OTTANTAQUATTRO PASSI

Ottantaquattro passi, questa è la distanza che separa la porta di uscita dalla fermata dell’autobus. Non sono tantissimi, ma abbastanza per pianificare le prossime mosse. Ottantaquattro passi è la misura perfetta per decidere di essere un uomo.

Cammino e penso che questa volta sarà quella buona, perché sta piovendo e quando piove il traffico scorre piano e i minuti si allungano. Tra un autobus e l’altro sembra passare un’eternità e allora ho tutto il tempo per scegliere con cura le parole da dire, che mica è facile trovare le frasi giuste. Le parole dette a voce sono indelebili, le pronunci e rimangono quelle. Quando scrivi hai sempre la possibilità di cancellare, rileggere, correggere gli avverbi e gli aggettivi. Le parole pronunciate a voce no, sono senza appello, non ammettono ripensamenti, non concedono alternative. Così parlo poco, e sorrido abbastanza, che è un modo come un altro di prendere tempo.

Ho il fiatone, il colletto del cappotto rialzato e uno strano berretto grigio infilato a forza sulla testa, che quando lo tolgo mi esplodono i capelli, come i fuochi d’artificio a capodanno. Invidio quelli con i capelli lisci, sempre ordinati, che riescono ad addomesticare con semplici gesti. I miei no, sono mossi, anarchici, elettrizzati da una sorta di protesta costante. Mi viene da credere che i capelli delle persone siano lo specchio dei loro pensieri. Alcuni li hanno precisi, quasi geometrici, altri intricati, che non si capisce dove finisce uno e inizia l’altro.

Ci sono quasi, inizio a cercarla con lo sguardo tra il gruppetto di persone in attesa, la vedo, mi avvicino più che posso, stavolta glielo dico. Ci penso ancora un secondo ma poi glielo dico, dai che ci vuole.

“Mi daresti il tuo indirizzo? Sai com’è, ti ho scritto una decina di lettere d’amore e vorrei fartele avere”, sì, potrebbe essere un buon inizio. “Senti scusa, mi faresti un sorriso, che poi magari ci scrivo un romanzo intorno”, surreale ma buono. “Ciao, mi diresti che ore sono? Non che mi interessi eh, era solo per sentire la tua voce”,  un po’ scontato ma potrebbe funzionare. “Ciao, se ti va, ti potresti addormentare così posso guardarti sognare?”, decisamente azzardato ma magari le piace e sorride.

Dai faccio passare il prossimo autobus e poi mi avvicino ancora un po’, mica posso alzare troppo la voce, cosa penserebbero tutte queste persone in attesa. A pensarci bene sono strani, quelli che aspettano intendo, sono strani, quasi comici. Se ne stanno lì, in file più o meno ordinate e mettono in stand by la vita. Rimangono impassibili mentre dentro hanno il mondo che esplode. Alcuni sono discreti, altri sbuffano irrequieti, che poi qui fa un freddo cane e si vedono ogni tanto questi sbuffi d’aria bianca uscire da quelle bocche borbottanti di impazienza e tempo perso. Alcuni sono immersi con lo sguardo nel telefono, altri parlano fra loro a voce bassa, come i parenti in chiesa durante un matrimonio. Io mi perdo nei dettagli, tra le pieghe di tutte queste vite intorno a me, che si sfiorano senza neanche conoscersi.

Mi avvicino ancora un po’, riesco quasi a sentire il profumo della sua giornata, sento perfino il profumo di tutte le giornate che ha trascorso, delle risate improvvise che avrà fatto, dei pianti disperati soffocati dal cuscino, il profumo delle sue passeggiate d’aprile, degli abbracci, di tutti gli abbracci dati e ricevuti, sento il profumo del libro che sta leggendo ora, mentre aspetta l’autobus e di quel suo modo morbido di muovere le mani, come se stesse suonando un notturno di Chopin.

Le sono a un passo, è il momento di parlarle. Ormai ne saranno passati almeno cento di autobus per casa mia. Lei chiude il libro, si alza e sale su uno di quelli. Rimango come uno scemo a parlare con me stesso, come tutte le altre sere, da cinque mesi a questa parte. Domani, domani sarà la sera giusta, me lo sento, domani farò questi ottantaquattro passi, smetterò di sognare e la prenderò per mano, il resto verrà da sé. Nel frattempo, senza preavviso, ha smesso di piovere.

In bianco e nero.

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Non l’ho guardata bene, ma sarei pronto a giurare che aveva una sigaretta fra le dita, la portava alla bocca con movimenti precisi, tenendola fra le labbra, come qualcosa di prezioso, come quando metti qualcosa di fragile al sicuro fra due cuscini, un po’ per evitare danni irreparabili e un po’ per avere la tranquillità di aver fatto la cosa giusta. Non saprei dire con esattezza la marca, forse iniziava per M, sì, direi proprio che iniziava per M, ma sono sicuro che non fosse Marlboro, ne sono assolutamente certo, sarebbe troppo facile e troppo scontato e lei sicuramente non era una donna facile. E neanche scontata. Merit, ecco, Merit sarebbe la marca perfetta, sobria ma assolutamente seducente. Sì, potessi scommettere tutti i miei soldi, punterei su Merit.

Non l’ho guardata bene, ma la bocca era bellissima, senza niente da aggiungere nè da togliere, importante ma non sfacciata, capace di sorrisi appena accennati, altri decisi nella misura giusta per mostrare il bianco dei denti, altri ancora aperti, come a far entrare aria leggera e restituirla al mondo carica di vita.

Non l’ho guardata bene, ma gli occhi erano verdi, assolutamente verdi, come i fondali nei pressi delle scogliere, quando ti trovi a nuotare in quelle acque e ti basterebbero due bracciate per essere al sicuro sulla terra ferma, ma proprio non ci riesci, sei costretto a cedere all’impeto delle correnti e più ci provi, più prendi consapevolezza che i tuoi sforzi saranno vani. E un po’ ti arrendi, un po’ rinunci. Un po’ capisci che non hai nessuna intenzione di essere salvato. Proprio nessuna.

Gli occhi erano verdi, con un perimetro nero, definito e assoluto, come fosse una linea di confine, un passaggio di frontiera, per tenere fuori insidiosi contrabbandieri. Una circonferenza severa che protegge le esistenze di chi ci vive dentro. Le protegge e le abbraccia. Forte.

Non l’ho guardata bene, ma le ho visto i pensieri in controluce, liberi e sinceri, con fragranze di salvia e incenso, vagavano chiassosi, seguendo geometrie perfette e maledettamente affascinanti.

L’ho vista di sfuggita, in fin dei conti era solo un viso buttato sopra un tavolo con una casualità premeditata, un volto sfuocato impresso in una foto in bianco e nero. Non saprei dire se fosse bella, davvero non saprei. Non l’ho guardata bene.

C’era una musica al di là della piazza, di più davvero non posso dire. (Brandi Carlile – What Can I Say)

Il profumo di Marta.

Marta non esiste, però profuma di vita.

No, Marta non esiste, ma se esistesse avrebbe 24 anni, magari da vent’anni. E inizierebbe a fregarsene di un po’ di cose, delle apparenze, dei discorsi bisbigliati, degli sguardi posati sui suoi vestiti a fiori, dei commenti scovenienti. Se ne frega e passa oltre, che lei ormai la vita non la prende più sul serio.

Marta ha mollato, si, ha mollato un po’ di angosce, ha mollato un marito con le sue bestemmie e le sue bottiglie, ha mollato la pazienza di dover aspettare un lieto fine che non arriverà mai. Perchè quelli arrivano solo nei film, nella vita reale il tuo lieto fine devi andartelo a conquistare, altrimenti col cazzo che arriva. E se Marta esistesse sarebbe qui a darmi ragione.

Marta ha finito, si, ha finito i singhiozzi, li ha curati con il limone e gli spaventi, decisamente più spaventi che limoni, ha finito i suoi vent’anni con le notti davanti al frigorifero e le corse in bagno a mettersi due dita in gola, ha finito i giorni fatti di chili persi, di crisi di pianto e di solitudini assordanti. Che certe giornate ti divorano l’anima.

Marta ha ceduto, si, ha ceduto amore, e ne ha ceduto talmente tanto da svuotare le riserve, fino al punto di doversi fermare per non perdersi del tutto, in cambio ha ricevuto batoste, un paio di sorrisi e tre o quattro addii da mandare il cuore a brandelli. Onestamente non mi pare granché come bilancio, ma sono sicuro che se Marta esistesse e fosse qui, farebbe spallucce e direbbe che va bene così. Perchè lei vive oltre il ritmo del suo cuore.

Marta si è arresa, si, si è arresa ai tramonti sul molo, ai prati a piedi nudi, alle ringhiere dei ponti con le gambe penzoloni nel vuoto, si è arresa agli abbracci di madre lasciata a vent’anni e ritrovata a quaranta, si è arresa all’idea che dopo quindici anni l’uomo che voleva sposarla probabilmente non tornerà più a riprenderla, si è arresa ad un letto che profuma di lavanda, ad una pinza tra i capelli con una rosa bianca e all’idea che la frittata di cipolle le viene una schifezza,

Marta ha paura, si, ha paura del giorno. Che la notte chiude i suoi mostri nell’armadio, ma di giorno, non ci son cazzi, di giorno tocca vivere e portarsi dietro tutta quella vita. E non è facile per niente, ma non ci sono alternative, o indossi l’armatura ormai logora e provi a combattere o ti fingi pazza e ti fai ricoverare. Solo che anche se non esiste, Marta è di gusti difficili, e il bianco degli ospedali proprio non lo sopporta, perciò giù l’elmetto, e buttiamoci nella mischia.

Marta sa volare, anche se l’aereo non l’ha mai preso, lei vola, quando è in autobus fra gente che spintona, tocca il culo e tossisce, lei vola, ha imparato a farlo tanti anni fa, durante un concerto rock, sulle note di una canzone che sembrava parlasse di lei. Da quel momento ogni volta che si trova a disagio vola, e passa sopra le nostre teste, sopra i nostri pensieri complicati e le nostre parole pesanti. Lo fa ogni volta, un attimo prima di morire davvero, chiude gli occhi e vola.

Marta avrebbe avuto un figlio a diciassette anni che magari adesso vivrebbe a Berlino e la chiamerebbe ogni sera e potrebbe riempire quel vuoto, ma a quell’età difficilmente siamo noi a scegliere e così , la sera, cammina in silenzio, che tanto Berlino è lontana e il telefono non squilla.

Marta non esiste, ma ogni tanto ne sento la voce, forse sto impazzendo, ma mi pare di vederla ancora, mentre mette in valigia i suoi limoni e i suoi spaventi, i vestiti a fiori e le ringhiere dei ponti, qualche trama di frottole e un pò di schiuma di nuvole, un paio di libri di cucina, un numero di telefono perchè non si sa mai, l’elmetto perchè ci sarà sempre qualche guerra da combattere, una mappa per andare a Berlino. E un sorriso. Che quello fa sempre comodo.

Marta va in giro e non riesci a parlarle, perchè lei non esiste, ma profuma di vita.

Una sera di Luglio, allo stadio San Siro, Marta ha imparato a volare. La canzone era questa: Sally (Vasco Rossi).

Anche la più repressa delle donne ha una vita segreta, con pensieri segreti e sentimenti segreti che sono lussureggianti e selvaggi, ovvero naturali. Anche la più prigioniera delle donne custodisce il posto dell’io selvaggio, perché intuitivamente sa che un giorno ci sarà una feritoia, un’apertura, una possibilità, e vi si butterà per fuggire.
Clarissa Pinkola Estés, (Donne che corrono coi lupi).

Il fastidio e la speranza.

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Non amo molto le categorie, anzi non le amo per niente, ma a pensarci bene di una ne faccio parte. Quella dei rimasti.

Siamo strani, leggermente indecifrabili, altamente incompatibili con la realtà e per cercare di sopravvivere, quelli come noi, sono rimasti. Ad un certo punto ci siamo fermati, senza accorgercene siamo rimasti un passo indietro, magari è stata solo una frazione di secondo, magari è stata colpa di un sorriso avuto gratis, abbiamo iniziato a rallentare e alla fine siamo rimasti fermi. Mentre tutto il resto andava avanti senza di noi. Noi guardiamo in disparte quelli che cavalcano l’onda, con una frenesia che non ci appartiene.

Siamo quelli che vivono nei ricordi, li spolveriamo, li guardiamo rapiti, come se fossero le nostre opere d’arte, non li tocchiamo, ma li veneriamo come dèi pagani.
Sono quel tipo di ricordi che quando ci pensi senti di nuovo l’odore della pineta dopo un temporale, e sorridi, inspiri ancora e senti sui polpastrelli la pelle nuda della tua prima volta, ma non ti basta, dai, un altro respiro, ed ecco sul palato quella lingua che sapeva di Winston e caffè, dai, dai, ancora uno, l’ultimo, lo giuro, ancora uno e poi basta, respira, e arrivano le luci di una periferia che ti ha rubato trent’anni di vita, oltre al portafogli.

Lo so, adesso vorresti respirare ancora, ne hai bisogno come un tossico della sua dose, ma non è così che funziona, no, adesso è tempo di smettere di inalare aria e di aprire gli occhi. E non ti illudere, questa non è la parte più difficile, no, il difficile è rendersi conto che non c’è più nessuna pineta, nessun bacio, nessuna periferia. Ci sei solo tu, che ti sei fermato a ricordare, che sei rimasto indietro, che sei rimasto lì.
Come ti senti adesso? Ti senti imbrogliato, incazzato, fottuto, arrabbiato. Ed è adesso che devi decidere come fare la prossima mossa e non farti illusioni, non avrai possibilità di rimediare, sbaglia adesso e la partita è chiusa. Puoi trascinarti fino al giorno dopo sperando di avere un ricordo in più, così, succube, alla ricerca della tua dose di coca, o almeno di un po’ di metadone, lasciandoti vivere senza una cazzo di battaglia in cui farti valere. Oppure proiettarti verso il futuro, anche quando il pronostico di un sorriso sembra quasi impossibile.

Perchè è dura restare indietro, ma è ancora più dura muovere un passo. E noi che siamo rimasti lo sappiamo bene, conosciamo perfettamente quella sensazione di speranza e fastidio che ci assale quando qualcuno viene a prenderci a calci nel culo per farci muovere, si, speranza e fastidio, è sempre così, il fastidio di chi ci vuol far capire la differenza fra vivere e lasciarsi vivere. E la speranza che qualcuno noti la nostra assenza, che torni indietro e ci costringa a dimenticare qualcosa, che ogni tanto per muovere un passo è necessario dimenticare qualcosa. Anche se non ne abbiamo voglia.

Tutti quelli della mia categoria sono rimasti. Di solito è proprio un attimo preciso.
Il mio no, io mi sono fermato un giorno qualunque, di un anno qualunque, in un parco qualunque, alle 14:37, quando qualcuno mi disse “voglio solo che tu sia felice”.

È vero, c’è il fastidio, ma voi che siete avanti non ci fate caso, venite a prenderci, noi siamo lì, sempre lì, aggrappati alla sicurezza effimera dei nostri ricordi. Siamo ancora lì, sempre lì. Noi siamo quelli che sono rimasti.

“I ricordi veramente belli continuano a vivere e a splendere per sempre, pulsando dolorosamente insieme al tempo che passa.
Banana Yoshimoto

Per tutti quelli che ci aiutano a raggiungere il centro del labirinto.

La bottega delle occasioni perdute.

Immagine presa da internet (come sempre)
Immagine presa da internet (come sempre)

Come alcuni di voi sapranno, sono reduce da due settimane di corso di formazione aziendale. Detto così potrebbe sembrare una cosa di una noia mortale, forse a tratti è vero. Ma alcuni argomenti che i formatori si sono prodigati ad inculcarci forzatamente mi hanno colpito.

Uno su tutti è il concetto di “zona di comfort”. La zona in cui ognuno di noi si sente fuori pericolo, dove il nostro istinto si sente al sicuro. Al suo interno non ci sono insidie, niente trucchi, musica giusta, sfumature giuste e soprattutto…ci fai entrare solo chi vuoi tu.
Un paradiso costruito su misura. Già…e rimanerne intrappolato è un attimo.

Perchè essere sotto l’effetto della morfina è piacevole, ma crea dipendenza.
E allora tendiamo a stare il più a lungo possibile nella nostra gabbia dorata,
E magari tendiamo a farci entrare sempre meno persone, e quando escono ci sentiamo sollevati. È la nostra coperta di Linus, la nostra zona consacrata, il nostro “fido, rinforzi” di Risiko.

Lì dentro siamo inattaccabili, invincibili, condottieri indiscussi del nostro tempo. Sarebbe da folli uscire allo scoperto, mettersi in discussione, confrontarsi e magari uscirne pure sconfitti. Si, da scellerati proprio.
E allora a volte ci capita di sprofondarci dentro, di cadere in una specie di depressione mentale dalla quale non abbiamo voglia di uscire. Non ce ne frega niente se fuori c’è “tutto un mondo da scoprire”, noi stiamo bene nel nostro mondo, nella nostra “zona rossa”. E senza rendercene conto rimaniamo lì, magari a scaldare i motori, senza riuscire ad alzarsi in volo, come lucciole dentro un bicchiere, come promesse mai mantenute.

I nostri rituali possono diventare la nostra condanna. Percorrere sempre le stesse strade, sedersi sempre sulla stessa poltroncina, guardare sempre lo stesso cielo. In questi giorni mi sono reso conto che se magari prendo il coraggio a due mani e sposto la mia reflex, la foto potrebbe essere migliore, o magari no, ma se non provo non lo saprò mai. Ho provato un paio di volte a mettere il naso al di là del mio cerchio rosso, e sapete…non è poi così male come pensavo, certo, le tigri pronte a sbranarti ci sono, ma poi impari ad evitarle. Come diceva William Shed “Le barche nel porto sono al sicuro, ma non per questo sono state costruite”. Capisci che forse la tua zona di comfort potrebbe espandersi un pò, magari potrebbe pure incontrare quella di qualcun altro, della tipa seduta al tavolo a fianco a te, per esempio. Potresti alzare lo sguardo, un passo oltre, potresti abbozzare un sorriso, un passo oltre, potresti dirle ciao e capire che sei lontano mille miglia dalla tua zona di comfort, ma non te ne frega niente, perchè lei ti ha risposto e non hai bisogno di chiedere i rinforzi come a Risiko. (Liberamente ispirato ad uno scambio di commenti con Vetrocolato)

Inutile fare gli ipocriti, non è facile stare la fuori, e sicuramente avere la nostra free zone è indispensabile, ma sarebbe un peccato rendersi conto un giorno che la nostra bottega delle occasioni perdute è colma all’inverosimile, perchè è frustrante vivere di rimpianti, avere sul tavolo un cumulo enorme di “se avessi” imprigiona lo sguardo e ci impedisce di vedere oltre. Sbriciamo oltre il confine, al di là del muro non ci sono solo avversari, ma anche un numero infinito di compagni di viaggio. Come ho già detto in altri post, siamo tutti animali sociali, creati per stare insieme a qualcuno, per contaminare i nostri confini.

Diamo pure a qualcuno quelle dannate chiavi per entrare nella nostra zona quando vuole. Perchè magari non ce ne siamo resi conto, qualcun altro lo ha fatto con noi.

E allora alziamo lo sguardo e abbozziamo un sorriso, che forse la ragazza del tavolo accanto non aspetta che questo.

“I nostri dubbi sono dei traditori che ci fanno spesso perdere quei beni che pur potremmo ottenere, soltanto perchè non abbiamo il coraggio di tentare.” William Shakespeare.

Donne che sorridono

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Come l’odore lasciato da un temporale, il silenzio di una sera di fine Marzo, il regalo più bello per gli occhi di chi osserva sono le donne che sorridono con il cuore.

Quel sorriso è una coperta che nasconde il passato, i dolori non si dimenticano mai del tutto, ma almeno durante quei secondi infiniti, si allontanano un pò e smettono di graffiare le pareti dello stomaco. Perchè le donne sanno rinascere, in qualche modo ci riescono sempre, anche quando non vogliono farlo.

E poi le vedi, il loro viso si rilassa, le labbra si espandono e ti accorgi che qualcosa sta salendo dalla terra, le pervade e gli occhi si dilatano per accogliere tutta la forza di quel sorriso.

E tu che guardi distratto realizzi la potenza di quel miracolo.

Si perchè quel sorriso, le donne, se lo sono guadagnato, hanno dovuto ritrovare tutti i piccoli pezzi lasciati in giro per la vita, hanno superato sofferenze che nessuno mai potrà comprendere fino in fondo ed ognuna di loro è stata costretta a dimenticare qualcosa, una maledettissima cosa che proprio non ne voleva sapere di passare.

Perchè tutte, indistintamente, almeno una volta nella vita, anche solo per un istante lungo un secolo, magari riuscendo a nasconderlo, si sono ritrovate ad odiare un uomo.

E lì, in quel preciso istante, vi siete difese, ognuna a vostro modo, alcune avete sopportato, perchè quando una donna ama sopporta, per il bene dei figli, per quello del vostro compagno, perchè in quella storia avete investito tutte voi stesse e ci avete buttato dentro talmente tanto cuore che sarebbe impossibile riprenderselo tutto e andate avanti e vi ripetete che alla fine state bene anche così.
E il mare sotto di voi si alza di un centimetro.
Altre si sono ribellate, hanno chiuso porte, evitando di rimanere incastrate in altre storie, convinte che evitare sarebbe stato sempre meglio di soffrire, sono salite in sella e hanno iniziato a guidare che tanto loro non hanno bisogno di nessun altro, che se la sanno cavare da sole, che la casa vuota e silenziosa non era poi così male, anzi, che si erano abituate a quel vuoto
E le pareti si stringevano di un metro.

Ma siete cresciute, passo dopo passo, per quell’istinto che solo voi avete, di non stare troppo a crogiolarvi nel dolore, che poi magari uno ci si abitua e non lo sente neanche più.

E alla fine è successo. Siete riuscite a sorridere con il cuore ed è iniziato il percorso della vostra nuova vita. Non sorridete per compiacere qualcuno, sorridete per voi, perchè avete imparato ad amarvi di nuovo e ve ne fregate dei giudizi, vi rispettate e niente e nessuno potrà mai cambiare questa condizione, la vostra consapevolezza sarà la prova inconfutabile di ciò che siete riuscite a diventare, potrete subire ancora e soffrire ancora e odiare ancora e incazzarvi ancora, perchè tutto questo fa parte dell’animo umano, ma lo farete con la certezza di non essere inferiori e se accetterete compromessi sarà solo una vostra decisione.

Più di qualunque meraviglia esista in natura, le donne che sorridono con gli occhi ti tolgono il fiato.
E chiunque le incontri dovrà prendersi cura di quel sorriso, perchè se lo sono veramente guadagnato.