Certi alberghi

Ho bisogno degli alberghi, questa è la verità, ma non quelli di lusso, no, quella è roba fatta per gente con i soldi, che va lì per lavoro e per scopare. No, io ho la necessità degli alberghi di terza categoria, quelli un po’ decadenti con gli armadi che si portano dentro l’odore di muffa e naftalina. Ammesso poi che ci sia, un armadio. Devo avere i mobili datati, un po’ dozzinali, con il tavolo graffiato, la sedia che dondola e tutto il resto. E mi ci perdo con quegli alberghi lì. Metto un po’ di blues in sottofondo. E mi ci perdo. E scrivo.

Io devo scrivere. Questa è la verità. Voglio dire, non è uno sfizio, è proprio una questione di sopravvivenza, tipo respirare, ecco, scrivere è quella roba lì. Ma è anche farsi del male, perché tocca andare a strapparsi qualcosa dentro, non parlo solo di sofferenze, ci mancherebbe, anche se scrivi una cazzata, una scemata qualunque, ecco, anche in quel caso, hai dovuto metterti lì e ascoltarti e farla uscire quella cosa. E non c’è niente da fare, appena la scrivi non è più tua. Questo è sicuro.

C’è stato un periodo che scrivevo in auto, mentre guidavo, cioè non è che facessi materialmente entrambe le cose insieme, mica sono così scellerato, no, guidavo e scrivevo, con la testa intendo. Non serve per forza avere carta e penna o magari una tastiera per scrivere qualcosa, no, quello è semplicemente il risultato finale. Guidavo e con la mente ero già là, che non è un posto preciso, è semplicemente “là”. Oddio, non è che andasse sempre tutto liscio, ogni tanto bucavo le uscite dell’autostrada e invece fermarmi a Parma mi ritrovavo a Luino, per dire.

Poi c’è stato il periodo dei treni, ma non quelli belli e luccicanti eh, no, i miei treni erano i regionali, quelli dei ragazzi pendolari, degli operai delle acciaierie che tornano a casa portandosi addosso la certezza che prima o poi qualcosa dovrà cambiare e l’odore della consapevolezza che non cambierà mai un cazzo di niente. Scrivevo lì, nel bel mezzo di un vagone di seconda classe, in mezzo a tutte quelle vite che mi giravano intorno e io che ne rubavo un pezzetto per me. Come quando strappi una pagina di un libro e la metti nel portafogli.

Ma negli alberghi, porca puttana, negli alberghi c’è una catastrofica dolcezza, che certe giornate come fai a resistere. Giornate quasi normali o dannatamente complicate, che stai lì nella merda fino al collo, che boh, non hai i soldi per arrivare a fine mese, la Juve ha perso, hai chiuso una storia d’amore…che ne so, cose così, normali e devastanti. Ecco, in quei giorni lì ho bisogno di stare in un albergo, a fermare il tempo. O almeno, a rallentarlo un po’. E neanche mi ricordo di mangiare, è proprio una dimensione parallela, sei tu, solo e la tua vita seduta accanto a te che si fa i cazzi suoi.

Mi sono sempre chiesto come cazzo fanno i pianisti a stare seduti davanti a tutti quei tasti, ma ore e ore, a far scorrere le dita senza stancarsi mai, cioè, mai uno che si alzi e dica “oh basta, mi sono rotto i coglioni”, no. Stanno lì, ma giornate intere eh, a creare musica, persi in quell’oceano di note. Vita e note, tutti giorni. Incredibile.
O i pittori, cazzo i pittori sono assurdi, prendono una tela bianca, un pennello e qualche colore e tirano fuori un paesaggio, un volto o comunque roba geniale. Magari hanno davanti, che ne so, una discarica e sbam! Dipingono un tramonto. Ma dove diavolo ce lo vedono il tramonto in una discarica. Devono aver dei gran casini nella testa, i pittori.

Gente strana, i musicisti, i pittori, gli artisti di strada, ma anche i pendolari dei treni, le mignotte d’alto borgo, i manager incravattati, o i ragazzetti che si baciano sui tram, quelli che rimangono appesi a un lampione aspettando qualcuno che non arriverà, o gli altri, quelli che stanno insieme da quarant’anni e ancora si tengono per mano.
Persone così, gente strana davvero. Io invece no, a me basta stare chiuso in questo albergo a scrivere di loro.

Serenata alternativa

Una finestra che dà su una via secondaria, in strada c’è un ragazzetto seduto sul cofano dell’auto a guardare quei vetri, sta pensando qualcosa e lo sta facendo più forte che può:

“Nina affacciati che ti canto la serenata. Ok, magari la serenata no, ma ho scritto una cosa che parla di te. No, non è una poesia, non sono bravo con le rime, però ecco, forse è meglio se rimani a dormire, perché a parlare faccio casino con le frasi e di sicuro non riuscirei a farmi capire. Che quando apro bocca sento questo rumore che rimbomba nella testa, come se il cuore facesse di tutto per confondermi ancora di più. E allora dormi Nina che non ti perdi granché, però mentre scrivevo mi tremavano le mani, capirai, ho già una calligrafia di merda, immagina che scarabocchi ho fatto su questo foglio, ma la penna non si fermava, come se le parole avessero una loro volontà e non riuscissero più a trattenere l’urgenza di uscire. Dormi Nina, che se dormi trovo il coraggio di lasciarmi andare, come quando mi tuffo di testa nel mare agitato, senza pensare alle conseguenze, che quelli come me non sono pratici a parlare con qualcuno senza sentirsi un coglione. Se dormi non cambia niente e questo è un pensiero tremendo e rassicurante, lo so che sembra assurdo, ma se stai dormendo ti sento qui vicino e allora tutti questi pensieri strampalati prendono forma e sorrido. E scrivo.  

Dormi Nina e lasciami inciampare in questa cosa strana che sento nello stomaco, che non la so spiegare, mi logora e mi salva e un po’ lo capisco Troisi quando diceva “voglio solo soffrire bene”, dormi e lasciami sognare, che quest’anima incasinata non riesco a capirla, ma se mi siedo davanti a un foglio bianco sento qualcosa di leggero, come un nodo che si scioglie. 

Dormi, che le notti come queste sono infinite e proprio non ce la faccio a gestirla tutta questa agitazione, Nina non lo sai, ma c’è una band heavy metal nella mia testa, comunque è sempre meglio del reggaeton, lo so, però c’è questo tizio con la chitarra elettrica che proprio non la smette di rompermi i coglioni. Che palle, ma come fanno quelli che se ne fregano? Quelli che sentono qualcosa di strano, non dico un sentimento forte, solo un accenno di affetto, vanno lì e vuotano il sacco, così, senza pensarci, come se prendessero una tachipirina. 

Io invece sto qui fuori come uno stronzo, alle tre di notte, seduto sul cofano della macchina a girarmi questo foglio pieno di cazzate fra le mani. Oltretutto l’auto non so di chi sia e già me lo immagino domani il proprietario che vede l’impronta del mio culo sulla carrozzeria, sai quante maledizioni. 

Non lo so Nina, non lo so davvero come si fa a non complicarsi la vita, non lo so quanto deve indurirsi un cuore per lasciarci in pace. Ogni tanto penso che basterebbe mandare a fanculo la paura, l’imbarazzo, la vergogna e tutta quella compagnia di nobili stronzate, forse è così che si diventa uomini, sì, credo che sia così. Basterebbe diventare un po’ più impermeabili alle emozioni, un po’ più cinici, più sfrontati con quella spruzzata di figlio di puttana che non guasta mai. 

Penso che non finirò mai di farci i conti con questa vigliaccheria che mi strozza le parole in gola, ma credo che ci voglia anche un gran coraggio per rimanere nella penombra.

Dormi Nina, io ora torno a casa che qui c’è un’umidità che mi mangia vivo. Ho scritto una cosa per te ma non è niente di importante, magari te la lascio domani, comunque non ti perdi granché.”

IL PASSO IN PIÙ

«Quando è stata l’ultima volta che sei andato a morire?»

«In che senso a morire?»

«A morire, hai presente quelli che stanno sulle ringhiere dei ponti, che guardano giù e un po’ lo invidiano tutto quel gorgoglio di acqua e sassi. Quelli che se ne stanno lì, come stronzi, nel bel mezzo di un ponte, a pensare che basta un passo, uno soltanto e sarebbe tutto finito. Voglio dire, li hai mai visti quelli che sono andati a morire? Lo sai che pensieri fanno? No che non lo sai, non lo sa nessuno. Quelli nelle stazioni, sul bordo del marciapiede, un metro, un cazzo di metro e giù il sipario. Sbam! Andati per sempre, rien ne va plus. È questione di scelte e di distanze. È sempre questione di distanze, quanti passi fare per arrivare alla fine del mondo, quanti farne per tornare a casa, quanto permettere a qualcuno di avvicinarsi senza rimetterci il cuore. Le distanze di sicurezza, che finché non le oltrepassi sei salvo, non dico vivo, ma solo salvo. 

Come gli viene a quelli lì di fare un passo in più? Voglio dire, lo decidono sul momento oppure c’è un piano studiato nei minimi dettagli, una cosa tipo “faccio una doccia, metto l’abito blu che cade bene, sistemo i capelli, lavo i denti, due spruzzate di profumo, salgo sul davanzale della finestra, stando attento a non rovinare le scarpe e volo giù”. Perché bisogna avere un certo stile anche per farla finita. 

Oppure no, magari ti svegli la mattina già con il cazzo girato e chi se ne frega di fare bella figura, cammini lungo via dei molini, fai un cenno con la testa a Giovanna, intenta a cambiare l’acqua ai tulipani, prendi la discesa fino alla croce del saraceno, senti i polpacci che iniziano a bruciare, rallenti e accendi una sigaretta, c’è il mercato, gente che ti sfiora, donne intorno ai banchi di frutta e di vestiti a basso costo, uomini che discutono di politica, di pallone e di certi culi che fanno bestemmiare. Dai una schicchera al mozzicone che vola giù, segui il percorso dell’acqua scorrere davanti a te, che non si vede la fine. “Ma vaffanculo va”. E salti.

Poi c’è sempre qualcosa, un rumore, un suono, il tocco di qualcuno, una cazzata qualsiasi che ti fa prendere di nuovo contatto con la realtà, sei di nuovo lì, in una sala d’attesa, alla fermata dell’autobus, nel tuo ufficio di merda o dio solo sa dove, saranno passati giusto un paio di minuti, qualcuno si sarà preso un caffè, altri avranno, che ne so, preso un taxi, altri ancora non avranno fatto un cazzo di niente, tu sei andato a morire. Niente di clamoroso insomma.

Hai capito cosa intendo? No, non credo, ma non importa».

«Sì, ho capito».

«Quindi? Quando è stata l’ultima volta che sei andato a morire?»

«Non saprei, mi dai una sigaretta?»

STORIE DI PIRATI D’ACQUA DOLCE.

Ho un debole per le persone, per le loro storie, sono un fanatico delle esistenze altrui. Penso che nessuna vita sia insignificante, spesso siamo noi a sminuirla a non coglierne le sfumature, i dettagli che ci rendono unici e interessanti,

Ci sono cresciuto con questa predisposizione alla gente. Appena mi decisi a nascere, miei genitori presero in gestione un bar, il famoso Dopolavoro Ferroviario, una sorta di circo stabile che si affacciava sui binari della stazione centrale. Un palcoscenico sul quale si alternavano prestigiatori di carte, funamboli del calcio balilla, nani ubriachi e ballerine in pensione, studenti senza libri, sognatori, fancazzisti, politicanti senza patria, rivoluzionari con le pistole ad acqua.

C’era Paolino l’ubriaco, che dopo il terzo bicchiere di bianco fermo iniziava a parlare della moglie che aveva lasciato a casa con il guardiano dei campi da tennis. Paolino lo raccontava ridendo, parlava di quell’uomo unto e grasso che si faceva la sua donna, lui lo sapeva e andava bene così. Lo diceva ridendo, con quella voce impastata e disperata.

Il mercoledì pomeriggio arrivava Vicius il tassista, alto due metri, con i capelli lunghi i tatuaggi e tutto quello che fa girare la testa alle donne, almeno così diceva lui. Si sedeva in attesa del suo compagno, un certo Mollino, passavano la serata a far volare le palline nel calcio balilla, fra birre, bestemmie e sudore. Si vociferava che il Vicius non avesse una casa, se gli diceva bene rimediava una scopata e una notte da passare in un letto sconosciuto. Così parlavano di lui, con una punta di invidia. Lui li lasciava parlare e nel frattempo pensava al figlio che la vita gli aveva strappato. Da quel giorno aveva smesso di illudersi e se la fotteva, la vita. Perché quella sì che è una gran puttana.

Il Muto era uno dei miei preferiti, lo chiamavano così perché non diceva mai un cazzo di niente. Prendeva un mazzo di carte e si metteva al tavolo. Niente, neanche una parola, ma se ti azzardavi a giocare il settebello di prima mano ti fulminava con lo sguardo e riuscivi a contare tutti i santi del paradiso che stava tirando giù. L’unica volta che lo sentirono parlare fu il 6 giugno 1978, durante la partita dei mondiali Italia-Ungheria. Erano tutti seduti a disquisire chi fosse il miglior giocatore e fra un “vaffanculo” e “c’hai la mamma maiala” il Muto si alzò in piedi e disse perentorio: «Giancarlo Giannini!», poi tornò a sedersi in silenzio, come aveva fatto per tutti quegli anni.
Tutti pensarono che fosse impazzito e forse lo era davvero, ma lui Giannini l’aveva visto veramente, in quel preciso momento intendo. Nessuno lo sapeva, ma in quei giorni c’era un certo Mario Monicelli, che nessuno conosceva, che stava girando un film e, incredibile ma vero, in quel preciso momento stava fuori dal Dopolavoro e parlava con Mastroianni, quello vero eh. Nessuno ci fece caso ma l’anno successivo uscì “Viaggio con Anita” e per un attimo, alle spalle di Giancarlo Giannini e Goldie Hawn, si intravedeva la “D” verde dell’insegna del Dopolavoro Ferroviario. Era una scena di poco conto, di quelle che non aggiungono niente di particolare alla storia del film, ma a noi bastava così. Non ci importava di essere i protagonisti, ci bastava far sapere che c’eravamo, che esistevamo anche noi.

Le persone da queste parti sono rimaste più o meno così, si ritrovano ancora per risolvere i problemi del mondo fra un bicchiere di vino e una briscola parlata. Ce la cantiamo e ce la suoniamo fra di noi, le nostre rivoluzioni durano un giro di carte, siamo pirati d’acqua dolce che fanno battaglie su misura. Ma ce l’abbiamo tutti una storia da portarci dietro, che se l’avesse saputo Monicelli sai che capolavori ci costruiva sopra. Ma non importa, che quella vita lì, fatta di luci e casino non fa per noi. E chi se ne frega se ora al posto del Dopolavoro c’è un sushi bar, a noi interessa solo sapere che siamo qui, che esistiamo anche noi.

La differenziata salverà il mondo.

Dove vivo io non ci sono quartieri, quelli li lasciamo alle grandi città, qui siamo in provincia e ci sono i rioni. Raggruppamenti di case, di persone e di storie, simili a tante altre ma allo stesso uniche. Noi ci proviamo a mantenere un certo distacco e una nostra privacy, ma si finisce inevitabilmente di conoscere i cazzi di tutti gli abitanti del rione e loro i nostri, ovviamente.

Siamo persone semplici, ogni tanto proviamo ad atteggiarci a manager impegnati, ma il risultato non è credibile. E siamo abitudinari, i rituali ci rassicurano, le novità ci spaventano e sul momento non le accettiamo, protestiamo, ma alla fine, lo sappiamo già, ci adegueremo, magari sbuffando, ma lo faremo.

Ecco, nel mio rione una settimana fa è iniziata la raccolta differenziata. “Embè?” direte voi, giustamente. Ormai la fanno tutti la differenziata, è sinonimo di civiltà e di rispetto per l’ambiente. Parole sacrosante, ma per noi del rione è comunque una novità. Noi eravamo abituati a separare la carta dalla plastica e già così ci sentivamo un gradino sopra a Greta Thunberg. Lungo le strade c’erano tre cassonetti, il giallo per la carta, il blu per la plastica e lui, il grigio, il grande vecchio, il “vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole”: l’indifferenziata!
L’indifferenziata è il “cazzonesò” dell’immondizia. Come quando ti chiedi dove vada buttato il cartone del latte, ci pensi un po’ e alla fine opti per un “cazzonesò, indifferenziata. Alé!” Il cassonetto grigio è rassicurante, ci consola, come quando rovesciavo il caffelatte nel letto e mia madre mi diceva “non preoccuparti, ci penso io”. Che mi veniva voglia di abbracciarla stretta. Ecco, il cassonetto dell’indifferenziata è così, ti alleggerisce dai tormenti, si fa carico lui del tuo tetra pack, del tuo sughero, dei pannolini dei tuoi figli. Il cuore grande del cassonetto grigio non ti lascerà mai solo.

Ma c’è un pianeta da salvare, ognuno deve fare la propria parte e allora tutti noi abitanti del rione ci siamo ritrovati in fila per la distribuzione dei nuovi bidoncini, da tenere in casa, o sul terrazzo, o in garage, o in qualunque altro posto ma non in strada. O meglio, in strada sì, ma nei giorni stabiliti. È finito il tempo di buttare l’immondizia alla cazzo di cane. Ora è tutto, preciso, definito e regolamentato.

Mentre ero lì in fila per ritirare i bidoncini ascoltavo i dubbi e le incertezze degli altri rionali. C’era chi si domandava come smaltire il cartone di pizza impregnato di mozzarella, chi chiedeva dell’alluminio, chi delle lattine. Ci confrontavamo tra di noi cercando di darci coraggio, mentre gli addetti alla distribuzione si limitavano a rispondere che era tutto scritto nel volantino illustrativo, ostentando un freddo distacco.
Lì ho pensato che i bidoncini non fossero sufficienti a contenere tutto quello che le persone hanno bisogno di smaltire. Servirebbe un contenitore per le delusioni, uno per le giornate storte, uno enorme per la rabbia, da svuotare almeno tre volte al giorno. Servirebbe un contenitore per gli sbagli che non riusciamo a perdonarci, per le frasi taglienti scagliate per ferire, ci vorrebbe un bel bidoncino per i rospi ingoiati, per i nodi alla gola, per certi rimorsi che non ci lasciano in pace. Servirebbe un compromesso: togliete il cassonetto dell’indifferenziata ma dateci quello dell’indifferenza, che se riuscissimo a gettarne via un po’ avremmo qualche chance in più di salvare il pianeta.

UNA BAMBINA ALLA FINE DEL MARE

Ti guardo di sfuggita mentre dormi, con quel tuo profilo fatto di attese e giorni che verranno e il respiro impetuoso di tempeste in mare aperto. Ti guardo e provo a immaginare la donna che sarai, sapendo che farai la tua strada e non potrò fare altro che augurarti di trovare ciò che stai cercando.

Posso solo dirti che per fortuna non è tutto pianificato, che ci saranno sempre piccoli dettagli pronti a sfuggire al normale corso degli eventi e sono quelli che  ti renderanno unica. Sarai tu a guidare, ma spero che lungo il viaggio possa imbatterti in qualcosa e qualcuno ti faccia distogliere un attimo lo sguardo dalla strada.

Ti auguro di incontrare qualcuno che ti faccia ballare e ogni ballo sia un grande amore, non importa che sia un tango o un valzer da balera, l’importante è che la testa stia girando. E chi se ne frega se non vai a tempo. Improvvisa, inventa tu i passi e pazienza se poi finirà la musica e ti sentirai morire. Certi balli vanno affrontati senza pensarci troppo su.

Ti auguro  di incontrare qualcuno che ha rubato un libro di poesie, qualcuno che scrive pensieri su fogli di carta, che usa la chitarra come una spada. Un rivoluzionario, un illuso, un disattento, qualcuno che si dimentica ciò che deve fare, che perde le chiavi di casa, che si ferma all’improvviso e scatta una foto. Qualcuno che parla poco e profuma di sogni.

Ti auguro di avere un’amica matta, una di quelle che bussa alla porta alle tre di notte e ti trascina fuori a sentire il silenzio che c’è. Una di quelle amiche che parla svelta e muove le mani, piena di “cazzo che casino”, e di “ce la faremo, fidati”. Quella che ti manda a fanculo e ti abbraccia forte, sempre di corsa, come se l’aria non fosse mai abbastanza. Quella delle canzoni a squarciagola lungo strade polverose a prendere la vita di petto.  

Ti auguro di inseguire progetti fuori tempo, quelli in cui credi solo tu, che te ne freghi e vai avanti nonostante le cantonate prese. Ti auguro un viaggio nella piazza a Marrakech, rumorosa e profumata come solo certe piazze sanno essere. Ti auguro la Londra di Canary Wharf, quella di acciaio e vetri alti, ma anche quella di Hammersmith, fatta di Tamigi e batticuore. Ti auguro Istanbul e Lisbona, Lubiana e Notre Dame e Barcellona e Dublino e tutti i luoghi che non lascerai mai più riportando tutto a casa.

Ti auguro di sbagliare, di sentirti perduta, e di avere qualcuno vicino che ti dica “ce la faremo”. Ti auguro di essere la donna che vorresti diventare, imperfetta e libera, onesta, insicura e splendente, allegra, malinconica e spensierata. Felice. Spudoratamente felice.

Provo a immaginare la donna che sarai, ma tu non farci caso, rimani ancora un po’ quella bambina alla fine del mare. Dormi amore, la situazione non è buona.

Privata, libera o Molise?

Ormai siamo ripartiti, sono riaperti i ristoranti, i parchi, i locali e sono riaperte anche le spiagge.
Quindi possiamo andare al mare, anzi, dobbiamo andare al mare. Soprattutto noi che abitiamo sulla costa. Sì, perché se vivi a meno di due chilometri dalla spiaggia e non sei abbronzato la gente non te lo perdona.

«Fammi capire, abiti al mare e sei bianco come un cencio? Noi spendiamo un sacco di soldi per venire lì e te che ci vivi non vai?, ma sei impazzito?», In pratica ogni tanto vado in spiaggia solo per non farli incazzare.

Già, in spiaggia. Nell’immaginario collettivo le spiagge sono una sequenza ordinata di ombrelloni, sdraio e cabine, che ogni cinquanta metri cambiano colore. Ogni stabilimento ha il suo, come le squadre di calcio e come sul campo di gioco ci sono delle regole da rispettare: niente partitelle a pallone sulla battigia, niente racchettoni o roba simile, tu hai il tuo spazio e io ho il mio e se metti lo zaino sotto l’ombra del mio ombrellone chiamo il bagnino. Già, il bagnino. Ogni stabilimento ne ha uno e ti senti protetto e se fai una cazzata lui fischia, come un arbitro (o un vigile urbano). Ma sai che puoi fare il bagno tranquillamente perché ci sarà sempre lui che si prenderà cura della tua incolumità. Tipo un family banker.

E poi c’è il ristorante e il bar e anche la sala giochi. Che quando sei scalzo e mezzo bagnato e metti la moneta nella gettoniera del flipper prendi uno schiaffo di corrente elettrica che brilli tutto il giorno come una supernova. E alle cinque sfornano bomboloni e focacce calde. Pensano a tutto loro, il bancone del bar trabocca di bibite, granite, frappé, il frigo dei gelati è pieno come un uovo.

Ok, un ombrellone e due sdraio ti costano quanto un vestito di Armani, ma vuoi mettere la comodità?

Già, la comodità. La comodità è fatta per i forestieri, noi indigeni lo sappiamo che la vera essenza del mare si trova solo nelle spiagge libere. Noi siamo un po’ selvaggi e un po’ selvatici.

La giornata tipo di una famiglia che si gode la spiaggia libera in una tranquilla domenica estiva si svolge pressappoco così:

il nonno esce di casa alle cinque di mattina, in bicicletta e con l’ombrellone sotto all’ascella, tipo i francesi con la baguette. Va a prendere il posto. E’ stabilito che lo faccia lui perché gli anziani, si sa, dormono poco e si svegliano presto. La nonna invece è già in cucina a mescolare la besciamella e a far bollire la carne per il ragù. Probabilmente ha passato l’intera nottata a preparare e alle prime luci dell’alba tutta la casa è impregnata da un odore di soffritto che sembra di stare alla trattoria “Non solo aglio”.

Il marito si alza dal letto, va in cucina e guarda la suocera ai fornelli, poi guarda il cane che lo fissa come a dire “per fortuna che io sono castrato”. Arriva anche la moglie che non finisce più di ringraziare la madre per tutto ciò che sta facendo, per aver passato la notte a cucinare e per aver saldato anche questo mese la rata del mutuo.

Sulla tavola ci sono talmente tante cose da mangiare che basterebbero a risolvere il problema della carestia nel Burkina Faso. Il marito guarda con disperazione tutti quei vassoi perché già sa che dovrà metterli tutti nelle ventisette borse frigo, ma soprattutto sa che sarà lui a trasportarle in spalla per tutti i quindici chilometri che separano il parcheggio dell’auto dalla spiaggia. In pratica, casa sua è più vicina al mare rispetto al parcheggiò libero che troverà. A pensarci, converrebbe andare a piedi. Lo propone, ma le due donne gli si rivoltano contro come un mastino napoletano quando vede un gatto siamese.

«Ma cosa dici? Arrivi vicino al mare con la macchina, noi scendiamo e te vai a cercare parcheggio. Così è più comodo, no?», certo, per loro è sicuramente più comodo.

Alla fine si sveglia anche il figlio di cinque anni ed escono tutti di casa. Il marito lascia le due donne vicino alla spiaggia e poi va a cercare un posto. Lo trova settecento metri dopo il confine con il Molise, si carica tutte le borse sulle spalle e si incammina verso il mare. Durante il tragitto cade tre volte, come Gesù sulla via Crucis, ma c’è sempre qualcuno che grida “non lo aiutate altrimenti è squalificato”, tipo Dorando Pietri alle olimpiadi di Londra.

Arriva alla spiaggia e la suocera lo cazzia perché ha impiegato un’infinità di tempo e si saranno freddate le lasagne e la peperonata.

La spiaggia è un frastuono assordante di voci, radio a tutto volume, tornei di calcio fiorentino sul bagnasciuga con tanto di scazzottata finale. Mentre tutti iniziano a mangiare al marito arriva una pallonata sul piatto di cozze. La moglie e la suocera lo guardano come si guarda un bimbo che fa le bizze e gli cade il gelato. “Ti sta bene! E non frignare che tanto non te lo ricompro”.

Il figlio nel frattempo è andato a fare il bagno, il nonno è un po’ preoccupato:
«Ha mangiato dodici salsicce non gli farà male buttarsi in acqua?», la nonna risponde subito.
«Ma cosa dici? Se fa subito il bagno non succede niente, l’importante è non farlo durante la digestione», che ricorda tanto il comandante del Titanic quando diceva “è tutto sotto controllo”.

Il marito si sdraia collassato al sole delle tredici e trenta, con settecento gradi fahrenheit. In dodici secondi passano nell’ordine: un venditore di occhiali, un venditore di libri (tutti scritti da lui), un venditore di coccobello, un tatuatore, un venditore di tappeti, una improbabile estetista che fa le treccine. La moglie si gira e guarda il marito.
«Dai, fatti fare le treccine così poi le dai i soldi, magari ha bisogno, sembra proprio una brava persona. Avrà dei figli».
«Ma sinceramente non mi sembra il caso», risponde lui cercando di sorridere.
«Lo vedi come sei? Il solito egoista, che ti costa, è per una buona causa», insiste.
«Ma sono pelato, anche volendo non potrei farlo», dice lui cercando l’approvazione dell’estetista. Lei due donne si lanciano sguardi complici.
«Lo scusi signorina, è un insensibile» sentenzia la moglie, trovando immediatamente la solidarietà dell’improbabile estetista.

La giornata passa fra secchiate d’acqua, olio solare della friggitoria “il paradiso dei trigliceridi” e ustioni di terzo grado su tutta la schiena, che quando la suocera tocca la spalla del marito per dirgli che è ora di andare, lui si volta di scatto e prova ad azionare il pulsante dell’ammazza la vecchia Beghelli.

Il nonno torna a casa con la bicicletta e l’ombrellone sotto al braccio, la moglie, la suocera e il figlio rimangono ad aspettare il ritorno del marito dal Molise. Hanno tutti la pelle incartapecorita dal salmastro e dal sole, con le lasagne avanzate fanno una donazione a Save the children, con il colesterolo accumulato invece ci pagheranno la villa alle Maldive del cardiologo di fiducia.

Alla fine rientrano tutti a casa, sudati, sfatti e con un paio d’anni in meno da campare. L’unico davvero rilassato è il cane che li guarda come a dire “la cosa bella di essere castrato è che nessuno ti può rompere le palle”.

Comunque, non voglio influenzarvi nella scelta, se siete dei tipi che amano il comfort e la tranquillità lo stabilimento balneare è il vostro mondo. Se invece siete persone a caccia di avventura ed emozioni forti tuffatevi nella spiaggia libera. Se invece siete poveri mettiamoci d’accordo, si fa una macchina sola che in Molise i parcheggi iniziano a scarseggiare.

Ingredienti sparsi.

Sembra scientificamente provato che ogni sette anni il nostro corpo si rigenera completamente, ogni singola cellula sparisce per lasciare posto a una nuova.


Voglio dire, svaniscono le cellule ma noi, rimaniamo “noi”, se ci pensi c’è da perderci la ragione. E’ come se fossimo fatti di qualcos’altro, come se ciò che ci portiamo dentro sopravvivesse agli atomi e al ciclo naturale della vita. E’ come se una parte di noi fosse fatta di qualcos’altro. Già, e allora mi sono messo lì a pensare, che ultimamente non mi capita spesso di farlo, pensare, intendo, mi sono messo lì a cercare di capire di cosa sono fatto, cercando di trovare la composizione molecolare che è resistita a tutti questi anni e ha continuato ad essere me.


Sono fatto della Lambretta di mio padre, che ogni tanto prendevo di nascosto anche se non la sapevo guidare.


Sono fatto degli abbracci di madre, non troppi a dire il vero, ma dati sempre nel momento più giusto.


Sono fatto di sabbia, acqua, salmastro, libeccio, sole, burrasche e qualche tormento. In una parola, sono fatto di mare.


Sono fatto delle sere passate in macchina con due amici, ascoltando i Nirvana dicendoci che era ancora tutto possibile.


Sono fatto di una settimana passata a fare l’artista di strada a Copenaghen, con la mia Ibanez e una tastiera con dietro un compagno di sventura.


Sono fatto di un paio di piazze, che urlavano giustizia, e io là in mezzo, con una maglietta, senza capire bene cosa stessimo facendo, ma ci piaceva molto farlo. Ci stavamo illudendo, saremmo stati traditi, ma allora non potevamo saperlo.


Sono fatto di lettere, ma proprio tante, che non ho mai avuto il coraggio di spedire, ma va bene così, rinunciare a qualcosa ci rende più consapevoli. O più ingenui, chissà.


Sono fatto di Marco Tardelli e degli occhi commossi di mio padre, perché sì ok, il 2006, ma nell’82…


Sono fatto di lei, arrivata improvvisa e rimasta con me. Non è sempre facile ma continuiamo a sceglierci ogni giorno. Ogni tanto allungo la mano e lei c’è. Questo è quello che so dell’amore.


Sono fatto di Marco, Simone, Cristiano, Samuele, sono fatto di Federico, di Mirko, di Carlo, di Roberta, di Claudia, di Gemma e di pochi altri che mi hanno lasciato qualcosa di loro. Che non mi lascerò sfuggire.


Sono fatto di treni, di tutti quei treni che guardavo partire e arrivare e sono fatto di volti, di tutti quei volti che si incontravano o si lasciavano allontanare.


Sono fatto di chilometri e di tutte le aurore che continuo a fotografare, ma anche di tutti i tramonti su strade veloci mentre sto riportando tutto a casa.


Sono fatto di accordi e di tutti i concerti, di casse e rullanti, di muri scavalcati senza biglietto. Sono fatto di viaggi improvvisati a Pavana per bere qualcosa con Francesco Guccini.


Sono fatto di Camilla, la mia Cinquecento avuta in regalo, fuori tempo, fuori moda, caricata all’impossibile. E di tutte le doppiette venute male che terza marcia non c’era più.


Sono fatto di cicatrici, cicatrici vere eh, ginocchio, caviglia, occhio, naso, parti di me andate in frantumi che qualcuno ha rattoppato. Che se raccoglievo tutti quei punti di sutura un tostapane lo avrei preso di sicuro.


Sono fatto dei libri che ho letto e delle frasi che ho rubato per stupire, delle persone che ho conosciuto e dei luoghi in cui sono stato, senza mai andarci veramente.


Sono fatto di giorni sprecati, una serie lunghissima di giorni sprecati. E di cose non fatte, di parole non dette, di tutti quei momenti messi lì a prendere polvere e basta.


Sono fatto di lei, di lei che è fatta un po’ di me, che ha i miei occhi ma uno sguardo tutto suo, che ha cambiato la mia prospettiva e che, senza il minimo sforzo, ogni giorno mi rende migliore. Come solo i gesti inspiegabili riescono a fare.


Forse sono queste le particelle di me che sopravvivono al naturale corso della vita, qualcosa che faccio fatica a comprendere ma che, nel bene o nel male, porterò per sempre con me.

Marta fa il libera tutti.

Marta sopravvive in una piazza vuota senza far rumore tra una pizzeria e un caffè,

lei ti guarda e ride quando la sua rabbia non riesce a contenerla dentro sé

un vestito rosso, scarpe senza tacco, labbra di cristallo le ginocchia al petto senza età,

e certe giornate si diverte a indovinare il destino di qualcuno che passa e che va,

Quello è un tipo strano, forse è innamorato e non si rassegna a scrivere sui muri frasi sovversive tipo tu sei mia

Marta che sospira, fuma una marlboro, butta fuori l’aria e la guarda andare via.

Se solo anche i ricordi, quelli spaventosi, fossero solubili in lacrime e bestemmie, o potessero affogare alla fine del bicchiere senza riaffiorare allora sì,

sì che si potrebbe respirare, correre e lasciarsi andare, senza la paura di cadere, avere soltanto l’urgenza di esserci.

Marta che cammina, stringe fra le mani, una birra media e la faccia di suo padre che le urla contro frasi scellerate con il pugno in aria già da un po’

Uno sulla schiena, uno sul costato, uno sulla bocca per provare in tutti i modi a cancellarle quel sorriso che si ostina a stare su,

Ma la paura del dolore non era mai abbastanza per farle dire “basta, io mi arrendo adesso, hai vinto tu”,

Marta porta addosso tutti i segni del passato, ma non sono quelli sulla pelle a fare male a farla smettere di respirare proprio no,

certe cicatrici non si fanno mai vedere, come vipere di bosco, escono di notte spargono veleno senza antidoto.

E non ti puoi salvare, non c’è un cazzo da fare, devi lasciarti torturare fino quasi a scomparire, finché non vanno via.

Che certi pensieri sono spaventosi, vivono in simbiosi come fossero due sposi il terrore e la follia.

Marta se ne andò, aveva sedici anni, si lasciò alle spalle, un uomo mostruoso e una madre che sapeva e non parlava, arresa ormai

E tutte le serate a sputare sangue per i pugni presi non avrebbero raggiunto il grado di dolore di quelle parole dette mai.

Marta si è salvata, forse non del tutto, ma ci sta provando a regalarsi il sogno di una vita presa contromano come certa musica,

lei ci sta provando, coi suoi occhi asciutti, a nascondersi dietro a un sospiro e fare “libera tutti” all’anima.

Marta è la nostra terza onda, quella che restituisce tutto, le immagini più belle, ricordi profumati, lenzuola stese al sole e brividi di sale,

lei si è rialzata dopo ogni caduta, perché Marta è sempre stata viva e non sopravvissuta.

Se Marta fosse una canzona sarebbe questa: L’anima non conta (Zen Circus)https://www.youtube.com/watch?v=TtLcvqCCXBI