Serenata alternativa

Una finestra che dà su una via secondaria, in strada c’è un ragazzetto seduto sul cofano dell’auto a guardare quei vetri, sta pensando qualcosa e lo sta facendo più forte che può:

“Nina affacciati che ti canto la serenata. Ok, magari la serenata no, ma ho scritto una cosa che parla di te. No, non è una poesia, non sono bravo con le rime, però ecco, forse è meglio se rimani a dormire, perché a parlare faccio casino con le frasi e di sicuro non riuscirei a farmi capire. Che quando apro bocca sento questo rumore che rimbomba nella testa, come se il cuore facesse di tutto per confondermi ancora di più. E allora dormi Nina che non ti perdi granché, però mentre scrivevo mi tremavano le mani, capirai, ho già una calligrafia di merda, immagina che scarabocchi ho fatto su questo foglio, ma la penna non si fermava, come se le parole avessero una loro volontà e non riuscissero più a trattenere l’urgenza di uscire. Dormi Nina, che se dormi trovo il coraggio di lasciarmi andare, come quando mi tuffo di testa nel mare agitato, senza pensare alle conseguenze, che quelli come me non sono pratici a parlare con qualcuno senza sentirsi un coglione. Se dormi non cambia niente e questo è un pensiero tremendo e rassicurante, lo so che sembra assurdo, ma se stai dormendo ti sento qui vicino e allora tutti questi pensieri strampalati prendono forma e sorrido. E scrivo.  

Dormi Nina e lasciami inciampare in questa cosa strana che sento nello stomaco, che non la so spiegare, mi logora e mi salva e un po’ lo capisco Troisi quando diceva “voglio solo soffrire bene”, dormi e lasciami sognare, che quest’anima incasinata non riesco a capirla, ma se mi siedo davanti a un foglio bianco sento qualcosa di leggero, come un nodo che si scioglie. 

Dormi, che le notti come queste sono infinite e proprio non ce la faccio a gestirla tutta questa agitazione, Nina non lo sai, ma c’è una band heavy metal nella mia testa, comunque è sempre meglio del reggaeton, lo so, però c’è questo tizio con la chitarra elettrica che proprio non la smette di rompermi i coglioni. Che palle, ma come fanno quelli che se ne fregano? Quelli che sentono qualcosa di strano, non dico un sentimento forte, solo un accenno di affetto, vanno lì e vuotano il sacco, così, senza pensarci, come se prendessero una tachipirina. 

Io invece sto qui fuori come uno stronzo, alle tre di notte, seduto sul cofano della macchina a girarmi questo foglio pieno di cazzate fra le mani. Oltretutto l’auto non so di chi sia e già me lo immagino domani il proprietario che vede l’impronta del mio culo sulla carrozzeria, sai quante maledizioni. 

Non lo so Nina, non lo so davvero come si fa a non complicarsi la vita, non lo so quanto deve indurirsi un cuore per lasciarci in pace. Ogni tanto penso che basterebbe mandare a fanculo la paura, l’imbarazzo, la vergogna e tutta quella compagnia di nobili stronzate, forse è così che si diventa uomini, sì, credo che sia così. Basterebbe diventare un po’ più impermeabili alle emozioni, un po’ più cinici, più sfrontati con quella spruzzata di figlio di puttana che non guasta mai. 

Penso che non finirò mai di farci i conti con questa vigliaccheria che mi strozza le parole in gola, ma credo che ci voglia anche un gran coraggio per rimanere nella penombra.

Dormi Nina, io ora torno a casa che qui c’è un’umidità che mi mangia vivo. Ho scritto una cosa per te ma non è niente di importante, magari te la lascio domani, comunque non ti perdi granché.”

IL VENTOFOLLE

Ci sarebbe da chiedersi dove vanno a finire certe cose e certe persone. Quelli che partono per andare, che ne so, in Australia, o in Irlanda, o in qualsiasi altra parte del mondo, che poi non tornano più, neanche per le feste comandate. Ecco, quelle persone lì, che fine fanno? L’avranno trovato ciò che stavano cercando? Magari si sono accontentate, non ci sarebbe niente di male nell’accontentarsi, nell’ammettere di aver chiesto troppo e accettare un premio minore. Ecco, mi piacerebbe che qualcuno di loro tornasse a dirmi com’è andata, roba di cinque minuti eh, giusto per sapere la fine della storia, tutto qui.

E i palloncini? Che fine fanno i palloncini che sfuggono dalle mani e salgono su? Me lo sono sempre chiesto, li guardo salire, sospinti da un vento strano, il “ventofolle”, che qui sulla terra manda le onde cattive e tira giù santi e tempeste, ma forse lassù, dove si fermano i palloncini sfuggiti alla presa, è più comprensivo. Li guardo allontanarsi, lasciandosi dietro le strade e le case e il mare, lo fanno senza esplodere e non è cosa da poco.

Ecco, magari quelli che sono andati in Australia, o in Irlanda o in qualsiasi altro dannato posto lontano da qui sono un po’ come quei palloncini, che non abbiamo saputo trattenere. Hanno lasciato tutto e si sono affidati al “ventofolle” delle decisioni improvvise, senza esplodere. E a noi non resta che rimare qui come stronzi a chiederci che fine avranno fatto. Pensandoci però va bene così, perché tutto ciò che non vediamo finire non muore mai.

Dicono tutti così.

DICONO TUTTI COSI’.

Sono cresciuto in una famiglia allargata, niente di particolarmente complicato, stavo in casa con i genitori e i nonni, negli anni settanta era normale. Figlio unico e nipote unico, coccolato abbondantemente e protetto eccessivamente.

In particolare mia nonna aveva questa sorta di senso smisurato di protezione verso l’ambiente esterno. Per esempio se andavamo a passeggio in centro e passavamo davanti a qualcuno che chiedeva l’elemosina mi diceva subito “Quel tizio ci ha lanciato una maledizione, fatti subito tre volte il segno della croce”. Cose così, che magari hanno contribuito a crearmi tutta una serie di micro-paure indotte, che a pensarci a mente fredda sono scemenze ma nel momento esatto in cui le vivo mi fanno rabbrividire.

La paura di dormire con i piedi scoperti, non per il freddo, no, ma perché qualcuno da sotto il letto potrebbe prendermi per le caviglie. – Ma qualcuno chi? – che ne so, qualcuno.

La paura di essere fermato dalla stradale senza documenti – Giuro che quando sono uscito ce li avevo – Sì certo, dicono tutti così

La paura di non rivedere i parenti stretti, ma anche la paura di vederli troppo spesso.

La paura di essere vanitoso, ma anche di essere troppo modesto – Sì, fa finta di sminuirsi ma in realtà se la tira abbestia. A falso!

La paura di parlare poco – sta sempre zitto, non gliene frega niente – o di parlare troppo – Oh, non si cheta un attimo, che palle.

La paura di svegliarmi insensibile, anzi peggio, interista!

La paura di arrivare alla cassa a pagare, dare 50 euro alla cassiera, lei li guarda e li passa nel verificatore di banconote. E vedi tutta la vita passarti davanti, in quel momento vorresti tornare bambino e darli al tizio che chiedeva l’elemosina quei 50 euro, pur di non farli passare nel verificatore di banconote. Guardi la tua banconota uscire lentissima da quella scatoletta infernale e alla fine arriva il temuto responso: è falsa! – No ma guardi ci deve essere un errore, li ho appena presi dal bancomat – Certo, dicono tutti così.

La paura di cambiare casa, macchina e mutande.

La paura di arrivare troppo in anticipo, o troppo in ritardo – dateci un’unità di misura accettabile, facciamo 5 minuti prima e cinque dopo? Ditecelo!

La paura di non farcela, mai. Di non essere all’altezza mai. Di combinare casini. Sempre.

La paura di sbagliare tre volte il pin del bancomat, del telefono, dello spid, dell’app immuni.

La paura di avere improvvisi vuoti di memoria….e anche di avere improvvisi vuoti di memoria.

La paura di essere fregati, sempre, costantemente.

La paura di passare sopra la grata dei tombini – metti cede, ci caschi dentro e vai giù, ma non dentro la fogna, no, finisci proprio al centro della Terra.

La paura di sbagliare a fare la differenziata – ok il vetro, la plastica, la carta, l’alluminio, ma il sughero? Dove cazzo va il sughero?

La paura di essere schiavi di qualcosa o di qualcuno, ma anche di essere troppo liberi – Dimmi cosa devo fare che è la prima volta e non so da che parte rifarmi.

La paura che si spenga il navigatore in aperta campagna, ma anche in qualche vicolo di Tor Bella Monaca

La paura di finire in ospedale e non essermi cambiato i calzini.

La paura di aprire l’ovino Kinder e non trovarci la sorpresa.

La paura di andare dal dentista, che quello si distragga e devitalizzi il dente sano. Ma anche che in un eccesso di rabbia spinga il ferretto troppo in altro e arrivi a danneggiare l’emisfero destro del cervello.

La paura di fare il bagno al largo e che uno squalo bianco mi divori – Perché è risaputo che a Livorno ci siano più squali che in Florida.

La paura di arrivare al telepass e non si alzi la sbarra – che poi devi fare marcia indietro e quello dietro suona e retrocede e quello dietro di lui suona e retrocede a sua volta e si innesca tutto un meccanismo che a un certo punto vedi uno davanti a te che fa retromarcia e pensi “che cazzo fa questo idiota?”. Niente, è l’ultimo della fila smisurata che hai creato te.

La paura che qualcuno ti chieda di scrivere un biglietto di auguri, di condoglianze, di felicitazioni… – te che sei scrittore…-

La paura che tuo figlio in quarta elementare ti chieda come si fanno le divisioni in colonna, o il participio passato di splendere.

La paura di salire sulla mia auto e trovarla diversa e dopo 20 chilometri capire che non è la mia auto. (storie di vita vissuta)

La paura di salire sull’autobus e perdere il biglietto – Dev’essere qui, l’ho appena timbrato, lo giuro – Sì sì, dicono tutti così.

La paura che arrivi la telefonata del call center e appena rispondi “si” ti attivino una promozione. e allora la conversazione è più o meno così: “Parlo con il signor Francesco?” – “Esattamente” – “abita in provincia di Livorno?” – “Confermo” – “Ha una linea telefonica attiva?” – “Se lo dice lei…”

La paura di prenotare un fine settimana su Booking senza la cancellazione gratuita – metti che a metà strada ci ripenso?

La paura di andare in farmacia e chiedere un’aspirina – in bustina o effervescente? Da 1000 o 5000 milligrammi? Vuole l’originale o l’equivalente? – Ma che ne so, basta che non sia in supposte e poi va bene tutto.

La paura di andare in un bagno pubblico e sedersi sulla ciambella del water. – E ti ritrovi a fare acrobazie che neanche Jury Chechi alle olimpiadi del 2000.

La paura di essere troppo felice – che quando va tutto bene è il momento che arriva la batosta fra capo e collo.

Forse sono tutti questi piccoli spaventi quotidiani, queste cose di poco valore, che si accumulano e scavano tutte insieme, fino a creare un buco nero al centro del torace che ci spalanca a paure più grandi. E allora ci troviamo ad aver paura dei diversi, di quelli che amano chi vogliono, come vogliono, paura di chi non si allinea, di chi viene da lontano, di chi prega un dio diverso dal nostro. Abbiamo paura di chi si ribella e di chi ha più successo di noi, specialmente se a farlo è una donna.

– Ma figurati, io non sono così, io sono per l’accoglienza e per l’uguaglianza dei diritti di tutte le persone– Certo, dicono tutti così.

UNA BAMBINA ALLA FINE DEL MARE

Ti guardo di sfuggita mentre dormi, con quel tuo profilo fatto di attese e giorni che verranno e il respiro impetuoso di tempeste in mare aperto. Ti guardo e provo a immaginare la donna che sarai, sapendo che farai la tua strada e non potrò fare altro che augurarti di trovare ciò che stai cercando.

Posso solo dirti che per fortuna non è tutto pianificato, che ci saranno sempre piccoli dettagli pronti a sfuggire al normale corso degli eventi e sono quelli che  ti renderanno unica. Sarai tu a guidare, ma spero che lungo il viaggio possa imbatterti in qualcosa e qualcuno ti faccia distogliere un attimo lo sguardo dalla strada.

Ti auguro di incontrare qualcuno che ti faccia ballare e ogni ballo sia un grande amore, non importa che sia un tango o un valzer da balera, l’importante è che la testa stia girando. E chi se ne frega se non vai a tempo. Improvvisa, inventa tu i passi e pazienza se poi finirà la musica e ti sentirai morire. Certi balli vanno affrontati senza pensarci troppo su.

Ti auguro  di incontrare qualcuno che ha rubato un libro di poesie, qualcuno che scrive pensieri su fogli di carta, che usa la chitarra come una spada. Un rivoluzionario, un illuso, un disattento, qualcuno che si dimentica ciò che deve fare, che perde le chiavi di casa, che si ferma all’improvviso e scatta una foto. Qualcuno che parla poco e profuma di sogni.

Ti auguro di avere un’amica matta, una di quelle che bussa alla porta alle tre di notte e ti trascina fuori a sentire il silenzio che c’è. Una di quelle amiche che parla svelta e muove le mani, piena di “cazzo che casino”, e di “ce la faremo, fidati”. Quella che ti manda a fanculo e ti abbraccia forte, sempre di corsa, come se l’aria non fosse mai abbastanza. Quella delle canzoni a squarciagola lungo strade polverose a prendere la vita di petto.  

Ti auguro di inseguire progetti fuori tempo, quelli in cui credi solo tu, che te ne freghi e vai avanti nonostante le cantonate prese. Ti auguro un viaggio nella piazza a Marrakech, rumorosa e profumata come solo certe piazze sanno essere. Ti auguro la Londra di Canary Wharf, quella di acciaio e vetri alti, ma anche quella di Hammersmith, fatta di Tamigi e batticuore. Ti auguro Istanbul e Lisbona, Lubiana e Notre Dame e Barcellona e Dublino e tutti i luoghi che non lascerai mai più riportando tutto a casa.

Ti auguro di sbagliare, di sentirti perduta, e di avere qualcuno vicino che ti dica “ce la faremo”. Ti auguro di essere la donna che vorresti diventare, imperfetta e libera, onesta, insicura e splendente, allegra, malinconica e spensierata. Felice. Spudoratamente felice.

Provo a immaginare la donna che sarai, ma tu non farci caso, rimani ancora un po’ quella bambina alla fine del mare. Dormi amore, la situazione non è buona.

Privata, libera o Molise?

Ormai siamo ripartiti, sono riaperti i ristoranti, i parchi, i locali e sono riaperte anche le spiagge.
Quindi possiamo andare al mare, anzi, dobbiamo andare al mare. Soprattutto noi che abitiamo sulla costa. Sì, perché se vivi a meno di due chilometri dalla spiaggia e non sei abbronzato la gente non te lo perdona.

«Fammi capire, abiti al mare e sei bianco come un cencio? Noi spendiamo un sacco di soldi per venire lì e te che ci vivi non vai?, ma sei impazzito?», In pratica ogni tanto vado in spiaggia solo per non farli incazzare.

Già, in spiaggia. Nell’immaginario collettivo le spiagge sono una sequenza ordinata di ombrelloni, sdraio e cabine, che ogni cinquanta metri cambiano colore. Ogni stabilimento ha il suo, come le squadre di calcio e come sul campo di gioco ci sono delle regole da rispettare: niente partitelle a pallone sulla battigia, niente racchettoni o roba simile, tu hai il tuo spazio e io ho il mio e se metti lo zaino sotto l’ombra del mio ombrellone chiamo il bagnino. Già, il bagnino. Ogni stabilimento ne ha uno e ti senti protetto e se fai una cazzata lui fischia, come un arbitro (o un vigile urbano). Ma sai che puoi fare il bagno tranquillamente perché ci sarà sempre lui che si prenderà cura della tua incolumità. Tipo un family banker.

E poi c’è il ristorante e il bar e anche la sala giochi. Che quando sei scalzo e mezzo bagnato e metti la moneta nella gettoniera del flipper prendi uno schiaffo di corrente elettrica che brilli tutto il giorno come una supernova. E alle cinque sfornano bomboloni e focacce calde. Pensano a tutto loro, il bancone del bar trabocca di bibite, granite, frappé, il frigo dei gelati è pieno come un uovo.

Ok, un ombrellone e due sdraio ti costano quanto un vestito di Armani, ma vuoi mettere la comodità?

Già, la comodità. La comodità è fatta per i forestieri, noi indigeni lo sappiamo che la vera essenza del mare si trova solo nelle spiagge libere. Noi siamo un po’ selvaggi e un po’ selvatici.

La giornata tipo di una famiglia che si gode la spiaggia libera in una tranquilla domenica estiva si svolge pressappoco così:

il nonno esce di casa alle cinque di mattina, in bicicletta e con l’ombrellone sotto all’ascella, tipo i francesi con la baguette. Va a prendere il posto. E’ stabilito che lo faccia lui perché gli anziani, si sa, dormono poco e si svegliano presto. La nonna invece è già in cucina a mescolare la besciamella e a far bollire la carne per il ragù. Probabilmente ha passato l’intera nottata a preparare e alle prime luci dell’alba tutta la casa è impregnata da un odore di soffritto che sembra di stare alla trattoria “Non solo aglio”.

Il marito si alza dal letto, va in cucina e guarda la suocera ai fornelli, poi guarda il cane che lo fissa come a dire “per fortuna che io sono castrato”. Arriva anche la moglie che non finisce più di ringraziare la madre per tutto ciò che sta facendo, per aver passato la notte a cucinare e per aver saldato anche questo mese la rata del mutuo.

Sulla tavola ci sono talmente tante cose da mangiare che basterebbero a risolvere il problema della carestia nel Burkina Faso. Il marito guarda con disperazione tutti quei vassoi perché già sa che dovrà metterli tutti nelle ventisette borse frigo, ma soprattutto sa che sarà lui a trasportarle in spalla per tutti i quindici chilometri che separano il parcheggio dell’auto dalla spiaggia. In pratica, casa sua è più vicina al mare rispetto al parcheggiò libero che troverà. A pensarci, converrebbe andare a piedi. Lo propone, ma le due donne gli si rivoltano contro come un mastino napoletano quando vede un gatto siamese.

«Ma cosa dici? Arrivi vicino al mare con la macchina, noi scendiamo e te vai a cercare parcheggio. Così è più comodo, no?», certo, per loro è sicuramente più comodo.

Alla fine si sveglia anche il figlio di cinque anni ed escono tutti di casa. Il marito lascia le due donne vicino alla spiaggia e poi va a cercare un posto. Lo trova settecento metri dopo il confine con il Molise, si carica tutte le borse sulle spalle e si incammina verso il mare. Durante il tragitto cade tre volte, come Gesù sulla via Crucis, ma c’è sempre qualcuno che grida “non lo aiutate altrimenti è squalificato”, tipo Dorando Pietri alle olimpiadi di Londra.

Arriva alla spiaggia e la suocera lo cazzia perché ha impiegato un’infinità di tempo e si saranno freddate le lasagne e la peperonata.

La spiaggia è un frastuono assordante di voci, radio a tutto volume, tornei di calcio fiorentino sul bagnasciuga con tanto di scazzottata finale. Mentre tutti iniziano a mangiare al marito arriva una pallonata sul piatto di cozze. La moglie e la suocera lo guardano come si guarda un bimbo che fa le bizze e gli cade il gelato. “Ti sta bene! E non frignare che tanto non te lo ricompro”.

Il figlio nel frattempo è andato a fare il bagno, il nonno è un po’ preoccupato:
«Ha mangiato dodici salsicce non gli farà male buttarsi in acqua?», la nonna risponde subito.
«Ma cosa dici? Se fa subito il bagno non succede niente, l’importante è non farlo durante la digestione», che ricorda tanto il comandante del Titanic quando diceva “è tutto sotto controllo”.

Il marito si sdraia collassato al sole delle tredici e trenta, con settecento gradi fahrenheit. In dodici secondi passano nell’ordine: un venditore di occhiali, un venditore di libri (tutti scritti da lui), un venditore di coccobello, un tatuatore, un venditore di tappeti, una improbabile estetista che fa le treccine. La moglie si gira e guarda il marito.
«Dai, fatti fare le treccine così poi le dai i soldi, magari ha bisogno, sembra proprio una brava persona. Avrà dei figli».
«Ma sinceramente non mi sembra il caso», risponde lui cercando di sorridere.
«Lo vedi come sei? Il solito egoista, che ti costa, è per una buona causa», insiste.
«Ma sono pelato, anche volendo non potrei farlo», dice lui cercando l’approvazione dell’estetista. Lei due donne si lanciano sguardi complici.
«Lo scusi signorina, è un insensibile» sentenzia la moglie, trovando immediatamente la solidarietà dell’improbabile estetista.

La giornata passa fra secchiate d’acqua, olio solare della friggitoria “il paradiso dei trigliceridi” e ustioni di terzo grado su tutta la schiena, che quando la suocera tocca la spalla del marito per dirgli che è ora di andare, lui si volta di scatto e prova ad azionare il pulsante dell’ammazza la vecchia Beghelli.

Il nonno torna a casa con la bicicletta e l’ombrellone sotto al braccio, la moglie, la suocera e il figlio rimangono ad aspettare il ritorno del marito dal Molise. Hanno tutti la pelle incartapecorita dal salmastro e dal sole, con le lasagne avanzate fanno una donazione a Save the children, con il colesterolo accumulato invece ci pagheranno la villa alle Maldive del cardiologo di fiducia.

Alla fine rientrano tutti a casa, sudati, sfatti e con un paio d’anni in meno da campare. L’unico davvero rilassato è il cane che li guarda come a dire “la cosa bella di essere castrato è che nessuno ti può rompere le palle”.

Comunque, non voglio influenzarvi nella scelta, se siete dei tipi che amano il comfort e la tranquillità lo stabilimento balneare è il vostro mondo. Se invece siete persone a caccia di avventura ed emozioni forti tuffatevi nella spiaggia libera. Se invece siete poveri mettiamoci d’accordo, si fa una macchina sola che in Molise i parcheggi iniziano a scarseggiare.

Ingredienti sparsi.

Sembra scientificamente provato che ogni sette anni il nostro corpo si rigenera completamente, ogni singola cellula sparisce per lasciare posto a una nuova.


Voglio dire, svaniscono le cellule ma noi, rimaniamo “noi”, se ci pensi c’è da perderci la ragione. E’ come se fossimo fatti di qualcos’altro, come se ciò che ci portiamo dentro sopravvivesse agli atomi e al ciclo naturale della vita. E’ come se una parte di noi fosse fatta di qualcos’altro. Già, e allora mi sono messo lì a pensare, che ultimamente non mi capita spesso di farlo, pensare, intendo, mi sono messo lì a cercare di capire di cosa sono fatto, cercando di trovare la composizione molecolare che è resistita a tutti questi anni e ha continuato ad essere me.


Sono fatto della Lambretta di mio padre, che ogni tanto prendevo di nascosto anche se non la sapevo guidare.


Sono fatto degli abbracci di madre, non troppi a dire il vero, ma dati sempre nel momento più giusto.


Sono fatto di sabbia, acqua, salmastro, libeccio, sole, burrasche e qualche tormento. In una parola, sono fatto di mare.


Sono fatto delle sere passate in macchina con due amici, ascoltando i Nirvana dicendoci che era ancora tutto possibile.


Sono fatto di una settimana passata a fare l’artista di strada a Copenaghen, con la mia Ibanez e una tastiera con dietro un compagno di sventura.


Sono fatto di un paio di piazze, che urlavano giustizia, e io là in mezzo, con una maglietta, senza capire bene cosa stessimo facendo, ma ci piaceva molto farlo. Ci stavamo illudendo, saremmo stati traditi, ma allora non potevamo saperlo.


Sono fatto di lettere, ma proprio tante, che non ho mai avuto il coraggio di spedire, ma va bene così, rinunciare a qualcosa ci rende più consapevoli. O più ingenui, chissà.


Sono fatto di Marco Tardelli e degli occhi commossi di mio padre, perché sì ok, il 2006, ma nell’82…


Sono fatto di lei, arrivata improvvisa e rimasta con me. Non è sempre facile ma continuiamo a sceglierci ogni giorno. Ogni tanto allungo la mano e lei c’è. Questo è quello che so dell’amore.


Sono fatto di Marco, Simone, Cristiano, Samuele, sono fatto di Federico, di Mirko, di Carlo, di Roberta, di Claudia, di Gemma e di pochi altri che mi hanno lasciato qualcosa di loro. Che non mi lascerò sfuggire.


Sono fatto di treni, di tutti quei treni che guardavo partire e arrivare e sono fatto di volti, di tutti quei volti che si incontravano o si lasciavano allontanare.


Sono fatto di chilometri e di tutte le aurore che continuo a fotografare, ma anche di tutti i tramonti su strade veloci mentre sto riportando tutto a casa.


Sono fatto di accordi e di tutti i concerti, di casse e rullanti, di muri scavalcati senza biglietto. Sono fatto di viaggi improvvisati a Pavana per bere qualcosa con Francesco Guccini.


Sono fatto di Camilla, la mia Cinquecento avuta in regalo, fuori tempo, fuori moda, caricata all’impossibile. E di tutte le doppiette venute male che terza marcia non c’era più.


Sono fatto di cicatrici, cicatrici vere eh, ginocchio, caviglia, occhio, naso, parti di me andate in frantumi che qualcuno ha rattoppato. Che se raccoglievo tutti quei punti di sutura un tostapane lo avrei preso di sicuro.


Sono fatto dei libri che ho letto e delle frasi che ho rubato per stupire, delle persone che ho conosciuto e dei luoghi in cui sono stato, senza mai andarci veramente.


Sono fatto di giorni sprecati, una serie lunghissima di giorni sprecati. E di cose non fatte, di parole non dette, di tutti quei momenti messi lì a prendere polvere e basta.


Sono fatto di lei, di lei che è fatta un po’ di me, che ha i miei occhi ma uno sguardo tutto suo, che ha cambiato la mia prospettiva e che, senza il minimo sforzo, ogni giorno mi rende migliore. Come solo i gesti inspiegabili riescono a fare.


Forse sono queste le particelle di me che sopravvivono al naturale corso della vita, qualcosa che faccio fatica a comprendere ma che, nel bene o nel male, porterò per sempre con me.

LA RAGAZZA DEL PIRATA.

L’estate è di gran lunga la stagione che mi piace meno. Gli amici del mio quartiere se ne vanno tutti al mare e i compagni di scuola, anche loro vanno al mare. Io ne farei volentieri a meno, cioè, il mare mi piace, ma fa troppo caldo e poi mi rimane il segno bianco degli occhiali sul viso. Ma la cosa che proprio mi fa vergognare di più sono i miei costumi. Ogni anno la mamma me ne compra un paio nuovi, ma sono troppo colorati, mi si nota da tutta la spiaggia, come l’insegna del bar Marilena quando c’è la festa del quartiere. Io invece vorrei essere guardata il meno possibile, perché ogni volta che qualcuno mi vede o mi parla fa sempre quell’espressione come a dire “poverina”, che alla fine non lo dice mai, ma ce l’ha scritto in faccia e si vede benissimo. Come l’insegna del bar Marilena. La mamma dice che quei colori mi illuminano il viso, io vorrei dirle che così mi si nota di più il segno bianco degli occhiali, ma mi limito a sorridere alla meglio e fare di sì con la testa.

Sono Maria e ho sette anni, ma sembro un po’ più piccola dei ragazzini della mia età. La mamma dice che è questione di tempo, che anche sua sorella, la zia Antonella, era bassina ma ora è una stangona. E io le credo, anche se quando lo dice la sua voce si incrina un po’ e lo sguardo è meno croccante. Faccio visite da quando sono nata, un dottore dopo l’altro, come quando sei sul treno e vedi passare le stazioni dal finestrino e ti fermi giusto il tempo per fare pipì e ripartire subito senza che sia cambiato niente e non vedi l’ora di scendere davvero e goderti la vita oltre la stazione.

Pare che io abbia una malattia che chiamano “sindrome” legata a un cromosoma, roba complicata, però io non mi fido mica tanto di questi dottori, perché non mi sembra di essere malata, io sto benissimo. Sì ok, leggo lentamente e sbaglio spesso le parole, ma lo fa anche nonno Michele che ha ottantasette anni e non mi pare che faccia tutte queste visite. Anche se dicono che lui ha il “morbo” e quando lo dicono allargano tutti le braccia rassegnati. Forse lo hanno fatto scendere a forza dal treno in una stazione che non era la sua e ora si guarda intorno in cerca di un passaggio, che forse non arriverà mai.

Alla fine mi rassegno e parto per la spiaggia, anche perché a Livorno se d’estate non vai al mare finisci per passare le giornate dentro casa e come dice nonno Michele mentre cammina dalla cucina alla sala cercando l’uscita della sua stazione, «a stare in casa ti incattivisci». E appena finisce la frase piscia al termosifone convinto che sia la statua della Libertà. Perché dice sempre che «gli americani non capiscono un cazzo», ma non si ricorda il motivo.

Mi piace venire al mare qui, in mezzo a tutta questa gente con nomi importanti. Sembra di stare a Hollywood. La mamma dice che se fossi nata in America avrei fatto sicuramente l’attrice. Magari quando sarò alta come zia Antonella ci farò un pensierino, per il momento cerco di imparare a parlare bene, perché non si è mai vista un’attrice che inciampa sulle parole, traballa, e alla fine si scapicolla.

Ogni giorno alle sedici in punto vado a fare la fila al bar, per prendere un ghiacciolo alla fragola. La mamma dice che con questo caldo c’è bisogno di qualcosa di rinfrescante, e ogni giorno, sempre, cascasse il mondo, mi viene incontro Samuel, il barista. Lui è alto, la barba disegnata bene e i capelli raccolti in una coda. Sembra un pirata con quegli anelli e gli orecchini. Un pirata che profuma di buono. A lui non interessa se sono bassa, se ho il segno degli occhiali, lui non ha l’insegna del Bar Marilena dentro allo sguardo, o se ce l’ha la tiene spenta. Ogni giorno si avvicina, ha un tatuaggio di Che Guevara sul braccio destro e lo stemma del Livorno Calcio su quello sinistro. Io non lo conosco questo signore Che Guevara, ma pare che qui sia amico di tutti. Mi solleva, bacino sul collo e poi mi dice:

«Te oggi sei la mia ragazza, se ti azzardi a farmi le corna ti stacco le braccine, intesi?». Ogni giorno. Cascasse il mondo.

Io non glielo dico che mi piace Iuri di terza F, non vorrei che ci rimanesse male. Però un po’ mi fa piacere essere la ragazza del pirata.

Magari quando sarò alta come zia Antonella mi farò invitare a cena fuori. Perché certe occasioni vanno prese al volo, alla faccia di tutte le sindromi e di tutti i cromosomi.

TECICENI

Per noi che abitiamo in provincia fare un giro a Livorno è sempre un’occasione per imparare cose nuove e nuovi modi di dire che sono un riassunto perfetto delle dinamiche quotidiane della vita. In una frase viene rappresentato un intero universo di situazioni e, perché no, di umane sofferenze. Tipo “Alli zoppi pedate nelli stinchi” oppure “chi lavora e si strapazza…malidetta la su’ razza”. Ma anche espressioni che fotografano la vita familiare, di solito quella degli altri. Tipo “C’ha più corna lui d’un cesto di chiocciolini” (che sono le lumache col guscio piccoline) oppure “se le maiale volassero a tu’ ma’ darebbero da mangia’ con la fionda” (ecco, questa se non la capite è meglio).

Quindi Livorno insegna, non c’è niente da fare, anzi, sarebbe opportuno visitarla con un blocchetto e una penna per poter prendere appunti. Ma Livorno è soprattutto una città di mare, con la passeggiata, la scogliera, le isole all’orizzonte e gli stabilimenti balneari. La spiaggia del lungomare è un susseguirsi di ombrelloni e sdraio disposti con geometrica perfezione. Per gli stabilimenti vale la stessa regola delle città: quelli all’inizio e alla fine della spiaggia sono le periferie, quelli in mezzo sono i quartieri “buoni”. E nelle periferie, si sa, c’è la vita vera.

Mi è capitato di essere ospite di uno di questi stabilimenti di periferia, ma non uno qualunque, no, proprio il primo in assoluto. In pratica ho preso il sole al Quarto Oggiaro degli stabilimenti livornesi. Trovarlo è facile, due passi dopo la statua di Bud Spencer, non puoi sbagliare. Ecco lì c’è tutta la vera Livorno. E la più altra concentrazione di “teciceni”.

I veri livornesi, quelli con il bollino D.O.C.G. iniziano ad andare al mare intorno al 26 febbraio. In quella occasione si portano il tavolino da pic-nic e lo incatenano all’ombrellone. Lo lasceranno lì fino al 25 febbraio prossimo. In pratica entro la prima settimana di marzo il 98 percento della spiaggia è già occupata, da quel momento chiunque arriverà sulla spiaggia farà alcune semplici mosse. Si guarderà intorno, si avvicinerà con il tavolo da pic-nic in mano e la borsa frigo sulla spalla a un ombrellone occupato ed esporrà una semplice domanda alla persona sulla sdraio: «Te ci ceni?ۛ». Più che una domanda è una supplica, tipo “ti prego, sono le sette di mattina, dimmi che fra dodici ore te ne vai. Guarda, ti offro io una pizza, ma non rimanere a cena qui”.

Lo scopo della domanda è sapere se si libera il posto entro un’ora decente. Come quelli che stanno tredici ore a girare nel parcheggio dei Gigli di Campi Bisenzio in attesa che qualcuno se ne vada. Il “teciceni” è una vera e propria forma di saluto, più di “ciao”, di “piacere”, è qualcosa che ha a che fare con l’educazione «che antipatico, non mi ha detto neanche teciceni», oppure «era una persona tanto buona, diceva sempre teciceni».

Anche i bambini lo usano per fare conoscenza, è il sistema perfetto per rompere il ghiaccio. Capita così di vedere un ragazzino timido che guarda il vicino di ombrellone giocare con la paletta e il secchiello, due solitudini che si cercano. La mamma del timido gli sussurra all’orecchio «Perché non vai a conoscerlo?», con il tono più amorevole del mondo. «Mamma, mi vergogno, che gli dico?», risponde il figlio stringendosi nelle spalle. «Che ne so. Vai da lui, gli dici teciceni e iniziate a giocare insieme», perché l’educazione prima di tutto.

E’ una vera e propria forma di rispetto, che viene insegnata fin dalla prima infanzia. Avete presente quando da bambini camminavamo in mezzo al babbo e alla mamma e incontravamo una loro conoscente? Ecco, qui è uguale. C’è sempre uno dei due genitori che dice al bambino «Su, Igor, dì teciceni alla signora».

Già, i nomi. La posizione degli stabilimenti e i nomi dei bagnanti sono strettamente legati. Qui, nella estrema periferia balneare possiamo avere la conferma di questo ineluttabile assioma cartesiano. Quelli maschili spaziano da: Igor, Iuri, Chevin, Maicol e Attias (che probabilmente è il nome della piazza dove è stato concepito il bambino), tutti, rigorosamente, scritti come si pronunciano. Per le ragazze i nomi variano in base alle soap opera preferite dalle mamme: Bruc (presumo quella di “biutiful”), Sciana (quando si ama), Sciaron e Suellen (moglie di Geiar in Dallas. Ma che ne sanno i “millennials” degli sceneggiati, quelli belli).

I genitori sono abbronzantissimi e tutti, rigorosamente ricoperti da tatuaggi, roba che Fedez scansati proprio. I soggetti disegnati sulla pelle sono per il novanta percento a sfondo politico. Il Che, Fidel Castro con il Che, il Che con la bandiera del Livorno, il che con la falce e il martello e la scritta “Pisamerda” sulla maglietta del Che. E’ un tripudio assoluto di “boia dé, Rivombrosa esci dall’acqua che ti spuntano le branchie. E’ arrivata Donna, vai a dargli il teciceni”.

E allora li vedi arrivare da lontano, il babbo con la borsa frigo a tracolla, che da queste parti chiamano “ghiacciaina” e il tavolo da pic-nic nell’altra, la madre che cammina un passo dietro ai figli Igor e Sciaron. Avanzano a mani giunte, tranne il padre che sta cedendo sotto il peso della ghiacciaina e gli occhi rivolti verso il cielo in segno di supplica. Sono i nuovi discepoli, i templari del tecicenismo.

Le ragazze degli anni novanta.

Avresti dovuto vederle le ragazze degli anni novanta,

che fumavano sotto le stelle con Dolores O’ Riordan che canta,

di frasi d’amore riempivano il diario,

Come una Alice qualunque che si innamora di Mario

E scriveva i “per sempre” sulla Smemoranda

Avresti dovuto vederle le ragazze degli anni novanta.

Poco più di vent’anni e il duemila alle porte,

ma il futuro è un bugiardo con le gambe un po’ corte,

poco più di vent’anni e qualche pena d’amore,

ma certe notti era bello aver mal di cuore,

con i sospiri intrecciati in fondo a una Panda,

Avresti dovuto vederle le ragazze degli anni novanta.

In quel posto segreto, quello del primo bacio,

rimanevi in attesa come un gatto randagio,

arrivava improvvisa bella come un temporale

e ti sentivi un po’ dio quando guarda il suo mare.

era la risposta perfetta a ogni domanda.

Avresti dovuto vederle le ragazze degli anni novanta.

Ne è passato di tempo e son cambiate le facce,

di Alice e di Mario si son perse le tracce.

Lei si è fatta ingannare da un amore bugiardo,

lui si trascina la vita e ha spento lo sguardo,

ma ogni tanto alla radio c’è Dolores che canta.

Non si sono mai arrese le ragazze degli anni novanta.

Alcune hanno un uomo a cui far promesse

altre hanno figli e diverse scommesse

spesso i sogni e la vita fan fatica a coincidere

ma loro fanno spallucce si ostinano a ridere

Hanno un lampo negli occhi che nessuno comanda.

Le riconosci tra mille, le ragazze degli anni novanta.

Adesso son donne con il basco e lo scudo,

soldatesse in tailluer con lo sguardo sicuro,

ma si accendono ancora quando si apre il sipario

e ripensano al posto, quello del primo bacio.

il cuore ha un sussulto e il respiro si incanta.

Sanno amare davvero, le ragazze degli anni novanta.

Limbes. (parte 1 di boh)

Questo è una parte di un qualcosa a cui non riesco a dare un senso logico, ma che comunque ha il diritto di prendere aria. Forse ci saranno altre parti, forse no, lasciamo fare al caso.

Chi arriva a Limbes si ritrova davanti a questo lago che si illude di essere mare, acqua che travisa lo sguardo dei passanti, nascondendo alla vista gli argini della riva opposta. Un tappeto liquido che porta con sé una nebbia complice. Il mago e l’assistente, imprescindibili l’uno dall’altra. È questo che fa il presuntuoso lago, ammalia le menti, offuscandone la percezione, come una donna che sfuma il perimetro della pelle con abiti morbidi nel tentativo di regalarsi un profilo migliore.

Le persone giungo qui attraversando il lago, si materializzano lentamente, oltre i rovi della nebbia. Sono un punto in lontananza che, col passare dei minuti, prende la forma di una barca. Arrivavano remando. Tutti. Come se dall’altra parte non esistessero barche a motore. Hanno lo sguardo fisso davanti a loro, mentre affogano i remi nel lago facendoli riemergere prima che sia troppo tardi. Poi rimettono i legni di nuovo in acqua e poi in aria. In un eterno equilibrio fra la vita e la morte.

Quelli che arrivano qui hanno una luce. Tutti. Fosse anche solo una candela, una lampada a olio o chissà quale altra diavoleria che a contatto con la foschia si trasforma in un alone biancastro. Li vedi in lontananza, con questa idea di faro messa sulla prua, sembrano anime sfuggite a un castigo, e forse lo sono. Forse quel castigo se lo portano dentro. Appena toccano terra la loro luce svanisce, come a sancire la fine di un viaggio che non ha più bisogno di schiarite.

Era quasi l’inizio di un nuovo autunno quando Piero giunse a Limbes, più che un paese, uno sputo di mondo. Uno di quei luoghi che molti chiamerebbero frazione, come a sottolinearne l’inferiorità. In posti come questo la vita segue logiche alternative, chi vive qui non si fa troppe domande su ciò che accade, qui le persone si limitano a prendere atto, adeguandosi al naturale svolgimento degli eventi. Limbes è una frazione, così come lo sono le emozioni rispetto a un amore, un posto piccolissimo con l’infinito del mondo a disegnarne i confini. Tutti quelli che sbarcavano qui cercavano qualcosa, Piero giunse in cerca di un perdono.

Arrivò come arrivavano tutti gli altri, su di una barca a remi, ma non aveva nessun tipo di luce sulla prua, niente lampade, niente candele, niente di niente. Solo lui e la sua barca. E un pianoforte sopra. Un pianoforte a mezza coda, nero, come se ne vedono pochi in giro. Linee morbide, suono leggermente graffiato, in altre parole un connubio perfetto di legno, corde e bestemmie. Come diavolo fosse riuscito a trascinarlo fin qui senza far affondare la barca rimane un mistero. Gli abitanti di Limbes si limitarono a prenderne atto.

Scese dalla sua barca trascinando a fatica il pianoforte sulla terraferma, tornò a prendere lo sgabello e si sedette davanti al suo strumento, poi con lo sguardo perso chissà dove appoggiò le dita sui tasti bianchi e neri. L’intenzione di iniziare a suonare non lo sfiorò neanche per un attimo.

Piero Giuliani trascorreva le giornate sulla spiaggia, con quel lago a fare da sentinella, seduto al suo pianoforte. Applicava un rituale consolidato: lasciava cadere la giacca delicatamente, arrotolando le maniche della camicia appena sotto al gomito e si sgranchiva le mani. Gesti  precisi, armoniosi e impeccabili. Posava le dita sui tasti, senza affondare il colpo. E apriva gli occhi, rimaneva così fino alla fine del giorno, senza suonare neanche una nota. Con lo sguardo teso verso un qualcosa che vedeva solo lui, oltre la spiaggia, oltre il sipario di nebbia. Oltre ogni cosa visibile. Se qualcuno avesse avuto il coraggio di domandargli cosa stesse guardando, lui avrebbe risposto perentorio – Il mare aperto –.  Lo avrebbe detto come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

Guardando quell’immagine dalla strada si aveva la sensazione di trovarsi di fronte a un quadro, uno di quelli appoggiati momentaneamente in un angolo, tra il pavimento e la parete, che interrompono le linee ordinate della stanza . Era la visione di un pianoforte a mezza cosa in attesa che il suo condottiero si decidesse a prendere le briglie per iniziare una cavalcata a perdifiato. Quella meraviglia di strumento era un alveare che racchiudeva uno sciame di note, pungenti e smaniose, che proprio non ne volevano sapere di rimanere chiuse in quella prigione di corde e legno. Si dimenavano, sbattevano contro le pareti, alcune perfino imploravano l’uomo seduto di fronte a loro di renderle libere. Lui non le guardava neanche, teneva lo sguardo teso verso d  solo sa cosa, avvicinava le dita a quel tappeto di tasti, senza sfiorarli. Con movimenti impercettibili faceva salire quelle note su per le mani, lungo le braccia, le lasciava confluire al centro del torace, su per il collo, in mezzo alla gola. Un tumulto di suoni armoniosi, graffianti, come quando non c’è via di scampo; ma anche ballate dolci, di quelle che ti profumano i pensieri , notturni leggeri, capaci di prenderti per mano e portarti a spasso per i tuoi sogni. Tutta quella musica, silenziosa e testarda arrivava alla sua mente, fermandosi al centro di un’emozione. E moriva.

Dal pianoforte non usciva nessuna melodia,  ma in realtà Piero Giuliani stava suonando. Perché ognuno suona la propria musica, che  lo voglia o no e nella mente di Piero si affollavano armonie composte molti anni prima, suoni che lo tormentavano, odori che diventano nodi irrisolti. Insieme ai suoni arrivavano immagini, perché è questo il meccanismo diabolico dei ricordi. Vedeva una sposa innamorata e sognante, una bambina intenta a raccogliersi i capelli in una treccia, ma vedeva anche le liti furibonde, quella donna in una camera bianca d’ospedale, quella bambina che non riusciva a capire la forza devastante di certe malattie della mente. In mezzo a tutto questo c’era la musica, pronta a curare i patimenti creandone di nuovi, l’antidoto e il veleno. Piero Giuliani non riusciva a fare a meno di quella dolcissima ossessione. In qualche modo salire su un palco e iniziare a suonare era la sua salvezza e allo stesso tempo la sua condanna.

Guardando quell’immagine dalla strada si aveva la sensazione di trovarsi di fronte a un uomo che guardava lontano in cerca di un’ispirazione, in realtà Piero Giuliani stava seduto sulla riva del lago in attesa di un perdono.