Il profumo di Marta.

Marta non esiste, però profuma di vita.

No, Marta non esiste, ma se esistesse avrebbe 24 anni, magari da vent’anni. E inizierebbe a fregarsene di un po’ di cose, delle apparenze, dei discorsi bisbigliati, degli sguardi posati sui suoi vestiti a fiori, dei commenti scovenienti. Se ne frega e passa oltre, che lei ormai la vita non la prende più sul serio.

Marta ha mollato, si, ha mollato un po’ di angosce, ha mollato un marito con le sue bestemmie e le sue bottiglie, ha mollato la pazienza di dover aspettare un lieto fine che non arriverà mai. Perchè quelli arrivano solo nei film, nella vita reale il tuo lieto fine devi andartelo a conquistare, altrimenti col cazzo che arriva. E se Marta esistesse sarebbe qui a darmi ragione.

Marta ha finito, si, ha finito i singhiozzi, li ha curati con il limone e gli spaventi, decisamente più spaventi che limoni, ha finito i suoi vent’anni con le notti davanti al frigorifero e le corse in bagno a mettersi due dita in gola, ha finito i giorni fatti di chili persi, di crisi di pianto e di solitudini assordanti. Che certe giornate ti divorano l’anima.

Marta ha ceduto, si, ha ceduto amore, e ne ha ceduto talmente tanto da svuotare le riserve, fino al punto di doversi fermare per non perdersi del tutto, in cambio ha ricevuto batoste, un paio di sorrisi e tre o quattro addii da mandare il cuore a brandelli. Onestamente non mi pare granché come bilancio, ma sono sicuro che se Marta esistesse e fosse qui, farebbe spallucce e direbbe che va bene così. Perchè lei vive oltre il ritmo del suo cuore.

Marta si è arresa, si, si è arresa ai tramonti sul molo, ai prati a piedi nudi, alle ringhiere dei ponti con le gambe penzoloni nel vuoto, si è arresa agli abbracci di madre lasciata a vent’anni e ritrovata a quaranta, si è arresa all’idea che dopo quindici anni l’uomo che voleva sposarla probabilmente non tornerà più a riprenderla, si è arresa ad un letto che profuma di lavanda, ad una pinza tra i capelli con una rosa bianca e all’idea che la frittata di cipolle le viene una schifezza,

Marta ha paura, si, ha paura del giorno. Che la notte chiude i suoi mostri nell’armadio, ma di giorno, non ci son cazzi, di giorno tocca vivere e portarsi dietro tutta quella vita. E non è facile per niente, ma non ci sono alternative, o indossi l’armatura ormai logora e provi a combattere o ti fingi pazza e ti fai ricoverare. Solo che anche se non esiste, Marta è di gusti difficili, e il bianco degli ospedali proprio non lo sopporta, perciò giù l’elmetto, e buttiamoci nella mischia.

Marta sa volare, anche se l’aereo non l’ha mai preso, lei vola, quando è in autobus fra gente che spintona, tocca il culo e tossisce, lei vola, ha imparato a farlo tanti anni fa, durante un concerto rock, sulle note di una canzone che sembrava parlasse di lei. Da quel momento ogni volta che si trova a disagio vola, e passa sopra le nostre teste, sopra i nostri pensieri complicati e le nostre parole pesanti. Lo fa ogni volta, un attimo prima di morire davvero, chiude gli occhi e vola.

Marta avrebbe avuto un figlio a diciassette anni che magari adesso vivrebbe a Berlino e la chiamerebbe ogni sera e potrebbe riempire quel vuoto, ma a quell’età difficilmente siamo noi a scegliere e così , la sera, cammina in silenzio, che tanto Berlino è lontana e il telefono non squilla.

Marta non esiste, ma ogni tanto ne sento la voce, forse sto impazzendo, ma mi pare di vederla ancora, mentre mette in valigia i suoi limoni e i suoi spaventi, i vestiti a fiori e le ringhiere dei ponti, qualche trama di frottole e un pò di schiuma di nuvole, un paio di libri di cucina, un numero di telefono perchè non si sa mai, l’elmetto perchè ci sarà sempre qualche guerra da combattere, una mappa per andare a Berlino. E un sorriso. Che quello fa sempre comodo.

Marta va in giro e non riesci a parlarle, perchè lei non esiste, ma profuma di vita.

Una sera di Luglio, allo stadio San Siro, Marta ha imparato a volare. La canzone era questa: Sally (Vasco Rossi).

Anche la più repressa delle donne ha una vita segreta, con pensieri segreti e sentimenti segreti che sono lussureggianti e selvaggi, ovvero naturali. Anche la più prigioniera delle donne custodisce il posto dell’io selvaggio, perché intuitivamente sa che un giorno ci sarà una feritoia, un’apertura, una possibilità, e vi si butterà per fuggire.
Clarissa Pinkola Estés, (Donne che corrono coi lupi).

Squillo di trombe e rullo di tamburi.

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Era l’anno del Signore 1996, quello dopo sarebbe stato l’anno del “signorsì”, costellato da piantoni, guardie notturne e altre edificanti mansioni tipo pulire i cessi, ma questa è un’altra storia.
Eravamo nel profondo degli anni novanta, i cellulari pesavano quindici chili, Rocky “spiezzava in due” il russo Drago e se promettevi di fare il bravo la nonna ti regalava una manciata di caramelle Rossana.
In campo musicale imperversava Innuendo dei Queen, Vogue di Madonna, Rhythm Is a Dancer di Snap! (Anche se io preferivo la versione originale, quella di Leone di Lernia).
Ecco, in quel periodo il mio vero e unico idolo musicale era…..(rullo di tamburi)……ELIO.

Conobbi Elio attraverso una musicassetta che mi aveva prestato non so chi, che ovviamente riavvolgevo usando la penna Bic, e altrettanto ovviamente non fu mai più restituita. Conteneva il bootleg (a quei tempi andava di moda) di un loro concerto, a scuola lo ascoltavo col walkman, però da bravo studente volenteroso, appena iniziava l’intervallo lo spegnevo per non disturbare i compagni, ed eravamo ancora (per poco) in quell’età in cui le cose ti fanno ridere se e perché ci sono dentro le parolacce.
Sembrerà impossibile, ma non avevo la più pallida idea di chi fosse John Holmes, perciò nei passaggi tipo “trenta centimetri di dimensione artistica” oppure”non parlo perchè son rapito e poi in faccia non son mai inquadrato” non coglievo appieno la genialità della cosa.

Per puro caso, ma il caso non esiste, come diceva la tartaruga di kung fu Panda, per puro caso dicevo, conobbi altre quattro persone, decisamente diverse da loro, che suonavano uno strumento, a caso, e conoscevano a memoria tutti gli accordi di tutte le canzoni del grande Elio. C’è da precisare che, la maggior parte degli accordi erano eseguiti alla cazzo di cane, alcuni inventati sul momento, ma tanto nessuno ci faceva caso, anche perchè…chi cazzo lo conosceva Elio?
Insomma, presi la mia Ibanez nuova di zecca, il mio amplificatore a valvole e mi aggregai a quel gruppo di personaggi irragionevoli.

E questa, siore e siori era la formazione della band:
– al sax Sergio metallurgico ferito nell’onore, un operaio metalmeccanico cassaintegrato di 45 anni che si presentava sul palco con la tuta blu dell’Italsider di Piombino in segno di protesta, diceva lui. Fumava tre pacchetti di sigarette al giorno e non aveva fiato neanche per suonare le trombette di carnevale, una volta prese un “si minore” talmente acuto che sterminò una famiglia di criceti.
– alla tastiera Andy “l’alpino”, chiamato così perchè abitava in via Monte Bianco, in realtà era di Campobasso. Alto un metro e basta si ritrovava spesso a suonare la pianola della Bontempi fregata al suo fratellino di 5 anni, i suoi cavalli di battaglia erano la sigla del mulino bianco e Jingle bells, ma solo perchè la Bontempi l’aveva come brano pre-impostato.
– Al basso Alessandro, un ragioniere alle prime armi appassionato, anzi, fanatico di atletica leggera e in particolare dei cento metri. L’avevamo soprannominato Carl Lewis, su suggerimento della sua ragazza. Sembrava infatti che tutte le sue attività non durassero più di un minuto e 25 secondi. Più che il “figlio del vento” era il “figlio del tento”, ma sicuramente non ce la faccio.
– alla batteria, Jimmy Karma, ci triturava i coglioni con lo Yoga che all’inizio poteva essere pure piacevole, ma dopo che ti eri fatto fuori i 4 barattolini di quel maledetto yogurt iniziavi ad avere dei sinistri rumori intestinali che lui riusciva a mascherare con poderosi colpi di cassa e rullante. Il problema si presentava durante i pezzi lenti, all’improvviso partiva una rullata da brivido, la gente non capiva ma Sergio si allontanava a fiducia smoccolando.
– voce e chitarra erano miei, cantavo di schifo e suonavo dimmerda, ma un rastone davanti ad un microfono faceva sempre la sua porca figura.

L’abbiamo visto tutti e cinque insieme Elio e le sue storie tese, in concerto a Follonica, dopo due giorni la mia ragazza mi lasciò, “senza addurre motivazioni plausibili” come recita Cara ti amo.. Mio padre appresa la notizia mi disse “figliolo mi devi fare un favore, la prossima volta vengo anch’io al concerto con te…ti prego”

Ma le mode passano e i miti restano, Elio fa il giudice a X-Factor, Sergio prende una pensione di millecentoventuno euro al mese, Andy si è laureato in medicina e passa i pomeriggi a giocare con l’allegro chirurgo, Alessandro si è sposato ed ha un bambino, certo, lui biondo, la moglie bionda e il figlio moretto e perennemente abbronzato…mah, misteri, Jimmy si occupa ancora di Yoga, ma quello vero, tiene corsi di meditazione in giro per l’Italia, ma ha sempre con sè le sue bacchette, perchè oh, quando la rullata scappa scappa.

Due giorni fa (per caso) ho ritrovato la cassetta del bootleg e di colpo mi sono sentito, dolcemente e orgogliosamente, tutti i miei (quasi)quaranta.

Ah, dimenticavo: non ho mai portato mio padre a nessun concerto e l’anno prossimo festeggerà trentanove anni di matrimonio. Però ieri mia madre mi ha detto “oh, lo sai che mi piacerebbe andare a vedere un concerto di Mengoni, ma figurati se il tu’ babbo mi ci porta, te per caso ci verresti?” Mamma lascia fare, per Natale ti regalo il DVD.