Filastrocca di Natale (o qualcosa di simile).

Natale che arriva sui tetti e le case, c’è un babbo panciuto che porta i regali,

si annusa nell’aria la neve che cade, si esprimono in coro desideri ancestrali

 

A Natale in cucina si sente l’odore di fritto, ragù e gamberi in fiore,

lo senti nel naso e ti impregna i vestiti, ti resterà addosso come sui muri i graffiti,

ma oggi è Natale e tutto è concesso anche se puzzerai senza averne ritegno,

proverai a ignorarlo ma senza successo, l’odore che hai addosso ti resta in eterno,

ma sopporti paziente quell’alone palese anche se sembri uscito da un ristorante cinese,

 

A Natale i parenti si guardan cortesi, è il preludio perfetto di discorsi inattesi,

con alcuni di loro ti mostri cordiale, mentre altri li guardi come un killer seriale,

suona al citofono lo zio un po’ pazzo, quando chiedi chi è risponde stocazzo

 

Il Natale è mia madre con la parannanza, per lei è festa ma non abbastanza.

Sedetevi a tavola come meglio credete, si sarà fatta un mazzo grosso come l’abete,

antipasti di mare e crostini toscani, se avanza qualcosa si mangia domani,

alla fine del pranzo ci si mette a parlare, si parla di Mario abbandonato all’altare,

è la terza volta che viene tradito, se continua così non sarà mai marito,

chissà che non pensi di cambiare sponda, se i cornuti volassero lui mangerebbe con la fionda.

 

Il Natale è mio padre che stappa il prosecco, gliel’ha dato un suo amico pare venga da Lecco,

non sa neanche dov’è quel posto lontano per mio babbo dopo Massa è tutta Milano,

lui conosce la storia della Livorno mai doma, ma a sud di Grosseto per lui inizia Roma.

Viviamo in provincia, siamo fatti così, ci sentiamo perduti lontano da qui.

 

Il Natale è mia moglie che prepara i biscotti, guardo i gesti precisi, misurati e ridotti,

questi anni passati forse ci hanno cambiato, ma lei è migliorata io so’ rincoglionito,

è stato un tempo felice, a volte incazzato, ma siamo stati bravi e non abbiamo mollato

il momento migliore di ogni giornata è trovarsi vicini comunque sia andata.

 

 

Il Natale è mia figlia che scarta i regali, me la ricordo bambina ma i gesti son uguali,

le brillano gli occhi per quello stupore, il regalo inatteso è sempre il migliore,

me la immagino donna e le auguro piano che trovi qualcuno che la prenda per mano,

tu che sarai l’uomo di questa bambina sappi che in camera ho una carabina

 

Caro Babbo Natale non ho fatto richieste, sono a posto così per la vita e le feste,

ma se passi stanotte con le renne e la slitta butta un occhio quaggiù anche dalla soffitta,

e fra un salto e un rimbalzo, con il tempo che avrai, pensa un poco anche a noi, perché non si sa mai.

Il Labyrintho adolescenziale.

La mia generazione è sopravvissuta alla moto senza casco, alla Panda senza airbag, al telefono grigio della Sip. Abbiamo assistito impotenti alla fine di Dallas e Happy Days, siamo usciti indenni dalle canzoni di Nino D’Angelo e dalle tette di Samantha Fox, magari con qualche diottria in meno, ma comunque salvi. “Tra rischi indicibili e traversie innumerevoli, io ho superato la strada per il castello oltre la città di Goblin” , diceva Jennifer Connelly in Labyrinth, ma tutte queste imprese eroiche sono niente in confronto alla prova estrema di relazionarsi con una figlia adolescente.

Capita all’improvviso, la sera le dai il bacio della buonanotte, guardi quel fagottino di ottanta centimetri, le rimbocchi le coperte e la lasci nella sua cameretta rosa confetto in compagnia di Winnie the Pooh e il lampadario di Peppa Pig. La vai a svegliare la mattina e trovi una tizia di un metro e quaranta con lo smalto nero, la stanza è tappezzata con i poster di Fedez, sul comodino il libro di uno youtuber di sedici anni dal titolo “La biografia di un uomo di successo”, Winnie the Pooh è impiccato al soffitto con il cavo del lampadario. In pratica hai dato la buonanotte a Biancaneve e il buongiorno alla sorella di Lady Gaga. Nel dubbio inizi a girare per casa con l’indice della mano destra sovrapposto a quello della sinistra a formare un crocifisso mentre reciti il Padrenostro stringendo un rosario mariano.

Da questo momento dovrai ripartire da zero, tutto ciò che avevi imparato sulla gestione di una figlia è stato spazzato via, proverai la stessa sensazione di smarrimento di quando il Furby cambiava personalità senza un motivo apparente.

Nessuno ti prepara a questo cambiamento repentino, voglio dire, fanno il libretto di istruzione per le televisioni in hd, assolutamente inutile peraltro, anche un bambino saprebbe installarlo, ci sono manuali per il montaggio della scrivania Ikea, anch’essi inutili, neanche un ingegnere astrofisico non riuscirebbe ad utilizzare tutte le viti. Ecco, quando diventi genitore l’ostetrica dovrebbe consegnarti il neonato con le istruzioni.

Se la situazione non fosse già abbastanza complicata ci pensano i social e i programmi tv a renderla drammatica. Il vero carico da undici nella relazione padre – Furby ehm figlia, ce lo mettono i talent musicali. Amici e X Factor su tutti. Ogni anno queste fucine del superfluo ci inondano con folletti saltellanti che si atteggiano a rockstar navigate. Ma non si limitano solo a cantare, essendo “bastardi inside” questi istrionici saltimbanchi fanno di tutto: creano capi d’abbigliamento, oggetti di design, scrivono libri, disegnano quadri improbabili. Ma soprattutto… organizzano i “Firmacopie”.

Per chi non lo sapesse il Firmacopie consiste nello stare in fila all’addiaccio per 48 chilometri per incontrare il “fenomeno” del momento con lo scopo di farsi autografare il suo cd, o libro (ahahah, libro, ahahahah), o qualunque altra cosa abbia creato la mente contorta del suo manager. Durata della fila 28 giorni, durata dell’incontro 13 secondi netti compresi i preliminari.

Il galateo adolescenziale prevede che tu debba stare con il sangue del tuo sangue per tutta la durata della fila, senza sbuffare, senza lamentarti e tenendo in spalla il suo zaino contenente probabilmente un tombino di ghisa a giudicare dal peso. State insieme fino all’ingresso, quando è il vostro turno la tua dolce bambina ti guarda come Ozzy Osburne farebbe con un pipistrello e sentenzia un «Te aspettami all’uscita».

In che senso??? Ho praticamente due ferri da stiro nelle scarpe, una scoliosi deformate e ora non posso entrare? Eh no cazzo, io entro e mi faccio autografare il tombino di ghisa con la fiamma ossidrica

Invece non entri e ti avvicini al recinto dei genitori in attesa. Lo riconosci subito, è uno spazio poco transennato all’interno del quale ci sono esemplari di quarantenni che fumano tenendo in mano lo smartphone, alcuni provano a socializzare fra di loro, altri si scambiano consigli su come domare le paturnie dei propri figli in tempesta ormonale. I più attrezzati si portano dietro anche la frusta e lo sgabello per dare dimostrazioni pratiche. I passanti li guardano compassionevoli, poi scattano foto e le mettono su Instagram con l’hastag #stopanimalialcirco.

Alzi la mano chi non ha mai sbirciato il profilo Facebook o Instagram dei propri figli. Lo facciamo tutti, ci raccontiamo che è nostro dovere controllarli e metterli in guardia dai pericoli, sì, nobili intenzioni, in realtà siamo curiosi come le scimmie e cerchiamo di scoprire qualche “altarino”. Insomma, siamo un po’ giudiziosi e un po’ merde. Forse più merde.

Comunque si fanno scoperte clamorose leggendo i profili social degli adolescenti. Una su tutte: conoscono benissimo l’inglese. Alla loro età noi volevamo la cittadinanza anglosassone se riuscivamo a scrivere correttamente “The cat is on the table”. Loro postano foto con didascalie in un inglese perfetto, comunicano fra di loro in questa lingua universale mentre noi siamo ancora lì a chiederci quando entrerà in vigore l’esperanto.

Ma se li guardiamo bene un po’ ci somigliano, ci criticano, come facevamo noi con i loro nonni e citano strofe dei loro cantanti preferiti, proprio come noi.

Anche i loro gusti cinematografici ricordano un po’ i nostri, parlano con le frasi delle loro pellicole preferite, ieri per esempio mia figlia ha chiuso un nostro dialogo con «… tu non hai alcun potere su di me»- Anche a lei piace Labyrinth,, che tenera eh, la mia bambina, eh?

“Tra rischi indicibili e traversie innumerevoli, io ho superato la strada per il castello oltre la città di Goblin, per riprendere il bambino che tu hai rapito. La mia volontà è forte quanto la tua e il mio regno altrettanto grande… tu non hai alcun potere su di me.” (dal film Labyrinth – Dove tutto è possibile).

 

La besciamella divina.

Sono cresciuto in una famiglia matriarcale, con mamma, nonna e zia. Figlio unico e nipote unico, mio padre si manifestava all’ora di cena e non seguiva le dinamiche famigliari. Lui lavorava.

Tutta questa frequentazione femminile mi ha portato a carpire i segreti più nascosti della tradizione culinaria. In pratica quando entravo in cucina nei giorni di festa era come entrare in massoneria.

La ricetta che più ha segnato la mia infanzia è quella della besciamella. Non tanto per gli ingredienti ma per la preparazione del prodigioso impasto. Era un rito esoterico, chi riusciva a farlo entrava di diritto nell’albo degli alchimisti del ventunesimo secolo.

Mia nonna era la gran visir, la mamma e la zia le sue fedeli adepte. Il rituale era pressappoco questo.

Prendi un pentolone, lo fai scaldare a fuoco lento, ci butti dentro una adeguata quantità di latte. farina, sale e noce moscata. Il burro no che faceva grasso e basta e comunque per dolce c’era il mascarpone, quindi andava bene così.

Una volta preparata la pozione arrivava la fase più delicata, mescolare gli ingredienti. C’erano regole ben precise, se sbagliavi qualcosa la besciamella “impazziva” e la nonna si incazzava come una cavalletta. (impazziva, dal greco “or’a son’o ca’zzi” = faceva i grumi).

In questa situazione di terrorismo psicologico era fondamentale scegliere la persona giusta addetta al mescolamento.

Innanzi tutto doveva essere una donna, fin qui niente di particolare.

Non doveva avere il ciclo. O meglio, non doveva averlo lei, ma neanche le sue parenti fino al terzo grado. Qui iniziava un giro di telefonate alle cugine, alle zie lontane, alle sorelle delle cugine perché non si sa mai. Roba del tipo «Pronto, scusa se ti disturbo, quando ti sono venute l’ultima volta? Ah, ok, ma sei regolare? Mi leggi i valori delle ultime analisi?». Ci sono massaie che hanno preso una laurea in ginecologia prima di poter fare la besciamella. Ma non era finita qui, se qualcuna delle assistenti aveva il ciclo non poteva per nessun motivo avvicinarsi e tantomeno toccare la persona addetta al mescolamento, pena sfilata per le vie del centro con la lettera scarlatta C di “ciclo”.

Seconda regola fondamentale: l’impasto andava girato solo e soltanto con la mano destra. La sinistra era quella del diavolo, i mancini erano figli del demonio e infatti facevano delle besciamelle di merda. Se vi sposate con una donna mancina fatele cucinare il cinghiale, l’abbacchio, il pesce siluro, il gatto Silvestro, qualunque cosa ma mai le lasagne. E soprattutto se notate che inizia a parlare azteco rivolgetevi a un esorcista. Questa cosa di mescolare solo con il braccio destro ha portato le massaie ad avere un bicipite tipo Silvester Stallone in “Over the top”.

Terza regola: girare il mestolo in senso orario. Se lo giri nell’altro senso dai uno schiaffo alla Madonna. A questo punto io me ne uscivo sempre con la stessa affermazione «Nonna, dipende da dove si è seduta la Madonna, se sta a sinistra il ceffone lo becca ugualmente, no?» La nonna mi guardava come se mi fossi pulito le scarpe sulla tovaglia di lino, si faceva il segno della croce alzando lo sguardo verso il soffitto e parlando sottovoce direttamente con l’Interessata, poi si rivolgeva a me dicendo «Se continui così vedrai cosa ti succede». Io la sera andavo a dormire con il terrore che mi venisse il ciclo.

Quarta regola: la “mescolatrice” non doveva togliere lo sguardo dalla pozione. Poteva sbattere le palpebre, ma non più di una volta al minuto. Non di rado venivano chiamati i cronometristi della federazione internazionale di atletica per prendere i tempi. Come scattava il sessantesimo secondo nella stanza rimbombava un «Sbatti!». L’addetta alla mescolanza doveva essere indifferente a qualsiasi distrazione, al telefono che squillava, alle richieste di soccorso e alle corna di Ridge durante la centoventisettemilionesima puntata di Beautiful. Di solito la mescolatrice veniva isolata tramite l’inserimento della testa dentro un casco da parrucchiera impostato sulla modalità di rumore “Reattore nella valle dell’eco”.

Quinta ma più importante regola. La regola regina: se sei arrabbiata la besciamella “impazzisce”. Vale anche se inizi calma e ti incazzi mentre mescoli. Quindi l’ordine era di parlare sottovoce, niente movimenti bruschi e se non potevi fare a meno di parlare alla mescolatrice dovevi prima fare un’ora di meditazione zen e poi rivolgerti a lei con «Cara perdona la mia invadenza… » Era consigliabile farlo con un sorriso devoto, a mani giunte e possibilmente essere in odore di santità.

Se tutto andava bene la mescolatrice veniva portata in trionfo per tutto il quartiere, con caroselli e cori da stadio tipo “Siam venuti fin qui, siam venuti fin qui, per mangiare lasagne così”.

Adesso le cose sono cambiate, le famiglie sono meno numerose, c’è il padre che lavora, la madre che lavora e i figli che non si riesce a capire se siano destri o mancini perché usano lo smartphone con entrambe le mani. Ma non dobbiamo disperare, oggi esiste la “mescolatrice” perfetta. Non ha il ciclo, mai, non è mancina, gira l’impasto in senso orario, non si distrae per nessun motivo al mondo e non si incazza neanche se lasci la tavoletta del water alzata. Costa più di mille euro e si chiama Bymby.

Fa un impasto strepitoso, niente da dire, ma io continuo a sognare le donne della mia famiglia e la loro besciamella della Madonna.