Serenata alternativa

Una finestra che dà su una via secondaria, in strada c’è un ragazzetto seduto sul cofano dell’auto a guardare quei vetri, sta pensando qualcosa e lo sta facendo più forte che può:

“Nina affacciati che ti canto la serenata. Ok, magari la serenata no, ma ho scritto una cosa che parla di te. No, non è una poesia, non sono bravo con le rime, però ecco, forse è meglio se rimani a dormire, perché a parlare faccio casino con le frasi e di sicuro non riuscirei a farmi capire. Che quando apro bocca sento questo rumore che rimbomba nella testa, come se il cuore facesse di tutto per confondermi ancora di più. E allora dormi Nina che non ti perdi granché, però mentre scrivevo mi tremavano le mani, capirai, ho già una calligrafia di merda, immagina che scarabocchi ho fatto su questo foglio, ma la penna non si fermava, come se le parole avessero una loro volontà e non riuscissero più a trattenere l’urgenza di uscire. Dormi Nina, che se dormi trovo il coraggio di lasciarmi andare, come quando mi tuffo di testa nel mare agitato, senza pensare alle conseguenze, che quelli come me non sono pratici a parlare con qualcuno senza sentirsi un coglione. Se dormi non cambia niente e questo è un pensiero tremendo e rassicurante, lo so che sembra assurdo, ma se stai dormendo ti sento qui vicino e allora tutti questi pensieri strampalati prendono forma e sorrido. E scrivo.  

Dormi Nina e lasciami inciampare in questa cosa strana che sento nello stomaco, che non la so spiegare, mi logora e mi salva e un po’ lo capisco Troisi quando diceva “voglio solo soffrire bene”, dormi e lasciami sognare, che quest’anima incasinata non riesco a capirla, ma se mi siedo davanti a un foglio bianco sento qualcosa di leggero, come un nodo che si scioglie. 

Dormi, che le notti come queste sono infinite e proprio non ce la faccio a gestirla tutta questa agitazione, Nina non lo sai, ma c’è una band heavy metal nella mia testa, comunque è sempre meglio del reggaeton, lo so, però c’è questo tizio con la chitarra elettrica che proprio non la smette di rompermi i coglioni. Che palle, ma come fanno quelli che se ne fregano? Quelli che sentono qualcosa di strano, non dico un sentimento forte, solo un accenno di affetto, vanno lì e vuotano il sacco, così, senza pensarci, come se prendessero una tachipirina. 

Io invece sto qui fuori come uno stronzo, alle tre di notte, seduto sul cofano della macchina a girarmi questo foglio pieno di cazzate fra le mani. Oltretutto l’auto non so di chi sia e già me lo immagino domani il proprietario che vede l’impronta del mio culo sulla carrozzeria, sai quante maledizioni. 

Non lo so Nina, non lo so davvero come si fa a non complicarsi la vita, non lo so quanto deve indurirsi un cuore per lasciarci in pace. Ogni tanto penso che basterebbe mandare a fanculo la paura, l’imbarazzo, la vergogna e tutta quella compagnia di nobili stronzate, forse è così che si diventa uomini, sì, credo che sia così. Basterebbe diventare un po’ più impermeabili alle emozioni, un po’ più cinici, più sfrontati con quella spruzzata di figlio di puttana che non guasta mai. 

Penso che non finirò mai di farci i conti con questa vigliaccheria che mi strozza le parole in gola, ma credo che ci voglia anche un gran coraggio per rimanere nella penombra.

Dormi Nina, io ora torno a casa che qui c’è un’umidità che mi mangia vivo. Ho scritto una cosa per te ma non è niente di importante, magari te la lascio domani, comunque non ti perdi granché.”

IL PASSO IN PIÙ

«Quando è stata l’ultima volta che sei andato a morire?»

«In che senso a morire?»

«A morire, hai presente quelli che stanno sulle ringhiere dei ponti, che guardano giù e un po’ lo invidiano tutto quel gorgoglio di acqua e sassi. Quelli che se ne stanno lì, come stronzi, nel bel mezzo di un ponte, a pensare che basta un passo, uno soltanto e sarebbe tutto finito. Voglio dire, li hai mai visti quelli che sono andati a morire? Lo sai che pensieri fanno? No che non lo sai, non lo sa nessuno. Quelli nelle stazioni, sul bordo del marciapiede, un metro, un cazzo di metro e giù il sipario. Sbam! Andati per sempre, rien ne va plus. È questione di scelte e di distanze. È sempre questione di distanze, quanti passi fare per arrivare alla fine del mondo, quanti farne per tornare a casa, quanto permettere a qualcuno di avvicinarsi senza rimetterci il cuore. Le distanze di sicurezza, che finché non le oltrepassi sei salvo, non dico vivo, ma solo salvo. 

Come gli viene a quelli lì di fare un passo in più? Voglio dire, lo decidono sul momento oppure c’è un piano studiato nei minimi dettagli, una cosa tipo “faccio una doccia, metto l’abito blu che cade bene, sistemo i capelli, lavo i denti, due spruzzate di profumo, salgo sul davanzale della finestra, stando attento a non rovinare le scarpe e volo giù”. Perché bisogna avere un certo stile anche per farla finita. 

Oppure no, magari ti svegli la mattina già con il cazzo girato e chi se ne frega di fare bella figura, cammini lungo via dei molini, fai un cenno con la testa a Giovanna, intenta a cambiare l’acqua ai tulipani, prendi la discesa fino alla croce del saraceno, senti i polpacci che iniziano a bruciare, rallenti e accendi una sigaretta, c’è il mercato, gente che ti sfiora, donne intorno ai banchi di frutta e di vestiti a basso costo, uomini che discutono di politica, di pallone e di certi culi che fanno bestemmiare. Dai una schicchera al mozzicone che vola giù, segui il percorso dell’acqua scorrere davanti a te, che non si vede la fine. “Ma vaffanculo va”. E salti.

Poi c’è sempre qualcosa, un rumore, un suono, il tocco di qualcuno, una cazzata qualsiasi che ti fa prendere di nuovo contatto con la realtà, sei di nuovo lì, in una sala d’attesa, alla fermata dell’autobus, nel tuo ufficio di merda o dio solo sa dove, saranno passati giusto un paio di minuti, qualcuno si sarà preso un caffè, altri avranno, che ne so, preso un taxi, altri ancora non avranno fatto un cazzo di niente, tu sei andato a morire. Niente di clamoroso insomma.

Hai capito cosa intendo? No, non credo, ma non importa».

«Sì, ho capito».

«Quindi? Quando è stata l’ultima volta che sei andato a morire?»

«Non saprei, mi dai una sigaretta?»

IL VENTOFOLLE

Ci sarebbe da chiedersi dove vanno a finire certe cose e certe persone. Quelli che partono per andare, che ne so, in Australia, o in Irlanda, o in qualsiasi altra parte del mondo, che poi non tornano più, neanche per le feste comandate. Ecco, quelle persone lì, che fine fanno? L’avranno trovato ciò che stavano cercando? Magari si sono accontentate, non ci sarebbe niente di male nell’accontentarsi, nell’ammettere di aver chiesto troppo e accettare un premio minore. Ecco, mi piacerebbe che qualcuno di loro tornasse a dirmi com’è andata, roba di cinque minuti eh, giusto per sapere la fine della storia, tutto qui.

E i palloncini? Che fine fanno i palloncini che sfuggono dalle mani e salgono su? Me lo sono sempre chiesto, li guardo salire, sospinti da un vento strano, il “ventofolle”, che qui sulla terra manda le onde cattive e tira giù santi e tempeste, ma forse lassù, dove si fermano i palloncini sfuggiti alla presa, è più comprensivo. Li guardo allontanarsi, lasciandosi dietro le strade e le case e il mare, lo fanno senza esplodere e non è cosa da poco.

Ecco, magari quelli che sono andati in Australia, o in Irlanda o in qualsiasi altro dannato posto lontano da qui sono un po’ come quei palloncini, che non abbiamo saputo trattenere. Hanno lasciato tutto e si sono affidati al “ventofolle” delle decisioni improvvise, senza esplodere. E a noi non resta che rimare qui come stronzi a chiederci che fine avranno fatto. Pensandoci però va bene così, perché tutto ciò che non vediamo finire non muore mai.

Tra il mento e la spalla.

Anche stanotte ho fatto l’amore sul tetto.
Ho aspettato che spegnessero le luci della città, che scendesse la quiete nelle case, nella vita frenetica delle persone. C’è un momento preciso in cui tutto si placa, quello in cui il groviglio dei pensieri si dissolve, è un attimo sospeso fra l’eco di oggi e l’illusione di domani. In quell’istante preciso salgo sul tetto, lancio il cuore in quella finestra socchiusa, prendo il violino e divento l’amante sfacciato, l’impostore arrogante. Non è solo musica, è istinto primitivo, è il connubio perfetto fra melodie, amplessi e sudore. Lo facciamo così. Ogni notte. L’amore.

Di giorno c’è troppa gente in giro, auto, tram, passanti, cazzi e mazzi e mica puoi startene a fare l’amore sulla cima di un tetto, ma di notte tutto diventa possibile. La sua finestra è lì, a portata di mano, basterebbe scavalcare un paio di balconi, roba da niente. Ma quelle sono scene da film, riservate ai coraggiosi. Quelli come me hanno l’animo pavido. Quelli come me preferiscono farsi male a distanza, preferiscono farlo a occhi chiusi, abbracciando un violino. E’ l’unico stratagemma che abbiamo per farlo senza rimpianti, l’amore.

C’è stato il tempo dei teatri pieni, con quegli occhi addosso e io su quel maledetto palco con un faro puntato dritto in faccia, che neanche riuscivo a distinguerle tutte quelle persone che stavano lì in attesa della prima nota. Facevo l’inchino, a occhi chiusi, l’archetto nella mano destra e incastravo tutta la mia vita tra il mento e la spalla. E suonavo. Scorrevano le dita sulle corde, quasi a volerle soffocare, scorreva l’archetto lungo quel manico di legno infinito, scorrevano tutti i miei rimpianti mescolati con la musica.

Ma la vita reale è altra cosa, voglio dire, non puoi avere la presunzione di capire il mondo standotene impalato nel bel mezzo di un palco con un faro puntato in faccia. Sono sparito, all’improvviso, senza dare spiegazioni. Ho smesso di suonare per i signori annoiati, per le donne appariscenti, per gli aristocratici e i morti di fame che si imboscavano ai concerti. Ho smesso di suonare per dovere e ho iniziato per farlo per gli amanti sotto i portici, per le puttane di strada, per i ragazzini impertinenti. Ho iniziato a suonare per le madri che lottano, per quelli che la vita se la sputano nelle mani, per la disperazione di certe giornate, che proprio non sai più come fare. Sono sceso da un palco e ho iniziato a vivere davvero.

Sono uno di quelli che di giorno suonano nelle piazze sconosciute, senza preavviso, mi piazzo in un angolo, e gioco a fare dio con la vita degli altri. Immagino momenti che non vivranno mai, dispiaceri e passioni che non sanno di avere. Li guardo passare, tutti quanti e improvviso la melodia della loro esistenza.

Ma è di notte che si vive davvero e allora lascio scorrere questo alveare di pensieri che mi prude in gola, salgo quassù, aspetto che la luce della sua finestra vada a morire e incastrando la vita fra il mento e la spalla iniziamo a farlo davvero. Ogni notte. L’amore.

I sognatori non hanno un cazzo da fare.

«E se loro si mangiano il mare?»
«Noi ci mangiamo il porto con tutte le barche. E se ci fanno girare i coglioni, ci mangiamo anche i pescatori».

«E se loro si mangiano i ponti?»
«Noi ci mangiamo i fiumi e le cascate».

«E se loro si mangiano i campi di pallone?»
«Noi zitti zitti ci mangiamo il codino di Roberto Baggio».

«E se loro si mangiano la musica?»
«Noi ci mangiamo gli spartiti e i rullanti. E siccome siamo figli di puttana, ci mangiamo pure il pianoforte di Ludovico Einaudi».

«E se loro si mangiano i tramonti?»
«Noi ci mangiamo le strade e i pensieri belli».

«E se loro si mangiano le risate?»
«Noi ci mangiamo le giornate piovose».

«E se loro si mangiano le piazze?»
«Noi ci mangiamo le bandiere, i cortei e tutte le rivoluzioni».

«E se loro si mangiano i teatri?»
«Noi ci mangiamo i baci delle ultime file».

«E se loro si mangiano i muri?».
«Noi ci mangiamo le frasi d’amore lasciate ad asciugare».

«E se loro si mangiano le parole?»
«Noi ci mangiamo i libri, tutti quanti».

«E se loro si mangiano le poesie?»
«Noi ci mangiamo Silvia, Rossana, Beatrice, Giulietta e visto che ci siamo, ci mangiamo anche Alda Merini».

«E se loro si mangiano i quadri?»
«Noi ci mangiamo la sposa nel vento e tutte le madonne con il bambino, ci mangiamo Frida e tutti gli amanti. E se ci fanno incazzare, ci mangiamo pure Amanda Lear».

«E se loro si mangiano le feste di paese?»
«Noi ci mangiamo tutta la banda e lo zucchero filato».

«E se loro si mangiano le domeniche mattina?»
«Noi ci mangiamo i panni stesi e una donna in cucina che canta De André».

«E se loro si mangiano la storia?»
«Noi ci mangiamo i lager, Norimberga, Marzabotto, Evita Peron E giusto per rompere il cazzo, ci mangiamo pure la motocicletta di Che Guevara».

«E se loro si mangiano l’Africa?»
«Noi ci mangiamo le mani tese e i capitani sovversivi. E per farli incazzare davvero, ci mangiamo anche il cuore immenso di Gino Strada».

«E se loro si mangiano i sogni?»
«Noi ci mangiamo le stelle e tutti i cassetti, i vetri appannati e le giornate di Aprile. E se continuano a rompere le palle ci mangiamo Firenze vista dal Piazzale».

«E se loro si mangiano le storie d’amore?»
«Noi ci mangiamo tutte le panchine, i vetri appannati e Cesare perduto nella pioggia. E siccome siamo molto cattivi, ci mangiamo pure l’addio di Casablanca nel tramonto».

«E se loro si mangiano il futuro?»
«Noi ci mangiamo quelli controcorrente, gli idealisti e tutti quelli che non si rassegnano. E anche se non servono a niente, ci mangiamo pure i sognatori, che tanto quelli non hanno un cazzo da fare».

«Va bene, ho capito, ma il tempo sprecato si conta o non vale?»
«Ma che cazzo di domande fai? Finisci di mangiare e poi mettiti a dormire. Fuori la situazione non è buona».

STORIE DI PIRATI D’ACQUA DOLCE.

Ho un debole per le persone, per le loro storie, sono un fanatico delle esistenze altrui. Penso che nessuna vita sia insignificante, spesso siamo noi a sminuirla a non coglierne le sfumature, i dettagli che ci rendono unici e interessanti,

Ci sono cresciuto con questa predisposizione alla gente. Appena mi decisi a nascere, miei genitori presero in gestione un bar, il famoso Dopolavoro Ferroviario, una sorta di circo stabile che si affacciava sui binari della stazione centrale. Un palcoscenico sul quale si alternavano prestigiatori di carte, funamboli del calcio balilla, nani ubriachi e ballerine in pensione, studenti senza libri, sognatori, fancazzisti, politicanti senza patria, rivoluzionari con le pistole ad acqua.

C’era Paolino l’ubriaco, che dopo il terzo bicchiere di bianco fermo iniziava a parlare della moglie che aveva lasciato a casa con il guardiano dei campi da tennis. Paolino lo raccontava ridendo, parlava di quell’uomo unto e grasso che si faceva la sua donna, lui lo sapeva e andava bene così. Lo diceva ridendo, con quella voce impastata e disperata.

Il mercoledì pomeriggio arrivava Vicius il tassista, alto due metri, con i capelli lunghi i tatuaggi e tutto quello che fa girare la testa alle donne, almeno così diceva lui. Si sedeva in attesa del suo compagno, un certo Mollino, passavano la serata a far volare le palline nel calcio balilla, fra birre, bestemmie e sudore. Si vociferava che il Vicius non avesse una casa, se gli diceva bene rimediava una scopata e una notte da passare in un letto sconosciuto. Così parlavano di lui, con una punta di invidia. Lui li lasciava parlare e nel frattempo pensava al figlio che la vita gli aveva strappato. Da quel giorno aveva smesso di illudersi e se la fotteva, la vita. Perché quella sì che è una gran puttana.

Il Muto era uno dei miei preferiti, lo chiamavano così perché non diceva mai un cazzo di niente. Prendeva un mazzo di carte e si metteva al tavolo. Niente, neanche una parola, ma se ti azzardavi a giocare il settebello di prima mano ti fulminava con lo sguardo e riuscivi a contare tutti i santi del paradiso che stava tirando giù. L’unica volta che lo sentirono parlare fu il 6 giugno 1978, durante la partita dei mondiali Italia-Ungheria. Erano tutti seduti a disquisire chi fosse il miglior giocatore e fra un “vaffanculo” e “c’hai la mamma maiala” il Muto si alzò in piedi e disse perentorio: «Giancarlo Giannini!», poi tornò a sedersi in silenzio, come aveva fatto per tutti quegli anni.
Tutti pensarono che fosse impazzito e forse lo era davvero, ma lui Giannini l’aveva visto veramente, in quel preciso momento intendo. Nessuno lo sapeva, ma in quei giorni c’era un certo Mario Monicelli, che nessuno conosceva, che stava girando un film e, incredibile ma vero, in quel preciso momento stava fuori dal Dopolavoro e parlava con Mastroianni, quello vero eh. Nessuno ci fece caso ma l’anno successivo uscì “Viaggio con Anita” e per un attimo, alle spalle di Giancarlo Giannini e Goldie Hawn, si intravedeva la “D” verde dell’insegna del Dopolavoro Ferroviario. Era una scena di poco conto, di quelle che non aggiungono niente di particolare alla storia del film, ma a noi bastava così. Non ci importava di essere i protagonisti, ci bastava far sapere che c’eravamo, che esistevamo anche noi.

Le persone da queste parti sono rimaste più o meno così, si ritrovano ancora per risolvere i problemi del mondo fra un bicchiere di vino e una briscola parlata. Ce la cantiamo e ce la suoniamo fra di noi, le nostre rivoluzioni durano un giro di carte, siamo pirati d’acqua dolce che fanno battaglie su misura. Ma ce l’abbiamo tutti una storia da portarci dietro, che se l’avesse saputo Monicelli sai che capolavori ci costruiva sopra. Ma non importa, che quella vita lì, fatta di luci e casino non fa per noi. E chi se ne frega se ora al posto del Dopolavoro c’è un sushi bar, a noi interessa solo sapere che siamo qui, che esistiamo anche noi.

I BAMBINI VINCONO SEMPRE

Alcuni giorni fa mi sono ritrovato a parlare con un amico, padre di un bambino di quattro anni, sui vantaggi e le controindicazioni di far vincere i bambini quando giocano con gli adulti.

Ho realizzato che questo è un tema spinoso e può portare a conseguenze disastrose. Se lasci vincere deliberatamente un bambino rischi di farlo diventare un egocentrico, uno di quegli adulti boriosi, con manie di onnipotenza, convinti di essere sempre dalla parte del giusto, che spesso risultano insopportabili e grotteschi. Il padre di Salvini pare che lasciasse sempre vincere il piccolo Matteo a rubamazzo, per dire.

Dall’altra parte c’è il gruppo dei genitori incorruttibili, quelli che competono con i propri figli come Nadal alla finale di Wimbledon. Sposano la teoria che i bambini devono capire fin da subito come gira la giostra della vita, che nessuno ti lascerà primeggiare e che dovranno imparare subito a guadagnarsi il successo. Magari poi i figli diventeranno degli insicuri frustrati e voteranno a sinistra, ma questa è un’altra storia.

La verità è che ai bambini non gliene frega niente di vincere o perdere, a loro interessa solo partecipare. E poi, diciamocelo, i bambini vincono sempre.

I bambini vincono sempre perché sono degli inguaribili ottimisti, non importa se mezzo pieno o mezzo vuoto, l’importante è che ci sia un bicchiere.
I bambini vincono sempre perché si alleano fra di loro, si inventano le regole, se la cantano e se la suonano. vincono sempre perché sanno stare insieme.
I bambini vincono sempre perché…”il pallone è mio, ma se giochiamo in due è più divertente”
I bambini vincono sempre perché vedono i colori ma sono daltonici nei pregiudizi, perché fanno le squadre a seconda del colore della maglia e non della pelle.
I bambini vincono sempre perché anche se una battuta fa cagare loro ridono, non la capiscono ma ridono, perché hanno voglia di partecipare.
I bambini vincono sempre perché hanno ancora il senso della giustizia, perché se qualcuno fa un torto a un mio amico lo fa anche a me. Vincono sempre perché sono felici se qualcuno è felice e se provi a spiegare loro il concetta di ipocrisia ti guardano come Toninelli guarda una divisione a due cifre.

I bambini vincono sempre perché le regole del loro mondo le scelgono insieme, non hanno bisogno di scegliere qualcuno che decida per loro.
I bambini vincono sempre perché gli sbagli che fanno li rendono migliori.

I bambini vincono sempre perché si sforzano di ricordare, tutto, le gioie e i dolori. Perché è difficilissimo evitare di commettere gli stessi errori, ma se conserviamo un po’ di memoria, forse, ci salveremo. Eventualmente chiediamo ai bambini, che loro, in qualche modo, vincono sempre.

La differenziata salverà il mondo.

Dove vivo io non ci sono quartieri, quelli li lasciamo alle grandi città, qui siamo in provincia e ci sono i rioni. Raggruppamenti di case, di persone e di storie, simili a tante altre ma allo stesso uniche. Noi ci proviamo a mantenere un certo distacco e una nostra privacy, ma si finisce inevitabilmente di conoscere i cazzi di tutti gli abitanti del rione e loro i nostri, ovviamente.

Siamo persone semplici, ogni tanto proviamo ad atteggiarci a manager impegnati, ma il risultato non è credibile. E siamo abitudinari, i rituali ci rassicurano, le novità ci spaventano e sul momento non le accettiamo, protestiamo, ma alla fine, lo sappiamo già, ci adegueremo, magari sbuffando, ma lo faremo.

Ecco, nel mio rione una settimana fa è iniziata la raccolta differenziata. “Embè?” direte voi, giustamente. Ormai la fanno tutti la differenziata, è sinonimo di civiltà e di rispetto per l’ambiente. Parole sacrosante, ma per noi del rione è comunque una novità. Noi eravamo abituati a separare la carta dalla plastica e già così ci sentivamo un gradino sopra a Greta Thunberg. Lungo le strade c’erano tre cassonetti, il giallo per la carta, il blu per la plastica e lui, il grigio, il grande vecchio, il “vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole”: l’indifferenziata!
L’indifferenziata è il “cazzonesò” dell’immondizia. Come quando ti chiedi dove vada buttato il cartone del latte, ci pensi un po’ e alla fine opti per un “cazzonesò, indifferenziata. Alé!” Il cassonetto grigio è rassicurante, ci consola, come quando rovesciavo il caffelatte nel letto e mia madre mi diceva “non preoccuparti, ci penso io”. Che mi veniva voglia di abbracciarla stretta. Ecco, il cassonetto dell’indifferenziata è così, ti alleggerisce dai tormenti, si fa carico lui del tuo tetra pack, del tuo sughero, dei pannolini dei tuoi figli. Il cuore grande del cassonetto grigio non ti lascerà mai solo.

Ma c’è un pianeta da salvare, ognuno deve fare la propria parte e allora tutti noi abitanti del rione ci siamo ritrovati in fila per la distribuzione dei nuovi bidoncini, da tenere in casa, o sul terrazzo, o in garage, o in qualunque altro posto ma non in strada. O meglio, in strada sì, ma nei giorni stabiliti. È finito il tempo di buttare l’immondizia alla cazzo di cane. Ora è tutto, preciso, definito e regolamentato.

Mentre ero lì in fila per ritirare i bidoncini ascoltavo i dubbi e le incertezze degli altri rionali. C’era chi si domandava come smaltire il cartone di pizza impregnato di mozzarella, chi chiedeva dell’alluminio, chi delle lattine. Ci confrontavamo tra di noi cercando di darci coraggio, mentre gli addetti alla distribuzione si limitavano a rispondere che era tutto scritto nel volantino illustrativo, ostentando un freddo distacco.
Lì ho pensato che i bidoncini non fossero sufficienti a contenere tutto quello che le persone hanno bisogno di smaltire. Servirebbe un contenitore per le delusioni, uno per le giornate storte, uno enorme per la rabbia, da svuotare almeno tre volte al giorno. Servirebbe un contenitore per gli sbagli che non riusciamo a perdonarci, per le frasi taglienti scagliate per ferire, ci vorrebbe un bel bidoncino per i rospi ingoiati, per i nodi alla gola, per certi rimorsi che non ci lasciano in pace. Servirebbe un compromesso: togliete il cassonetto dell’indifferenziata ma dateci quello dell’indifferenza, che se riuscissimo a gettarne via un po’ avremmo qualche chance in più di salvare il pianeta.

Forse sono bigotto.

Ma guarda, questo non è assolutamente vero, no, non tutti quelli della mia generazione sono bigotti, ma figuriamoci, siamo moderni, siamo smart, ok, magari ci mettiamo mezz’ora a rispondere a un messaggio whatsapp ma solo perché siamo scrupolosi, misuriamo le parole, detestiamo i refusi e quindi, scriviamo, cancelliamo, correggiamo e alla fine inviamo il messaggio…con frasi tipo “apri la porca” anziché la “porta”, ma quello è colpa della presbiopia.

Come? Ma certo che sono moderno, anche come mentalità, sì, nonostante abbia sempre votato a sinistra, sì.

Ma come cosa penso dell’identità sessuale?, ma che domanda è? Sarebbe come chiedere cosa penso degli hipster o dei tatuati. Certo che so chi sono gli hipster!

Cosa farei se mio figlio fosse gay? Ma che ne so, gli direi di non fare tardi, di stare attento agli sbalzi di temperatura, di guidare piano, di non bere. Mi preoccuperei per lui, semplicemente, come ogni genitore dovrebbe fare. Sarei felice quando lui è felice e incazzato quando qualcuno lo fa stare male.

Come reagirei se si fidanzasse con un uomo? Come dovrei reagire, gli parlerei, proverei a spiegargli che un rapporto di coppia è un patto, sì, un patto fra due esseri umani, che si impegnano a non capirci niente.  Le relazioni di coppia sono il Blu Tornado di Gardaland, con le discese, le impennate, le curve messe a cazzo. Ti sentirai con lo stomaco sottosopra e l’adrenalina in circolo che ti farà urlare, di rabbia, gioia e paura. Alcune durano giusto il tempo di un giro di giostra, altre non la smettono più di sballottarti qua e là. Ma in ogni relazione di coppia ci sono alcuni momenti in cui ti sentirai veramente al sicuro, nonostante tutto. La durata di questi momenti dipende da te, almeno per il cinquanta percento.

Il sesso sarebbe un problema? In che senso? Certo che sarebbe un problema, che discorsi, se lui non lo facesse mai sarebbe un problema sì. Cosa ne penso? Penso che sarebbero affari suoi.

Perché dovrei preoccuparmi? Il sesso è il sesso e basta, siamo noi a dargli una specifica connotazione. E ogni volta è diversa. Il sesso è come il cibo, puoi farti un’abbuffata o brevi spuntini. Puoi fare la dieta tisanoreica o quella a zone, nel senso che mangi in sala, cucina, bagno, camera, balcone. Il sesso lo usi per festeggiare, per noia, per disperazione. Può diventare un piacere o un problema, una cosa è certa: il corpo umano non è progettato per farne a meno.

No aspetta, questa me la spieghi bene eh, perché dovrei sentirmi in colpa? Per aver fallito come genitore? Ma sei impazzito! Mi sentirei in colpa se fosse un delinquente, un maleducato…un interista, ma non certo se fosse gay. Ma che c’entra la sensibilità? È un luogo comune stucchevole, non tutti i gay sono sensibili, o creativi o empatici, conosco omosessuali che sono delle grandissime teste di cazzo. C’è questa cosa che se uno è gay devi per forza trovargli delle qualità, come quando muore qualcuno e tutti a dire “era una brava persona”, ma chi l’ha detto? Magari è stato uno stronzo intergalattico, o magari no.

Perché dovrei essere imbarazzato? Fammi capire, non sarebbero certo i gusti sessuali di mio figlio a imbarazzarmi. mi imbarazza l’ignoranza, la battuta sessista, le risatine del cazzo fra amici quando vedono qualcuno diverso da loro.  Mi imbarazza chi dice “donna con le palle” o peggio “ha il ciclo”, mi imbarazza chi dice ancora “frocio di merda”, ma non per me che ascolto eh, no, io mi imbarazzo per chi lo dice. Mi imbarazza chi usa la parola “omosessuale” come se fosse un’offesa. Mi imbarazzano questi atteggiamenti qui, ma mi imbarazza ancora di più chi li giustifica.

Come penso che sia sessualmente il nostro paese? Penso che sia autoerotico. Ci facciamo un milione di pippe mentali per risolvere problemi che abbiamo creato noi. Facciamo leggi contro le discriminazioni sessuali quando basterebbe dire “amate chi cazzo vi pare, nessuno vi giudica”.  Ostentiamo il sesso e tutte le nostre preferenze sessuali solo per esorcizzarle. Sono stato per un po’ di tempo in Danimarca, trent’anni fa eh, non l’altro ieri, ecco, già allora se andavi a dire a qualcuno di Copenaghen “sai, io sono gay” quello ti guardava come se venisse qualcuno da noi a dirci che è mancino. Il nostro paese sessualmente è come “il cane di Betto”: mentre tutti gli altri scopavano lui si leccava il…ok, ci siamo capiti.

Il lavoro? Che c’entra il lavoro? No, non credo che sarebbe penalizzato no, perché dovrebbe esserlo? Certo che mi incazzerei se accadesse, come si incazzerebbe chiunque. Ma mi incazzerei anche se fosse privilegiato. Una persona non deve avere dei vantaggi perché è gay, o donna, o disabile, o bianco o nero, blu eccetera. Una persona deve avere privilegi perché dimostra di meritarseli. Altrimenti è comunque una discriminazione. Cosa ridi? Sì sono un illuso, voglio credere che avere le capacità serva ancora a qualcosa, lo voglio credere. E vorrei che lo credesse anche mio figlio.

Ecco, non lo so se sono bigotto, forse un po’ sì, c’è qualcosa che non riesco a superare, ci provo, ma proprio non ci riesco. Non sopporto i finti buonisti, chi sfrutta le debolezze degli altri per farsi valere, chi sbeffeggia qualcuno solo perché ha gusti diversi dai suoi. Ecco, per me queste sono persone di merda, indipendentemente da ciò che hanno fra le gambe.

Felicità a piccole dosi.

Oggi vorrei parlare della felicità, quella vera intendo. Avete presente quando provate quella gioia immensa che vi sembra che pure Di Battista faccia discorsi sensati? Ecco quella.

Per esempio, stamattina ero veramente felice, no, non sereno, ma felice, poi sono uscito di casa, ho preso la macchina, così, felice. Fatti trenta metri un tipo in bicicletta ha tirato dritto alla rotonda e per poco non lo sdraio.

Non so se ci avete mai fatto caso, ma i ciclisti hanno questa convinzione innata che la strada sia loro, quando cavalcano quel sellino il codice stradale cessa di esistere. Le rotonde sono solo delle inutili variazioni alla loro traiettoria spazio-temporale. I colori dei semafori? Un suggerimento! Se è verde vai sereno, se è giallo continua a pedalare, qualcuno si fermerà. Se è rosso, non è un problema tuo, tira dritto e alza il dito medio. Si ritrovano in gruppi, si danno appuntamento come i piccioni di Piazza San Marco. E poi partono, tutti insieme, occupando entrambe le carreggiate. E parlano fra di loro, si godono la giornata e ogni tanto…pedalano. Sono degli esemplari pacifici, ma non azzardarti a infastidirli. Cioè, magari dopo cinquanta chilometri che stai in auto dietro di loro, ti sei un po’ rotto i coglioni e vorresti provare a superarli per tornare alla tua vita normale, non che tu abbia chissà che di urgente da fare, ma se avessi voluto farti un’ora di strada a dieci chilometri orari avresti preso la Fi-Pi.Li. E allora azzardi un timido colpetto di clacson, quasi impercettibile, giusto per chiedere cortesemente ai centauri del pedale di farti passare. Pazzo! Un gesto scellerato! Quelli si allargano, come le acque del Mar Rosso, ma tu non sei Mosé e neanche Moser. Ti lasciano insinuare nelle viscere del “gruppone” ma esattamente a metà percorso la marea di manubri e sellini si richiude intorno a te e ti ritrovi immerso in un mare impetuoso di vaffanculo, sputi e manate sul tettino. Che ti verrebbe voglia di comprare una falciatrice con apertura alare e passarci sopra un paio di volte giusto per….ma parlavo della felicità, no?, questo desiderio viscerale di rendere feliciti tutte le persone. Anche quelle che proprio non sopporti. Quando sei veramente felice ti verrebbe voglia di abbracciarle, forte.

Mi capita la stessa cosa con i pedoni che attraversano all’improvviso. Vorrei buttare loro le braccia al collo e abbracciarli forte…molto forte…troppo forte.

I pedoni…quasi peggiori dei ciclisti. I pedoni sono quegli animaletti curiosi, tipo i suricati dell’Africa meridionale che stanno in piedi su due zampe, guardano freneticamente a destra e sinistra e poi improvvisamente scattano. Ecco, i suricati urbani scattano improvvisamente a mezzo metro dal tuo cofano, così, senza un motivo apparente e tu sei costretto a piantare una frenata che ti fa battere una craniata nel vetro anteriore. Stai lì impietrito pensando “va bhe, porelli, magari hanno fretta” e invece no! I pedoni fanno questo scatto felino alla partenza ma a metà della strada rallentano, perché per loro sono arrivati! Cioè, hanno raggiunto il loro scopo, prendere possesso della carreggiata. E ora si godono il tragitto fino all’altra sponda fischiettando Maledetta primavera di Loretta Goggi. I pedoni, a differenza dei ciclisti, odiano tutti! indistintamente. Il loro più grande desiderio è quello di possedere un fucile a pompa e sparare, così, a cazzo di cane su chiunque si palesa davanti. Sugli automobilisti indisciplinati, sui ciclisti in gruppo, su quelli con gli scooteroni. Si sentono i protagonisti di “La notte del giudizio”, anche di giorno.

La felicità, dicevo, la felicità e quel sentimento che si contrappone alla tristezza, al dispiacere…alla rabbia.
Ecco, la rabbia. Per esempio, sei felice e decidi di chiamare tua madre, così, per sentire come sta e magari trasmetterle un po’ del tuo stato vitale celestiale. Squilla il telefono, lei risponde, ma tu sei in una zona con poco segnale, oppure hai Iliad. Comunque, inizi a parlare e lei non sente e inizia con “Pronto?” – “Si mamma, mi senti?” – “no, non sento” – “come non senti?, se mi rispondi senti!” – “Come?, non sento. Pronto, pronto!”. E alla fine ti incazzi, tu! Cioè, non hai segnale, lei non sente, ma la colpa è sua! Peggio di questo c’è solo la situazione in cui tu chiami qualcuno, il telefono squilla ma quello rifiuta la chiamata. E tre secondi dopo ti arriva quel messaggio preconfezionato “Posso chiamarti più tardi?”. Sì, puoi chiamarmi ma sappi che mi hai già fatto girare i coglioni.
La felicità….ah si…la felicità come opposto del dolore. Tipo che sei felice, volteggi lungo il corridoio di casa e sbatti il mignolo del piede sulla cassapanca di nonna. E per un attimo ti sembra di vederla nuovamente, tua nonna e vedi anche tutti i santi del Paradiso e provi un dolore così forte che se avessi una pasticca di cianuro la prenderesti per porre fine a quella sofferenza.

Quando sei felice sopporti tutto e tutti, gli altri giorni invece ti incazzi con il cane del vicino che abbaia, con quelli del gruppo whatsapp del calcetto che mandano i buongiornissimi alle sei di mattina. Ti incazzi con quelli che non si incazzano mai, avete presente? Quelli serafici, che sorridono amabilmente. Dei potenziali assassini seriali, probabilmente anche loro ogni tanto vedono la nonna, magari la conservano a pezzi dentro al freezer. O peggio ancora ti incazzi con quelli che ti dicono “stai calmo”. Se vedi che mi sale la rabbia lo “stai calmo” è il detonatore. No, porca puttana, io non sto calmo, io voglio esercitare il sacrosanto diritto di mandare tutti a fanculo e incazzarmi come una pantera. Basta, distruggiamo le lobby degli “staicalmisti” e facciamo trionfare lo “staicalmouncazzismo” – Dai, stai calmo. – Stai calmo un cazzo!-

La verità è che la felicità è uno stato d’animo fragile, basta un niente per mandarlo in frantumi, essere felici oggi è impopolare, una roba da sfigati. Il vero uomo è forte, determinato e incazzato nero. E anche le donne devo essere così per farsi rispettare. Le vogliamo decise, intraprendenti, ambiziose, spesso sono costrette ad arrabbiarsi il doppio di noi uomini per essere credibili. Come se la predisposizione a incazzarsi fosse l’unità di misura del rispetto. Roba da mettere sul curriculum “Conoscenza del pacchetto Office e ottima padronanza dell’incazzatura immediata”.
Penso che esista un sistema di vasi comunicanti dentro di noi, un principio fisico secondo il quale se cala la felicità aumenta la rabbia e viceversa. La sensazione è che la felicità sia considerata una debolezza, qualcosa da denigrare, da sminuire, come se ci fosse una sorta di paura latente nei confronti di chi è felice. E allora mi viene da pensare che il rispetto non si guadagna sbraitando il proprio disappunto, ma combattendo per una felicità comune. Sarò un idealista, forse l’ultimo degli idealisti, ma continuo a credere che i veri sovversivi siano le persone felici.