I sognatori non hanno un cazzo da fare.

«E se loro si mangiano il mare?»
«Noi ci mangiamo il porto con tutte le barche. E se ci fanno girare i coglioni, ci mangiamo anche i pescatori».

«E se loro si mangiano i ponti?»
«Noi ci mangiamo i fiumi e le cascate».

«E se loro si mangiano i campi di pallone?»
«Noi zitti zitti ci mangiamo il codino di Roberto Baggio».

«E se loro si mangiano la musica?»
«Noi ci mangiamo gli spartiti e i rullanti. E siccome siamo figli di puttana, ci mangiamo pure il pianoforte di Ludovico Einaudi».

«E se loro si mangiano i tramonti?»
«Noi ci mangiamo le strade e i pensieri belli».

«E se loro si mangiano le risate?»
«Noi ci mangiamo le giornate piovose».

«E se loro si mangiano le piazze?»
«Noi ci mangiamo le bandiere, i cortei e tutte le rivoluzioni».

«E se loro si mangiano i teatri?»
«Noi ci mangiamo i baci delle ultime file».

«E se loro si mangiano i muri?».
«Noi ci mangiamo le frasi d’amore lasciate ad asciugare».

«E se loro si mangiano le parole?»
«Noi ci mangiamo i libri, tutti quanti».

«E se loro si mangiano le poesie?»
«Noi ci mangiamo Silvia, Rossana, Beatrice, Giulietta e visto che ci siamo, ci mangiamo anche Alda Merini».

«E se loro si mangiano i quadri?»
«Noi ci mangiamo la sposa nel vento e tutte le madonne con il bambino, ci mangiamo Frida e tutti gli amanti. E se ci fanno incazzare, ci mangiamo pure Amanda Lear».

«E se loro si mangiano le feste di paese?»
«Noi ci mangiamo tutta la banda e lo zucchero filato».

«E se loro si mangiano le domeniche mattina?»
«Noi ci mangiamo i panni stesi e una donna in cucina che canta De André».

«E se loro si mangiano la storia?»
«Noi ci mangiamo i lager, Norimberga, Marzabotto, Evita Peron E giusto per rompere il cazzo, ci mangiamo pure la motocicletta di Che Guevara».

«E se loro si mangiano l’Africa?»
«Noi ci mangiamo le mani tese e i capitani sovversivi. E per farli incazzare davvero, ci mangiamo anche il cuore immenso di Gino Strada».

«E se loro si mangiano i sogni?»
«Noi ci mangiamo le stelle e tutti i cassetti, i vetri appannati e le giornate di Aprile. E se continuano a rompere le palle ci mangiamo Firenze vista dal Piazzale».

«E se loro si mangiano le storie d’amore?»
«Noi ci mangiamo tutte le panchine, i vetri appannati e Cesare perduto nella pioggia. E siccome siamo molto cattivi, ci mangiamo pure l’addio di Casablanca nel tramonto».

«E se loro si mangiano il futuro?»
«Noi ci mangiamo quelli controcorrente, gli idealisti e tutti quelli che non si rassegnano. E anche se non servono a niente, ci mangiamo pure i sognatori, che tanto quelli non hanno un cazzo da fare».

«Va bene, ho capito, ma il tempo sprecato si conta o non vale?»
«Ma che cazzo di domande fai? Finisci di mangiare e poi mettiti a dormire. Fuori la situazione non è buona».

STORIE DI PIRATI D’ACQUA DOLCE.

Ho un debole per le persone, per le loro storie, sono un fanatico delle esistenze altrui. Penso che nessuna vita sia insignificante, spesso siamo noi a sminuirla a non coglierne le sfumature, i dettagli che ci rendono unici e interessanti,

Ci sono cresciuto con questa predisposizione alla gente. Appena mi decisi a nascere, miei genitori presero in gestione un bar, il famoso Dopolavoro Ferroviario, una sorta di circo stabile che si affacciava sui binari della stazione centrale. Un palcoscenico sul quale si alternavano prestigiatori di carte, funamboli del calcio balilla, nani ubriachi e ballerine in pensione, studenti senza libri, sognatori, fancazzisti, politicanti senza patria, rivoluzionari con le pistole ad acqua.

C’era Paolino l’ubriaco, che dopo il terzo bicchiere di bianco fermo iniziava a parlare della moglie che aveva lasciato a casa con il guardiano dei campi da tennis. Paolino lo raccontava ridendo, parlava di quell’uomo unto e grasso che si faceva la sua donna, lui lo sapeva e andava bene così. Lo diceva ridendo, con quella voce impastata e disperata.

Il mercoledì pomeriggio arrivava Vicius il tassista, alto due metri, con i capelli lunghi i tatuaggi e tutto quello che fa girare la testa alle donne, almeno così diceva lui. Si sedeva in attesa del suo compagno, un certo Mollino, passavano la serata a far volare le palline nel calcio balilla, fra birre, bestemmie e sudore. Si vociferava che il Vicius non avesse una casa, se gli diceva bene rimediava una scopata e una notte da passare in un letto sconosciuto. Così parlavano di lui, con una punta di invidia. Lui li lasciava parlare e nel frattempo pensava al figlio che la vita gli aveva strappato. Da quel giorno aveva smesso di illudersi e se la fotteva, la vita. Perché quella sì che è una gran puttana.

Il Muto era uno dei miei preferiti, lo chiamavano così perché non diceva mai un cazzo di niente. Prendeva un mazzo di carte e si metteva al tavolo. Niente, neanche una parola, ma se ti azzardavi a giocare il settebello di prima mano ti fulminava con lo sguardo e riuscivi a contare tutti i santi del paradiso che stava tirando giù. L’unica volta che lo sentirono parlare fu il 6 giugno 1978, durante la partita dei mondiali Italia-Ungheria. Erano tutti seduti a disquisire chi fosse il miglior giocatore e fra un “vaffanculo” e “c’hai la mamma maiala” il Muto si alzò in piedi e disse perentorio: «Giancarlo Giannini!», poi tornò a sedersi in silenzio, come aveva fatto per tutti quegli anni.
Tutti pensarono che fosse impazzito e forse lo era davvero, ma lui Giannini l’aveva visto veramente, in quel preciso momento intendo. Nessuno lo sapeva, ma in quei giorni c’era un certo Mario Monicelli, che nessuno conosceva, che stava girando un film e, incredibile ma vero, in quel preciso momento stava fuori dal Dopolavoro e parlava con Mastroianni, quello vero eh. Nessuno ci fece caso ma l’anno successivo uscì “Viaggio con Anita” e per un attimo, alle spalle di Giancarlo Giannini e Goldie Hawn, si intravedeva la “D” verde dell’insegna del Dopolavoro Ferroviario. Era una scena di poco conto, di quelle che non aggiungono niente di particolare alla storia del film, ma a noi bastava così. Non ci importava di essere i protagonisti, ci bastava far sapere che c’eravamo, che esistevamo anche noi.

Le persone da queste parti sono rimaste più o meno così, si ritrovano ancora per risolvere i problemi del mondo fra un bicchiere di vino e una briscola parlata. Ce la cantiamo e ce la suoniamo fra di noi, le nostre rivoluzioni durano un giro di carte, siamo pirati d’acqua dolce che fanno battaglie su misura. Ma ce l’abbiamo tutti una storia da portarci dietro, che se l’avesse saputo Monicelli sai che capolavori ci costruiva sopra. Ma non importa, che quella vita lì, fatta di luci e casino non fa per noi. E chi se ne frega se ora al posto del Dopolavoro c’è un sushi bar, a noi interessa solo sapere che siamo qui, che esistiamo anche noi.

I BAMBINI VINCONO SEMPRE

Alcuni giorni fa mi sono ritrovato a parlare con un amico, padre di un bambino di quattro anni, sui vantaggi e le controindicazioni di far vincere i bambini quando giocano con gli adulti.

Ho realizzato che questo è un tema spinoso e può portare a conseguenze disastrose. Se lasci vincere deliberatamente un bambino rischi di farlo diventare un egocentrico, uno di quegli adulti boriosi, con manie di onnipotenza, convinti di essere sempre dalla parte del giusto, che spesso risultano insopportabili e grotteschi. Il padre di Salvini pare che lasciasse sempre vincere il piccolo Matteo a rubamazzo, per dire.

Dall’altra parte c’è il gruppo dei genitori incorruttibili, quelli che competono con i propri figli come Nadal alla finale di Wimbledon. Sposano la teoria che i bambini devono capire fin da subito come gira la giostra della vita, che nessuno ti lascerà primeggiare e che dovranno imparare subito a guadagnarsi il successo. Magari poi i figli diventeranno degli insicuri frustrati e voteranno a sinistra, ma questa è un’altra storia.

La verità è che ai bambini non gliene frega niente di vincere o perdere, a loro interessa solo partecipare. E poi, diciamocelo, i bambini vincono sempre.

I bambini vincono sempre perché sono degli inguaribili ottimisti, non importa se mezzo pieno o mezzo vuoto, l’importante è che ci sia un bicchiere.
I bambini vincono sempre perché si alleano fra di loro, si inventano le regole, se la cantano e se la suonano. vincono sempre perché sanno stare insieme.
I bambini vincono sempre perché…”il pallone è mio, ma se giochiamo in due è più divertente”
I bambini vincono sempre perché vedono i colori ma sono daltonici nei pregiudizi, perché fanno le squadre a seconda del colore della maglia e non della pelle.
I bambini vincono sempre perché anche se una battuta fa cagare loro ridono, non la capiscono ma ridono, perché hanno voglia di partecipare.
I bambini vincono sempre perché hanno ancora il senso della giustizia, perché se qualcuno fa un torto a un mio amico lo fa anche a me. Vincono sempre perché sono felici se qualcuno è felice e se provi a spiegare loro il concetta di ipocrisia ti guardano come Toninelli guarda una divisione a due cifre.

I bambini vincono sempre perché le regole del loro mondo le scelgono insieme, non hanno bisogno di scegliere qualcuno che decida per loro.
I bambini vincono sempre perché gli sbagli che fanno li rendono migliori.

I bambini vincono sempre perché si sforzano di ricordare, tutto, le gioie e i dolori. Perché è difficilissimo evitare di commettere gli stessi errori, ma se conserviamo un po’ di memoria, forse, ci salveremo. Eventualmente chiediamo ai bambini, che loro, in qualche modo, vincono sempre.

La differenziata salverà il mondo.

Dove vivo io non ci sono quartieri, quelli li lasciamo alle grandi città, qui siamo in provincia e ci sono i rioni. Raggruppamenti di case, di persone e di storie, simili a tante altre ma allo stesso uniche. Noi ci proviamo a mantenere un certo distacco e una nostra privacy, ma si finisce inevitabilmente di conoscere i cazzi di tutti gli abitanti del rione e loro i nostri, ovviamente.

Siamo persone semplici, ogni tanto proviamo ad atteggiarci a manager impegnati, ma il risultato non è credibile. E siamo abitudinari, i rituali ci rassicurano, le novità ci spaventano e sul momento non le accettiamo, protestiamo, ma alla fine, lo sappiamo già, ci adegueremo, magari sbuffando, ma lo faremo.

Ecco, nel mio rione una settimana fa è iniziata la raccolta differenziata. “Embè?” direte voi, giustamente. Ormai la fanno tutti la differenziata, è sinonimo di civiltà e di rispetto per l’ambiente. Parole sacrosante, ma per noi del rione è comunque una novità. Noi eravamo abituati a separare la carta dalla plastica e già così ci sentivamo un gradino sopra a Greta Thunberg. Lungo le strade c’erano tre cassonetti, il giallo per la carta, il blu per la plastica e lui, il grigio, il grande vecchio, il “vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole”: l’indifferenziata!
L’indifferenziata è il “cazzonesò” dell’immondizia. Come quando ti chiedi dove vada buttato il cartone del latte, ci pensi un po’ e alla fine opti per un “cazzonesò, indifferenziata. Alé!” Il cassonetto grigio è rassicurante, ci consola, come quando rovesciavo il caffelatte nel letto e mia madre mi diceva “non preoccuparti, ci penso io”. Che mi veniva voglia di abbracciarla stretta. Ecco, il cassonetto dell’indifferenziata è così, ti alleggerisce dai tormenti, si fa carico lui del tuo tetra pack, del tuo sughero, dei pannolini dei tuoi figli. Il cuore grande del cassonetto grigio non ti lascerà mai solo.

Ma c’è un pianeta da salvare, ognuno deve fare la propria parte e allora tutti noi abitanti del rione ci siamo ritrovati in fila per la distribuzione dei nuovi bidoncini, da tenere in casa, o sul terrazzo, o in garage, o in qualunque altro posto ma non in strada. O meglio, in strada sì, ma nei giorni stabiliti. È finito il tempo di buttare l’immondizia alla cazzo di cane. Ora è tutto, preciso, definito e regolamentato.

Mentre ero lì in fila per ritirare i bidoncini ascoltavo i dubbi e le incertezze degli altri rionali. C’era chi si domandava come smaltire il cartone di pizza impregnato di mozzarella, chi chiedeva dell’alluminio, chi delle lattine. Ci confrontavamo tra di noi cercando di darci coraggio, mentre gli addetti alla distribuzione si limitavano a rispondere che era tutto scritto nel volantino illustrativo, ostentando un freddo distacco.
Lì ho pensato che i bidoncini non fossero sufficienti a contenere tutto quello che le persone hanno bisogno di smaltire. Servirebbe un contenitore per le delusioni, uno per le giornate storte, uno enorme per la rabbia, da svuotare almeno tre volte al giorno. Servirebbe un contenitore per gli sbagli che non riusciamo a perdonarci, per le frasi taglienti scagliate per ferire, ci vorrebbe un bel bidoncino per i rospi ingoiati, per i nodi alla gola, per certi rimorsi che non ci lasciano in pace. Servirebbe un compromesso: togliete il cassonetto dell’indifferenziata ma dateci quello dell’indifferenza, che se riuscissimo a gettarne via un po’ avremmo qualche chance in più di salvare il pianeta.

Forse sono bigotto.

Ma guarda, questo non è assolutamente vero, no, non tutti quelli della mia generazione sono bigotti, ma figuriamoci, siamo moderni, siamo smart, ok, magari ci mettiamo mezz’ora a rispondere a un messaggio whatsapp ma solo perché siamo scrupolosi, misuriamo le parole, detestiamo i refusi e quindi, scriviamo, cancelliamo, correggiamo e alla fine inviamo il messaggio…con frasi tipo “apri la porca” anziché la “porta”, ma quello è colpa della presbiopia.

Come? Ma certo che sono moderno, anche come mentalità, sì, nonostante abbia sempre votato a sinistra, sì.

Ma come cosa penso dell’identità sessuale?, ma che domanda è? Sarebbe come chiedere cosa penso degli hipster o dei tatuati. Certo che so chi sono gli hipster!

Cosa farei se mio figlio fosse gay? Ma che ne so, gli direi di non fare tardi, di stare attento agli sbalzi di temperatura, di guidare piano, di non bere. Mi preoccuperei per lui, semplicemente, come ogni genitore dovrebbe fare. Sarei felice quando lui è felice e incazzato quando qualcuno lo fa stare male.

Come reagirei se si fidanzasse con un uomo? Come dovrei reagire, gli parlerei, proverei a spiegargli che un rapporto di coppia è un patto, sì, un patto fra due esseri umani, che si impegnano a non capirci niente.  Le relazioni di coppia sono il Blu Tornado di Gardaland, con le discese, le impennate, le curve messe a cazzo. Ti sentirai con lo stomaco sottosopra e l’adrenalina in circolo che ti farà urlare, di rabbia, gioia e paura. Alcune durano giusto il tempo di un giro di giostra, altre non la smettono più di sballottarti qua e là. Ma in ogni relazione di coppia ci sono alcuni momenti in cui ti sentirai veramente al sicuro, nonostante tutto. La durata di questi momenti dipende da te, almeno per il cinquanta percento.

Il sesso sarebbe un problema? In che senso? Certo che sarebbe un problema, che discorsi, se lui non lo facesse mai sarebbe un problema sì. Cosa ne penso? Penso che sarebbero affari suoi.

Perché dovrei preoccuparmi? Il sesso è il sesso e basta, siamo noi a dargli una specifica connotazione. E ogni volta è diversa. Il sesso è come il cibo, puoi farti un’abbuffata o brevi spuntini. Puoi fare la dieta tisanoreica o quella a zone, nel senso che mangi in sala, cucina, bagno, camera, balcone. Il sesso lo usi per festeggiare, per noia, per disperazione. Può diventare un piacere o un problema, una cosa è certa: il corpo umano non è progettato per farne a meno.

No aspetta, questa me la spieghi bene eh, perché dovrei sentirmi in colpa? Per aver fallito come genitore? Ma sei impazzito! Mi sentirei in colpa se fosse un delinquente, un maleducato…un interista, ma non certo se fosse gay. Ma che c’entra la sensibilità? È un luogo comune stucchevole, non tutti i gay sono sensibili, o creativi o empatici, conosco omosessuali che sono delle grandissime teste di cazzo. C’è questa cosa che se uno è gay devi per forza trovargli delle qualità, come quando muore qualcuno e tutti a dire “era una brava persona”, ma chi l’ha detto? Magari è stato uno stronzo intergalattico, o magari no.

Perché dovrei essere imbarazzato? Fammi capire, non sarebbero certo i gusti sessuali di mio figlio a imbarazzarmi. mi imbarazza l’ignoranza, la battuta sessista, le risatine del cazzo fra amici quando vedono qualcuno diverso da loro.  Mi imbarazza chi dice “donna con le palle” o peggio “ha il ciclo”, mi imbarazza chi dice ancora “frocio di merda”, ma non per me che ascolto eh, no, io mi imbarazzo per chi lo dice. Mi imbarazza chi usa la parola “omosessuale” come se fosse un’offesa. Mi imbarazzano questi atteggiamenti qui, ma mi imbarazza ancora di più chi li giustifica.

Come penso che sia sessualmente il nostro paese? Penso che sia autoerotico. Ci facciamo un milione di pippe mentali per risolvere problemi che abbiamo creato noi. Facciamo leggi contro le discriminazioni sessuali quando basterebbe dire “amate chi cazzo vi pare, nessuno vi giudica”.  Ostentiamo il sesso e tutte le nostre preferenze sessuali solo per esorcizzarle. Sono stato per un po’ di tempo in Danimarca, trent’anni fa eh, non l’altro ieri, ecco, già allora se andavi a dire a qualcuno di Copenaghen “sai, io sono gay” quello ti guardava come se venisse qualcuno da noi a dirci che è mancino. Il nostro paese sessualmente è come “il cane di Betto”: mentre tutti gli altri scopavano lui si leccava il…ok, ci siamo capiti.

Il lavoro? Che c’entra il lavoro? No, non credo che sarebbe penalizzato no, perché dovrebbe esserlo? Certo che mi incazzerei se accadesse, come si incazzerebbe chiunque. Ma mi incazzerei anche se fosse privilegiato. Una persona non deve avere dei vantaggi perché è gay, o donna, o disabile, o bianco o nero, blu eccetera. Una persona deve avere privilegi perché dimostra di meritarseli. Altrimenti è comunque una discriminazione. Cosa ridi? Sì sono un illuso, voglio credere che avere le capacità serva ancora a qualcosa, lo voglio credere. E vorrei che lo credesse anche mio figlio.

Ecco, non lo so se sono bigotto, forse un po’ sì, c’è qualcosa che non riesco a superare, ci provo, ma proprio non ci riesco. Non sopporto i finti buonisti, chi sfrutta le debolezze degli altri per farsi valere, chi sbeffeggia qualcuno solo perché ha gusti diversi dai suoi. Ecco, per me queste sono persone di merda, indipendentemente da ciò che hanno fra le gambe.

Felicità a piccole dosi.

Oggi vorrei parlare della felicità, quella vera intendo. Avete presente quando provate quella gioia immensa che vi sembra che pure Di Battista faccia discorsi sensati? Ecco quella.

Per esempio, stamattina ero veramente felice, no, non sereno, ma felice, poi sono uscito di casa, ho preso la macchina, così, felice. Fatti trenta metri un tipo in bicicletta ha tirato dritto alla rotonda e per poco non lo sdraio.

Non so se ci avete mai fatto caso, ma i ciclisti hanno questa convinzione innata che la strada sia loro, quando cavalcano quel sellino il codice stradale cessa di esistere. Le rotonde sono solo delle inutili variazioni alla loro traiettoria spazio-temporale. I colori dei semafori? Un suggerimento! Se è verde vai sereno, se è giallo continua a pedalare, qualcuno si fermerà. Se è rosso, non è un problema tuo, tira dritto e alza il dito medio. Si ritrovano in gruppi, si danno appuntamento come i piccioni di Piazza San Marco. E poi partono, tutti insieme, occupando entrambe le carreggiate. E parlano fra di loro, si godono la giornata e ogni tanto…pedalano. Sono degli esemplari pacifici, ma non azzardarti a infastidirli. Cioè, magari dopo cinquanta chilometri che stai in auto dietro di loro, ti sei un po’ rotto i coglioni e vorresti provare a superarli per tornare alla tua vita normale, non che tu abbia chissà che di urgente da fare, ma se avessi voluto farti un’ora di strada a dieci chilometri orari avresti preso la Fi-Pi.Li. E allora azzardi un timido colpetto di clacson, quasi impercettibile, giusto per chiedere cortesemente ai centauri del pedale di farti passare. Pazzo! Un gesto scellerato! Quelli si allargano, come le acque del Mar Rosso, ma tu non sei Mosé e neanche Moser. Ti lasciano insinuare nelle viscere del “gruppone” ma esattamente a metà percorso la marea di manubri e sellini si richiude intorno a te e ti ritrovi immerso in un mare impetuoso di vaffanculo, sputi e manate sul tettino. Che ti verrebbe voglia di comprare una falciatrice con apertura alare e passarci sopra un paio di volte giusto per….ma parlavo della felicità, no?, questo desiderio viscerale di rendere feliciti tutte le persone. Anche quelle che proprio non sopporti. Quando sei veramente felice ti verrebbe voglia di abbracciarle, forte.

Mi capita la stessa cosa con i pedoni che attraversano all’improvviso. Vorrei buttare loro le braccia al collo e abbracciarli forte…molto forte…troppo forte.

I pedoni…quasi peggiori dei ciclisti. I pedoni sono quegli animaletti curiosi, tipo i suricati dell’Africa meridionale che stanno in piedi su due zampe, guardano freneticamente a destra e sinistra e poi improvvisamente scattano. Ecco, i suricati urbani scattano improvvisamente a mezzo metro dal tuo cofano, così, senza un motivo apparente e tu sei costretto a piantare una frenata che ti fa battere una craniata nel vetro anteriore. Stai lì impietrito pensando “va bhe, porelli, magari hanno fretta” e invece no! I pedoni fanno questo scatto felino alla partenza ma a metà della strada rallentano, perché per loro sono arrivati! Cioè, hanno raggiunto il loro scopo, prendere possesso della carreggiata. E ora si godono il tragitto fino all’altra sponda fischiettando Maledetta primavera di Loretta Goggi. I pedoni, a differenza dei ciclisti, odiano tutti! indistintamente. Il loro più grande desiderio è quello di possedere un fucile a pompa e sparare, così, a cazzo di cane su chiunque si palesa davanti. Sugli automobilisti indisciplinati, sui ciclisti in gruppo, su quelli con gli scooteroni. Si sentono i protagonisti di “La notte del giudizio”, anche di giorno.

La felicità, dicevo, la felicità e quel sentimento che si contrappone alla tristezza, al dispiacere…alla rabbia.
Ecco, la rabbia. Per esempio, sei felice e decidi di chiamare tua madre, così, per sentire come sta e magari trasmetterle un po’ del tuo stato vitale celestiale. Squilla il telefono, lei risponde, ma tu sei in una zona con poco segnale, oppure hai Iliad. Comunque, inizi a parlare e lei non sente e inizia con “Pronto?” – “Si mamma, mi senti?” – “no, non sento” – “come non senti?, se mi rispondi senti!” – “Come?, non sento. Pronto, pronto!”. E alla fine ti incazzi, tu! Cioè, non hai segnale, lei non sente, ma la colpa è sua! Peggio di questo c’è solo la situazione in cui tu chiami qualcuno, il telefono squilla ma quello rifiuta la chiamata. E tre secondi dopo ti arriva quel messaggio preconfezionato “Posso chiamarti più tardi?”. Sì, puoi chiamarmi ma sappi che mi hai già fatto girare i coglioni.
La felicità….ah si…la felicità come opposto del dolore. Tipo che sei felice, volteggi lungo il corridoio di casa e sbatti il mignolo del piede sulla cassapanca di nonna. E per un attimo ti sembra di vederla nuovamente, tua nonna e vedi anche tutti i santi del Paradiso e provi un dolore così forte che se avessi una pasticca di cianuro la prenderesti per porre fine a quella sofferenza.

Quando sei felice sopporti tutto e tutti, gli altri giorni invece ti incazzi con il cane del vicino che abbaia, con quelli del gruppo whatsapp del calcetto che mandano i buongiornissimi alle sei di mattina. Ti incazzi con quelli che non si incazzano mai, avete presente? Quelli serafici, che sorridono amabilmente. Dei potenziali assassini seriali, probabilmente anche loro ogni tanto vedono la nonna, magari la conservano a pezzi dentro al freezer. O peggio ancora ti incazzi con quelli che ti dicono “stai calmo”. Se vedi che mi sale la rabbia lo “stai calmo” è il detonatore. No, porca puttana, io non sto calmo, io voglio esercitare il sacrosanto diritto di mandare tutti a fanculo e incazzarmi come una pantera. Basta, distruggiamo le lobby degli “staicalmisti” e facciamo trionfare lo “staicalmouncazzismo” – Dai, stai calmo. – Stai calmo un cazzo!-

La verità è che la felicità è uno stato d’animo fragile, basta un niente per mandarlo in frantumi, essere felici oggi è impopolare, una roba da sfigati. Il vero uomo è forte, determinato e incazzato nero. E anche le donne devo essere così per farsi rispettare. Le vogliamo decise, intraprendenti, ambiziose, spesso sono costrette ad arrabbiarsi il doppio di noi uomini per essere credibili. Come se la predisposizione a incazzarsi fosse l’unità di misura del rispetto. Roba da mettere sul curriculum “Conoscenza del pacchetto Office e ottima padronanza dell’incazzatura immediata”.
Penso che esista un sistema di vasi comunicanti dentro di noi, un principio fisico secondo il quale se cala la felicità aumenta la rabbia e viceversa. La sensazione è che la felicità sia considerata una debolezza, qualcosa da denigrare, da sminuire, come se ci fosse una sorta di paura latente nei confronti di chi è felice. E allora mi viene da pensare che il rispetto non si guadagna sbraitando il proprio disappunto, ma combattendo per una felicità comune. Sarò un idealista, forse l’ultimo degli idealisti, ma continuo a credere che i veri sovversivi siano le persone felici.

I HAVE A DREAM.

“Cosa vuoi fare da grande?” quante volte ce lo siamo sentiti dire. Io avevo l’ansia di questa domanda, perché ero un bambino timido, decisamente, troppo timido e vivevo nel timore costante di essere inopportuno. La verità è che non lo sapevo cosa volevo fare da grande, ma mi affasciavano i mestieri alternativi, tipo lo spazzacamino, lo zampognaro, l’arrotino, cose così. E ogni volta che provavo a rispondere si creava sempre un imbarazzo palpabile fra i parenti. Perché diciamocelo, nessuno vuole un figlio o un nipote zampognaro.

Ero terrorizzato da quella domanda, incrociavo le dita e supplicavo il cielo che nessuno me la facesse, un po’ come faceva mia zia quando le chiedevano del fidanzato, lei che aveva trentadue anni ed era ancora zitella. Che essere zitella a trentadue annii negli anni settanta era peggio che essere mignotta.

E allora, per non deludere nessuno, i miei sogni li inventavo, lì sul momento. Dicevo di voler fare il cantante, il pilota, senza specificare di cosa, così, un pilota generico. Poi il calciatore, il medico, il rigattiere, cioè, che cazzo fa un rigattiere? Non si sa, ma io volevo farlo.

Poi sono cresciuto e anche i desideri della vita sono cambiati, sognavo l’amore, il divertimento, la frattura di tibia e perone della prof di latino. Sognavo il motorino, o almeno una bicicletta decente, sognavo….sognavo di andare allo stadio con mio padre e di tirare un rigore a Stefano Tacconi. E poi sono cresciuto ancora e man mano che crescevo il livello dei sogni si abbassava. Sognavo di pagare le rate del muto, della macchina, della bicicletta che finalmente era decente. Sognavo di andare in centro e trovare parcheggio, per dire. Anche a pagamento. Che lo vedi da lontano quel rettangolo dal perimetro blu, è vuoto, lo punti come Salvini punta le navi delle ONG, deve essere tuo, è un po’ stretto ma pazienza, fai settecento manovre, non ci pensi neanche per il cazzo di cercarne uno più largo, vuoi quello. Alla fine hai due braccia come Ivan Drago in Rocky IV, scendi e tutto sudato ti dirigi al parcometro che si trova più o meno a un chilometro e mezzo di distanza. Servono monete, trovi venti centesi per caso, puoi restare ventisette secondi, accetti, premi invio ma….per avere il tagliando devi inserire la targa. Ma non hai tempo di tornare alla macchina e leggerla e allora ti sforzi di ricordarla…”aspetta com’erà?…ah sì, gli anni di Cristo, seguiti dalla data di nascita del cane, poi…Genova Rosignano…no aspe’ forse era un’altra autostrada…ah sì, la Milano Bologna…no…” Puoi dimenticarti tutto, ma se parcheggi e dimentichi la targa è finita la vita!

Poi ho iniziato a sognare di avere ciò che vedevo in tv, ciò che sentivo alla radio, tutta una miriade di oggetti di cui ignoravo l’esistenza e soprattutto, di cui ignoravo la necessità di volere. E così ora sogno caldaie a condensazione, zanzariere oscuranti, pancere contenitive e assorbenti discreti per le perdite urinarie. Sogno tutto, copro tutti i target, dai prodotti per famiglia a quelli per anziani, dagli shampoo per la calvizie a quelli per la forfora. Sogno il montascale del vecchietto sorridente, a volte sogno di avere anche il vecchietto, poi però mi passa. Mi sono fatto crescere la barba solo per potere avere rasoi elettrici precisi e performanti, dopobarba rinfrescanti e lenitivi, uso talmente tanti prodotti che ho la barba cromata come i pomelli della porta del battistero, che poi ancora mi ci devo abituare e ogni tanto la mattina mi guardo allo specchio dicendo “e tu chi cazzo sei?”

Sogno cose che non avrò mai, la casa sulla spiaggia, la Tesla elettrica. Sogno di andare da Poltrone&Sofà e comprare un divano a prezzo pieno.

Sogno cose che non userò mai, gli attrezzi per fare ginnastica, il telefono che fa i video che neanche Tarantino per girare Kill Bill, lo sogno quel telefono, anche se quando mi faccio un selfie prendo mezza faccia. Sogno di avere la Manzotin che mi salta sul piatto dal frigo, anche se a me la carne in scatola fa vomitare, Sogno di avere sette decoder e vedere tutte le trasmissioni del mondo, anche se poi guardo solo Netflix. Sogno la visiera delle consolle, quella che ti fa vedere le immagini in 3D, il mio amico ce l’ha, una volta me la fece provare, nel frattempo entrò sua suocera e io le saltai al collo come un mastino napoletano perché ero convinto che fosse un fottuto alieno.

Sogno tutte queste cose, si chiamano “bisogni indotti”, cioè, ti convincono di aver bisogno di qualcosa e quel “qualcosa” ce l’hanno loro. – Loro chi? – Non lo so, loro, qualcuno che non sei tu, o io.

Con me questa tecnica funziona alla grande, riesco a desiderare tutto ciò che loro vogliono che io desideri. Ma non so più distinguere quali sono i sogni miei. Perché, a pensarci bene, di tutte queste cose posso farne tranquillamente a meno, ma non posso fare a meno dei sogni che avevo da ragazzo. Per questo ogni tanto sogno di stare su un palco con un microfono in mano, oppure seduto al posto di guida mentre corro in pista.
Da ragazzo le cose che sognavo davvero erano scrivere un libro e creare una famiglia felice, ma non in quest’ordine. Il libro alla fine l’ho scritto, l’altro sogno sto cercando di realizzarlo giorno per giorno, io ce la metto tutta, speriamo bene.

Dicono tutti così.

DICONO TUTTI COSI’.

Sono cresciuto in una famiglia allargata, niente di particolarmente complicato, stavo in casa con i genitori e i nonni, negli anni settanta era normale. Figlio unico e nipote unico, coccolato abbondantemente e protetto eccessivamente.

In particolare mia nonna aveva questa sorta di senso smisurato di protezione verso l’ambiente esterno. Per esempio se andavamo a passeggio in centro e passavamo davanti a qualcuno che chiedeva l’elemosina mi diceva subito “Quel tizio ci ha lanciato una maledizione, fatti subito tre volte il segno della croce”. Cose così, che magari hanno contribuito a crearmi tutta una serie di micro-paure indotte, che a pensarci a mente fredda sono scemenze ma nel momento esatto in cui le vivo mi fanno rabbrividire.

La paura di dormire con i piedi scoperti, non per il freddo, no, ma perché qualcuno da sotto il letto potrebbe prendermi per le caviglie. – Ma qualcuno chi? – che ne so, qualcuno.

La paura di essere fermato dalla stradale senza documenti – Giuro che quando sono uscito ce li avevo – Sì certo, dicono tutti così

La paura di non rivedere i parenti stretti, ma anche la paura di vederli troppo spesso.

La paura di essere vanitoso, ma anche di essere troppo modesto – Sì, fa finta di sminuirsi ma in realtà se la tira abbestia. A falso!

La paura di parlare poco – sta sempre zitto, non gliene frega niente – o di parlare troppo – Oh, non si cheta un attimo, che palle.

La paura di svegliarmi insensibile, anzi peggio, interista!

La paura di arrivare alla cassa a pagare, dare 50 euro alla cassiera, lei li guarda e li passa nel verificatore di banconote. E vedi tutta la vita passarti davanti, in quel momento vorresti tornare bambino e darli al tizio che chiedeva l’elemosina quei 50 euro, pur di non farli passare nel verificatore di banconote. Guardi la tua banconota uscire lentissima da quella scatoletta infernale e alla fine arriva il temuto responso: è falsa! – No ma guardi ci deve essere un errore, li ho appena presi dal bancomat – Certo, dicono tutti così.

La paura di cambiare casa, macchina e mutande.

La paura di arrivare troppo in anticipo, o troppo in ritardo – dateci un’unità di misura accettabile, facciamo 5 minuti prima e cinque dopo? Ditecelo!

La paura di non farcela, mai. Di non essere all’altezza mai. Di combinare casini. Sempre.

La paura di sbagliare tre volte il pin del bancomat, del telefono, dello spid, dell’app immuni.

La paura di avere improvvisi vuoti di memoria….e anche di avere improvvisi vuoti di memoria.

La paura di essere fregati, sempre, costantemente.

La paura di passare sopra la grata dei tombini – metti cede, ci caschi dentro e vai giù, ma non dentro la fogna, no, finisci proprio al centro della Terra.

La paura di sbagliare a fare la differenziata – ok il vetro, la plastica, la carta, l’alluminio, ma il sughero? Dove cazzo va il sughero?

La paura di essere schiavi di qualcosa o di qualcuno, ma anche di essere troppo liberi – Dimmi cosa devo fare che è la prima volta e non so da che parte rifarmi.

La paura che si spenga il navigatore in aperta campagna, ma anche in qualche vicolo di Tor Bella Monaca

La paura di finire in ospedale e non essermi cambiato i calzini.

La paura di aprire l’ovino Kinder e non trovarci la sorpresa.

La paura di andare dal dentista, che quello si distragga e devitalizzi il dente sano. Ma anche che in un eccesso di rabbia spinga il ferretto troppo in altro e arrivi a danneggiare l’emisfero destro del cervello.

La paura di fare il bagno al largo e che uno squalo bianco mi divori – Perché è risaputo che a Livorno ci siano più squali che in Florida.

La paura di arrivare al telepass e non si alzi la sbarra – che poi devi fare marcia indietro e quello dietro suona e retrocede e quello dietro di lui suona e retrocede a sua volta e si innesca tutto un meccanismo che a un certo punto vedi uno davanti a te che fa retromarcia e pensi “che cazzo fa questo idiota?”. Niente, è l’ultimo della fila smisurata che hai creato te.

La paura che qualcuno ti chieda di scrivere un biglietto di auguri, di condoglianze, di felicitazioni… – te che sei scrittore…-

La paura che tuo figlio in quarta elementare ti chieda come si fanno le divisioni in colonna, o il participio passato di splendere.

La paura di salire sulla mia auto e trovarla diversa e dopo 20 chilometri capire che non è la mia auto. (storie di vita vissuta)

La paura di salire sull’autobus e perdere il biglietto – Dev’essere qui, l’ho appena timbrato, lo giuro – Sì sì, dicono tutti così.

La paura che arrivi la telefonata del call center e appena rispondi “si” ti attivino una promozione. e allora la conversazione è più o meno così: “Parlo con il signor Francesco?” – “Esattamente” – “abita in provincia di Livorno?” – “Confermo” – “Ha una linea telefonica attiva?” – “Se lo dice lei…”

La paura di prenotare un fine settimana su Booking senza la cancellazione gratuita – metti che a metà strada ci ripenso?

La paura di andare in farmacia e chiedere un’aspirina – in bustina o effervescente? Da 1000 o 5000 milligrammi? Vuole l’originale o l’equivalente? – Ma che ne so, basta che non sia in supposte e poi va bene tutto.

La paura di andare in un bagno pubblico e sedersi sulla ciambella del water. – E ti ritrovi a fare acrobazie che neanche Jury Chechi alle olimpiadi del 2000.

La paura di essere troppo felice – che quando va tutto bene è il momento che arriva la batosta fra capo e collo.

Forse sono tutti questi piccoli spaventi quotidiani, queste cose di poco valore, che si accumulano e scavano tutte insieme, fino a creare un buco nero al centro del torace che ci spalanca a paure più grandi. E allora ci troviamo ad aver paura dei diversi, di quelli che amano chi vogliono, come vogliono, paura di chi non si allinea, di chi viene da lontano, di chi prega un dio diverso dal nostro. Abbiamo paura di chi si ribella e di chi ha più successo di noi, specialmente se a farlo è una donna.

– Ma figurati, io non sono così, io sono per l’accoglienza e per l’uguaglianza dei diritti di tutte le persone– Certo, dicono tutti così.

LA GUERRA A STOMACO PIENO.

Mio nonno ha fatto la guerra, cioè, in realtà non ha mai sparato neanche un colpo, diciamo che la guerra lui l’ha vissuta di riflesso. Le sirene, le bombe, la paura, ma una cosa più di tutte l’ha veramente segnato: la fame. Passava tutto, ma la fame restava sempre.

Ecco, noi siamo gli eredi di quella generazione lì, quella che in qualche modo ha visto la guerra. Forse è per questo che ci piace mangiare, per scacciare questa fame atavica che ci portiamo dietro da cent’anni, perché quando mangiamo la guerra è proprio lontana. E allora ci abbuffiamo, ogni occasione è buona per farlo, feste comandate, cerimonie, serate con gli amici, mangiamo e ci sentiamo felici, in tempo di pace.
Ci piace mangiare, ma cerchiamo di dissimulare questa nostra naturale propensione all’ingozzamento, facendo finta di invidiare quelli che fanno sport e stanno costantemente a dieta, facciamo loro i complimenti ma in realtà pensiamo che siano dei repressi, dei fanatici, ci convinciamo che siano tristi e con problemi di salute. A noi che piace mangiare quelli che non mangiano ci spaventano e come tutte le cose che fanno paura li esorcizziamo con la cattiveria. “non mangia perché è depresso”… “quello è vegano, scommetto che ce l’ha piccolo”, congetture diaboliche, ingiurie gratuite, lanciate senza motivo contro qualcuno, solo perché mangia poco, o peggio ancora, mangia in modo diverso dal nostro.

A noi piace mangiare, ma anche sperimentare, siamo affascinati dalla cucina esotica, ogni tanto proviamo qualche cibo improbabile, tipo la bacche di goji, l’avocado, il tofu, gli edamame, il camu camu…un elenco infinito di parole più o meno impronunciabili accomunate tutte da un’unica grande certezza: non sanno di un cazzo. Le mangiamo così, non per sfamarci, no, noi le mangiamo per gioco. Una cosa tipo “stasera facciamo ‘sta pazzia”. Frequentiamo questi ristoranti messicani, turchi, giapponesi, indiani, ma solo per fare le foto ai piatti e postarle su instagram. Anche perché, diciamocelo, noi del cibo esotico non ne sappiamo una mazza. Mangiamo qualsiasi cosa abbia un aspetto innovativo fingendoci esperti e decantandone il gusto sopraffino, finché qualcuno ci fa notare che è un’insalata di pollo.
Ma non ce ne frega, l’importante è mangiare, non importa cosa, importa quanto. Una volta mi hanno trascinato in un ristorante cinese, “vieni, ti divertirai e poi è all you can eat”. Ammetto la mia ignoranza, non avendo mai messo piede in un ristorante cinese non avevo idea di come funzionasse la cosa. Arriva questa simpatica cameriera dai tratti asiatici e l’accento marcatamente livornese. Ci lascia i menù e il bigliettino per le ordinazioni.
“Oh, scegli, prendi tutto quello che vuoi, il prezzo è 10 euro, sempre, qualsiasi cosa tu voglia mangiare. Quindi approfittiamone”. Detesto la cucina cinese, il pesce crudo, le alghe, il gelato fritto, tutti quegli intrugli che sanno di fogna e cannella. Ricordo che mi limitai a scegliere solo i piatti che conoscevo: ravioli al vapore, gamberi al vapore, patate al vapore e gelato. Al vapore. I miei amici invece ordinarono di tutto, senza ritegno, alla povera cameriera venne la tendinite a causa dei vassoi che continuava a portare in tavola. A metà cena quasi tutti erano sull’orlo della disperazione, ma lei, la piccola cinese labronica continuava a manifestarsi imperterrita. A un certo punto mi spiegarono che dovevamo mangiare tassativamente tutto, perché il prezzo era sì di 10 euro a persona ma con la clausola che non rimanesse niente nel piatto. Il cibo che avanzava sarebbe stato aggiunto al conto. E lì iniziarono a palesarsi davanti ai miei occhi scene surreali. C’era gente che si ingozzava fino a diventare cianotica, altri, i cosiddetti “furbetti del cinesino” che mettevano abbondanti porzioni di sushi nei piatti dei clienti del tavolo accanto, altri ancora imboscavano pezzi di sashimi nelle tasche della giacca, dentro le scarpe, nelle mutande. Uscimmo che sembrava di stare al raduno degli omini Michelin.

“All you can it, street food, doggy bag” Cosa significano, non si sa, non ha importanza, l’importante è mangiare, anche se non abbiamo fame. Dobbiamo farlo perché “pare brutto” rifiutare il cibo. Se ti invitano a cena e non mangi i padroni di casa si offendono, iniziano a farti domande imbarazzanti del tipo “cosa c’è, non ti piace? Preferivi l’abbacchio anziché la faraona farcita? Stai male?, dai assaggia questa arancia, è del nostro frutteto” e tu non sai come uscirne. Quella che fino a qualche momento prima era una normale cena fra amici di vecchia data si sta trasformando in una vera e propria inquisizione. Ti ritrovi a cercare con lo sguardo una via di fuga, a lavorare d’astuzia per trovare un modo elegante di andartene senza destare sospetti. Adduci scuse improbabili, come un improvviso attacco d’asma spiegando che devi andare a casa a prendere il Ventolin. Nessuno ci crede, ti alzi e loro ti seguono, con lo sguardo sempre più incattivito. Guadagni la porta, cercano di trattenerti, ti divincoli, iniziano a volare parole grosse. “Fermati stronzo, finisci almeno di mangiare la frutta”, ma tu con uno scatto felino ti fiondi giù per le scale, arrivi in strada e uno di loro si affaccia alla finestra lanciandoti una cipolla di Tropea gridando, “non hai assaggiato neanche la crostata, a pezzo demmerda!”.

Se volete vederci patire proibiteci di mangiare. Fin da bambini sviluppiamo questa avversione alla privazione di cibo. Quando al mare mia madre mi diceva “prima di poter fare il bagno devi stare 4 ore senza mangiare”, mi innervosivo, quelle quattro ore mi sembravano quattro settimane. Dopo mezz’ora iniziavo a sentire i crampi allo stomaco, ad avere fantasie culinarie guardando i gabbiani. Mi sarei mangiato anche il coniglio al forno di nonna Celestina, che a giudicare dal sapore di vino che sprigionava, probabilmente era morto affogato in una damigiana di barbera. E a me il vino faceva veramente schifo.
Ma anche fare le analisi del sangue è una tortura, non tanto per l’ago che ti entra in vena, no, il dramma vero è che devi farli a stomaco vuoto. Anzi, la tradizione vuole che tu non debba toccare cibo dalla mezzanotte precedente. Non so se sia vera questa cosa del digiuno dalla mezzanotte, so soltanto che una volta mangia due tarallucci a mezzanotte e un quarto e dalle analisi risultò che ero al secondo mese di gravidanza.

Mangiamo e siamo felici, non pensiamo a niente e quando in televisione sentiamo dire “in questa stagione calda è consigliabile bere molto e mangiare solo cibi leggeri” il primo pensiero che ci passa per la testa è “ma vaffanculo va”. Se non mangiamo ci convinciamo di essere nervosi, ansiosi e impotenti.

E allora per un po’ lasciamo da parte i problemi, abbandoniamo le privazioni e lasciamoci cullare dal suono delle fettuccine alla bolognese che si arrotolano sulla forchetta, degli spaghetti all’amatriciana, del fegato alla veneziana, dei saltimbocca alla romana, del cacciucco alla livornese, Mangiamo e godiamoci questa parentesi di assoluta felicità, che da un momento all’altro. la guerra potrebbe tornare.