riempi il primo recipiente che trovi di acqua e diger selz e mandi giù. Cazzo, era la boccia del pesce rosso e del suo inquilino non c’è più traccia.

Ti butti sul letto consapevole che la tua digestione terminerà il prossimo anno bisestile.

Ti svegli di soprassalto alle tre e venti di notte con un senso di pesantezza che non ti abbandona e con una domanda che ti rimbalza nella testa: che cazzo ci sei andato a fare alla sagra dell’anguilla in agrodolce se il pesce ti fa schifo? Ma soprattutto, quanti “mi piace” e quanta invidia susciterà la foto con te e Tony Dallara che hai pubblicato su facebook?

 

Che fai stasera? Esci? Si?!?!? Povero sfigato.

ImmagineDi solito la pausa pranzo è il momento giusto per scrivere un post, anche perchè fare la pennichella nell’auto parcheggiata vicino al centro, lungo i portici di Piombino, potrebbe risultare quantomeno bizzarro.

 

Ascoltando distrattamente la radio, ho captato che lo speaker di turno parlava di storie di persone che si sono conosciute grazie (?) alla rete.

 

Nella seconda metà del secolo scorso per provare a conoscere qualche avvenente fanciulla il metodo più gettonato era quello di andare in discoteca, farsi qualche cuba libre e iniziare a comportarsi da cavernicolo sulla pista.

Così, clava alla mano, tramortivi la poveretta di turno (con qualche litro di cuba libre in più dei tuoi) e la invitavi a bere qualcosa (no, non iniziate a fare facili battute, erano altri tempi, pensate solo che Pippo Baudo si tingeva ancora i capelli…ho detto tutto).

Insomma, pagavi la sua bevuta, la riempivi di complimenti, la chiamavi (ho detto “chiaMavi !!!) con sette nomi diversi (tanto era piena di alcool e non ci faceva caso) e lei, sistematicamente, non te la dava. Mai. (Roba che, se ti fossi fermato sulla tangenziale, con metà investimento, avresti raggiunto l’obiettivo…ma lasciamo stare).

Eppure eravamo tutti brutti, sporchi e….e basta.

Va bhe, comunque sia, ritornavi dai tuoi compagni, tutti completamente fuori come gerani sul balcone, millantando scoperte di nuovi orizzonti animaleschi.

 

Ma la tecnologia ha fatto passi enormi, oggi tutto quello che cerchi è nel tuo salotto di casa, all’interno del tuo computer, o nel telefono che tieni in tasca.

C’è gente che lascia sempre la vibrazione, ci fate caso?, non lo fanno per educazione, pare sia una comune pratica di soddisfazione indotta, quando sono…sul più bello mandano un sms ad un nome qualsiasi della rubrica con scritto “ti prego, telefonami ora”.

 

Insomma, in questo periodo storico è molto più semplice socializzare. Conosco persone giocano a Ruzzle solo per usare la chat. Pare che a breve uscirà la versione aggiornata, si chiamerà “Strip-ruzzle”, chi perde si toglie qualcosa, speriamo solo che qualcuno si tolga dalle palle.

 

Comunque sia, il consiglio d’oro è sempre lo stesso: la prima cosa da fare quando conosci una persona in rete è quella di farsi mandare IMMEDIATAMENTE la foto.

 

Un mio collega, sei mesi fa (dettaglio da ricordare per il finale di questo racconto) amante del brivido si è intrattenuto telematicamente (spero con gli abiti addosso perchè vestito è inguardabile, figuriamoci ignudo) con una signorina conosciuta su Badoo (altro banchetto di corpivendole/i mica da ridere), insomma solite cose, come sei, come non sei, e lui (non essendo esattamente il sosia di Garko) ha evitato di chiederle la foto.

Risultato: si sono dati appuntamento alla fontana della piazza centrale del paese, lui è arrivato tatticamente in ritardo e quando da lontano ha scorto uno scaldabagno rosa con i capelli biondi ha tirato dritto.

 

Prima se non uscivi mai di casa eri uno sfigato senza vita sociale, adesso passi intere settimane senza mettere fuori il naso dopo cena e ti senti un dio con centocinquantamila amici, parli con strafighe (che usano Belen come foto del profilo) che non aspettano il terzo appuntamento per dartela, te la tirano dietro prima che tu possa dire “apericena”.

Ma è giusto così, siamo al passo coi tempi e poi, se non ti lavi da cinque giorni vai tranquillo, per ora in chat non si sentono gli odori.

 

Comunque, per chi fosse interessato, ieri sono passato davanti alla fontana, hanno messo i ciclamini tutti attorno al bordo, è meravigliosa, l’unica nota stonata è quella signora col vestito rosa confetto che tiene in mano un cartello “Sono Greta, sto aspettando Batacchio56”.

 

Note dell’autore: ogni riferimento a fatti e persone è puramente frutto di fantasia. Sarebbe inconcepibile pensare a persone che passano le serate in chat.

Ah dimenticavo, io stasera dalle 20:39 alle 23:47 sono online.

È inutile usare la chiave inglese se non sai le lingue.

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Mi capita spesso, quasi sempre per una specie di impegno chiamato lavoro, di fare una comparsata in qualche paesino dell’entroterra collinare.

 

Prima che qualcuno si incazzi a sproposito, preciso subito che vado decisamente pazzo per questi macro presepi animati. Appena varco il confine comunale, che di solito è caratterizzato da scritte ingiuriose nei confronti della madre del sindaco del comune antagonista, il mio sguardo si illumina come quello di Cristiano Malgioglio davanti alla trousse del fard.

 

Gli abitanti si conoscono tutti e le prime volte che ti vedono sono sospettosi, si scambiano sguardi complici, ti chiamano “straniero” (come nei migliori western di Bud Spencer e Terence Hill) e per non sapere nè leggere nè scrivere…si portano la mano al portafoglio, perchè non si sa mai.

Una volta appurato che sei innocuo tipo Gigi D’Alessio senza microfono, iniziano a darti confidenza.

 

E Lì è l’apoteosi.

 

Il primo che ti rivolge la parola è il reduce. Tutti lo chiamano dottore ma non è nemmeno infermiere. Gira con un cappello da alpino (anche se era in marina), dice di aver fatto entrambe le guerre e, se non ha ancora preso la pasticchina rossa, giura di essere stato al fianco di Napoleone durante la campagna di Russia. Peccato che sul più bello del racconto, quando sta per sferrare l’attaco finale al nemico, arriva la badante, lei russa veramente, che lo porta a casa a vedere la ruota della fortuna.

 

Di solito ci sono tre bar, uno sempre aperto che fa un caffè che sa di fosso, uno sempre chiuso con la scritta alla porta “torno subito” e il terzo gestito da un rastone di 150 chili, che fa come cazzo gli pare. Gli chiedi un caffè ed esci con un’Oransoda.

 

Il pezzo da novanta è il ferramenta, sempre abbronzatissimo, scarpe nere lucide e capelli impomatati, un misto fra Valerio Merola e la brunetta dei Ricchi e Poveri, alcuni sostengono che il negozio sia una copertura per i suoi loschi giri di femmine, oddio, il dubbio è legittimo, una volta gli ho chiesto la chiave inglese del 13, mi ha guardato come se gli avessi domandato gli affluenti dell’Adige e poi s’è scusato dicendomi che lui alle medie ha fatto francese.

 

C’è l’impiegato della banca, venerato da tutti, visto come tramite tra noi poveri mortali e il divino, l’essere perfettissimo, nostro signore del fido bancario. Il direttore della filiale. Tale mistica figura è un’entità impalpabile, fa solo alcune sporadiche apparizioni come la Madonna di Fatima, per il resto, non si manifesta mai, tipo Berlusconi al tribunale di Milano.

 

La bottega del barbiere è il vero cuore pulsante della comunità.

È sempre pieno di gente, ma nessuno si taglia i capelli, sono tutti seduti sulle poltroncine imbottite a leggere la Gazzetta e disquisire di organi genitali. Lui si fa la barba tre volte al giorno, tanto per sentirsi impegnato. Conosce i cazzi di tutti, al punto che il parroco prima di dare la penitenza al confessato, va da lui a chiedergli conferma.

Si scopa la moglie del ferramenta (il barbiere, non il parroco, almeno, non ufficialmente), ma solo perchè il ferramenta compra la gommina per i capelli al supermercato anzichè andare da lui.

 

Insomma tutte persone così, che magari vanno a prendere l’aperitivo col trattore, ma che sono comunque indispensabili al regolare funzionamento dell’ecosistema paesano.

 

Come dite?…le donne?…Ecco, quello è un mistero, stanno tutto il giorno in casa a fare bricolage, piantano chiodi , stringono viti, mettono tasselli nel muro e usano chiavi inglesi (o francesi) di tutte le misure. Mi chiedo solo da dove nasca questa passione, mah…vanno continuamente al negozio a comprare questa roba, ma non in un negozio a caso..ma in quello del….

 

Italasia.

 

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Una nuova e sempre più pressante realtà del nostro panorama economico, è rappresentata dai negozi cinesi.

Cinesi per modo di dire, infatti questi manager rampanti intrapredenti, parlano un idioma misto fra Hong Kong centro e quartiere Garibaldi di Livorno.

In questi esercizi commerciali occhimandorlati puoi trovare qualsiasi cosa, partorita da chissà quale mente brillante mai giustamente apprezzate, la gamma di queste suppellettili puo’ variare dal panda dorato che ti fa l’inchino quando entri, all’orso viola che ti manda a fanculo quando esci.

I titolari che gestiscono questi labirinti di borse e pile dal prezzo massimo di 5 centesimi, sono di un numero che varia dalle 5 unità alle 40 decine, nessuno saprà mai quantificarli, anche perchè ti illudi di parlare sempre con la stessa persona e in realtà in 6 minuti hai interagito con 24 individui diversi, ma vestiti tutti uguali e con lo stesso taglio di capelli.

Ma la cosa più curiosa che accade in queste fosse comuni di risaie si manifesta quando incontri persone che conosci, e qui si verifica il dramma.
Ti avvicini, saluti tua zia che non vedi da 5 mesi e la sua faccia è identica a quella che fa qualcuno seduto sulla tazza del cesso quando tu entri senza bussare.

Alcuni dissimulano, fanno finta di non conoscerti e rispondono con un marcato accento marchigiano.
Si, perchè si sentono smascherati, colti in flagranza di reato, incapaci di reagire, come quando tua moglie si mette al computer dopo che tu hai passato la notte su youporn e ti sei dimenticato di cancellare la cronologia.

Solitamente la prima frase che riescono a dire è “…giuro, è la prima volta che entro qui dentro, ero solo curioso, ma non comprerò niente”, come se incollare il manico del vaso da notte con lo SkazzaK da 1,05 euro fosse un reato penale.

Capitolo a parte meritano le commesse, sempre, costantemente, incinte, che ti sorridono e qualunque cosa tu dica annuiscono e parlano fra di loro in lingua madre, paghi, esci e loro continuano a sogghignare e a scambiarsi battute e tu sai benissimo che la sensazione di essere inseguito dall’uccello padulo non ti abbandonerà per almeno 3 settimane.

In conclusione vorrei dare una notizia devastante alle signore che durante i momenti di intimità col partner si entusiasmano notando che il profilattico calza decisamente stretto. Purtroppo il fenomeno non è dovuto ad una miracolosa crescita dell’organo pensante del genere maschile.
Se frugate nella tasca posteriore dei pantaloni troverete uno scontrino di Xian Chin Chan con un importo di 0,59 €/cent sotto la voce “Dulex”.