Serenata alternativa

Una finestra che dà su una via secondaria, in strada c’è un ragazzetto seduto sul cofano dell’auto a guardare quei vetri, sta pensando qualcosa e lo sta facendo più forte che può:

“Nina affacciati che ti canto la serenata. Ok, magari la serenata no, ma ho scritto una cosa che parla di te. No, non è una poesia, non sono bravo con le rime, però ecco, forse è meglio se rimani a dormire, perché a parlare faccio casino con le frasi e di sicuro non riuscirei a farmi capire. Che quando apro bocca sento questo rumore che rimbomba nella testa, come se il cuore facesse di tutto per confondermi ancora di più. E allora dormi Nina che non ti perdi granché, però mentre scrivevo mi tremavano le mani, capirai, ho già una calligrafia di merda, immagina che scarabocchi ho fatto su questo foglio, ma la penna non si fermava, come se le parole avessero una loro volontà e non riuscissero più a trattenere l’urgenza di uscire. Dormi Nina, che se dormi trovo il coraggio di lasciarmi andare, come quando mi tuffo di testa nel mare agitato, senza pensare alle conseguenze, che quelli come me non sono pratici a parlare con qualcuno senza sentirsi un coglione. Se dormi non cambia niente e questo è un pensiero tremendo e rassicurante, lo so che sembra assurdo, ma se stai dormendo ti sento qui vicino e allora tutti questi pensieri strampalati prendono forma e sorrido. E scrivo.  

Dormi Nina e lasciami inciampare in questa cosa strana che sento nello stomaco, che non la so spiegare, mi logora e mi salva e un po’ lo capisco Troisi quando diceva “voglio solo soffrire bene”, dormi e lasciami sognare, che quest’anima incasinata non riesco a capirla, ma se mi siedo davanti a un foglio bianco sento qualcosa di leggero, come un nodo che si scioglie. 

Dormi, che le notti come queste sono infinite e proprio non ce la faccio a gestirla tutta questa agitazione, Nina non lo sai, ma c’è una band heavy metal nella mia testa, comunque è sempre meglio del reggaeton, lo so, però c’è questo tizio con la chitarra elettrica che proprio non la smette di rompermi i coglioni. Che palle, ma come fanno quelli che se ne fregano? Quelli che sentono qualcosa di strano, non dico un sentimento forte, solo un accenno di affetto, vanno lì e vuotano il sacco, così, senza pensarci, come se prendessero una tachipirina. 

Io invece sto qui fuori come uno stronzo, alle tre di notte, seduto sul cofano della macchina a girarmi questo foglio pieno di cazzate fra le mani. Oltretutto l’auto non so di chi sia e già me lo immagino domani il proprietario che vede l’impronta del mio culo sulla carrozzeria, sai quante maledizioni. 

Non lo so Nina, non lo so davvero come si fa a non complicarsi la vita, non lo so quanto deve indurirsi un cuore per lasciarci in pace. Ogni tanto penso che basterebbe mandare a fanculo la paura, l’imbarazzo, la vergogna e tutta quella compagnia di nobili stronzate, forse è così che si diventa uomini, sì, credo che sia così. Basterebbe diventare un po’ più impermeabili alle emozioni, un po’ più cinici, più sfrontati con quella spruzzata di figlio di puttana che non guasta mai. 

Penso che non finirò mai di farci i conti con questa vigliaccheria che mi strozza le parole in gola, ma credo che ci voglia anche un gran coraggio per rimanere nella penombra.

Dormi Nina, io ora torno a casa che qui c’è un’umidità che mi mangia vivo. Ho scritto una cosa per te ma non è niente di importante, magari te la lascio domani, comunque non ti perdi granché.”

IL PASSO IN PIÙ

«Quando è stata l’ultima volta che sei andato a morire?»

«In che senso a morire?»

«A morire, hai presente quelli che stanno sulle ringhiere dei ponti, che guardano giù e un po’ lo invidiano tutto quel gorgoglio di acqua e sassi. Quelli che se ne stanno lì, come stronzi, nel bel mezzo di un ponte, a pensare che basta un passo, uno soltanto e sarebbe tutto finito. Voglio dire, li hai mai visti quelli che sono andati a morire? Lo sai che pensieri fanno? No che non lo sai, non lo sa nessuno. Quelli nelle stazioni, sul bordo del marciapiede, un metro, un cazzo di metro e giù il sipario. Sbam! Andati per sempre, rien ne va plus. È questione di scelte e di distanze. È sempre questione di distanze, quanti passi fare per arrivare alla fine del mondo, quanti farne per tornare a casa, quanto permettere a qualcuno di avvicinarsi senza rimetterci il cuore. Le distanze di sicurezza, che finché non le oltrepassi sei salvo, non dico vivo, ma solo salvo. 

Come gli viene a quelli lì di fare un passo in più? Voglio dire, lo decidono sul momento oppure c’è un piano studiato nei minimi dettagli, una cosa tipo “faccio una doccia, metto l’abito blu che cade bene, sistemo i capelli, lavo i denti, due spruzzate di profumo, salgo sul davanzale della finestra, stando attento a non rovinare le scarpe e volo giù”. Perché bisogna avere un certo stile anche per farla finita. 

Oppure no, magari ti svegli la mattina già con il cazzo girato e chi se ne frega di fare bella figura, cammini lungo via dei molini, fai un cenno con la testa a Giovanna, intenta a cambiare l’acqua ai tulipani, prendi la discesa fino alla croce del saraceno, senti i polpacci che iniziano a bruciare, rallenti e accendi una sigaretta, c’è il mercato, gente che ti sfiora, donne intorno ai banchi di frutta e di vestiti a basso costo, uomini che discutono di politica, di pallone e di certi culi che fanno bestemmiare. Dai una schicchera al mozzicone che vola giù, segui il percorso dell’acqua scorrere davanti a te, che non si vede la fine. “Ma vaffanculo va”. E salti.

Poi c’è sempre qualcosa, un rumore, un suono, il tocco di qualcuno, una cazzata qualsiasi che ti fa prendere di nuovo contatto con la realtà, sei di nuovo lì, in una sala d’attesa, alla fermata dell’autobus, nel tuo ufficio di merda o dio solo sa dove, saranno passati giusto un paio di minuti, qualcuno si sarà preso un caffè, altri avranno, che ne so, preso un taxi, altri ancora non avranno fatto un cazzo di niente, tu sei andato a morire. Niente di clamoroso insomma.

Hai capito cosa intendo? No, non credo, ma non importa».

«Sì, ho capito».

«Quindi? Quando è stata l’ultima volta che sei andato a morire?»

«Non saprei, mi dai una sigaretta?»