STORIE DI PIRATI D’ACQUA DOLCE.

Ho un debole per le persone, per le loro storie, sono un fanatico delle esistenze altrui. Penso che nessuna vita sia insignificante, spesso siamo noi a sminuirla a non coglierne le sfumature, i dettagli che ci rendono unici e interessanti,

Ci sono cresciuto con questa predisposizione alla gente. Appena mi decisi a nascere, miei genitori presero in gestione un bar, il famoso Dopolavoro Ferroviario, una sorta di circo stabile che si affacciava sui binari della stazione centrale. Un palcoscenico sul quale si alternavano prestigiatori di carte, funamboli del calcio balilla, nani ubriachi e ballerine in pensione, studenti senza libri, sognatori, fancazzisti, politicanti senza patria, rivoluzionari con le pistole ad acqua.

C’era Paolino l’ubriaco, che dopo il terzo bicchiere di bianco fermo iniziava a parlare della moglie che aveva lasciato a casa con il guardiano dei campi da tennis. Paolino lo raccontava ridendo, parlava di quell’uomo unto e grasso che si faceva la sua donna, lui lo sapeva e andava bene così. Lo diceva ridendo, con quella voce impastata e disperata.

Il mercoledì pomeriggio arrivava Vicius il tassista, alto due metri, con i capelli lunghi i tatuaggi e tutto quello che fa girare la testa alle donne, almeno così diceva lui. Si sedeva in attesa del suo compagno, un certo Mollino, passavano la serata a far volare le palline nel calcio balilla, fra birre, bestemmie e sudore. Si vociferava che il Vicius non avesse una casa, se gli diceva bene rimediava una scopata e una notte da passare in un letto sconosciuto. Così parlavano di lui, con una punta di invidia. Lui li lasciava parlare e nel frattempo pensava al figlio che la vita gli aveva strappato. Da quel giorno aveva smesso di illudersi e se la fotteva, la vita. Perché quella sì che è una gran puttana.

Il Muto era uno dei miei preferiti, lo chiamavano così perché non diceva mai un cazzo di niente. Prendeva un mazzo di carte e si metteva al tavolo. Niente, neanche una parola, ma se ti azzardavi a giocare il settebello di prima mano ti fulminava con lo sguardo e riuscivi a contare tutti i santi del paradiso che stava tirando giù. L’unica volta che lo sentirono parlare fu il 6 giugno 1978, durante la partita dei mondiali Italia-Ungheria. Erano tutti seduti a disquisire chi fosse il miglior giocatore e fra un “vaffanculo” e “c’hai la mamma maiala” il Muto si alzò in piedi e disse perentorio: «Giancarlo Giannini!», poi tornò a sedersi in silenzio, come aveva fatto per tutti quegli anni.
Tutti pensarono che fosse impazzito e forse lo era davvero, ma lui Giannini l’aveva visto veramente, in quel preciso momento intendo. Nessuno lo sapeva, ma in quei giorni c’era un certo Mario Monicelli, che nessuno conosceva, che stava girando un film e, incredibile ma vero, in quel preciso momento stava fuori dal Dopolavoro e parlava con Mastroianni, quello vero eh. Nessuno ci fece caso ma l’anno successivo uscì “Viaggio con Anita” e per un attimo, alle spalle di Giancarlo Giannini e Goldie Hawn, si intravedeva la “D” verde dell’insegna del Dopolavoro Ferroviario. Era una scena di poco conto, di quelle che non aggiungono niente di particolare alla storia del film, ma a noi bastava così. Non ci importava di essere i protagonisti, ci bastava far sapere che c’eravamo, che esistevamo anche noi.

Le persone da queste parti sono rimaste più o meno così, si ritrovano ancora per risolvere i problemi del mondo fra un bicchiere di vino e una briscola parlata. Ce la cantiamo e ce la suoniamo fra di noi, le nostre rivoluzioni durano un giro di carte, siamo pirati d’acqua dolce che fanno battaglie su misura. Ma ce l’abbiamo tutti una storia da portarci dietro, che se l’avesse saputo Monicelli sai che capolavori ci costruiva sopra. Ma non importa, che quella vita lì, fatta di luci e casino non fa per noi. E chi se ne frega se ora al posto del Dopolavoro c’è un sushi bar, a noi interessa solo sapere che siamo qui, che esistiamo anche noi.