Gianna per tutti.

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Le tende erano chiuse, ma nella stanza c’era comunque troppa luce, il neon pungeva lo sguardo, rendendo l’atmosfera troppo bianca, troppo asettica, troppo irreale. Era senza dubbio la dimensione più appropriata, distante e irreale.

Gianna se ne stava nel letto, immobile a fissare il soffitto, quasi senza accorgersene, a guardare un film senza una trama precisa, un po’ come la sua vita che viveva senza un copione da seguire, un po’ come veniva e un po’ perché è così che vanno prese le esistenze vere, con la voglia di vedere cosa si nasconde dietro l’angolo e la bramosia di assaporare sulla lingua gli istanti che verranno. Sì, è decisamente così che certe esistenze vanno vissute.

Se ne stava lì, rapita dalla musica dei suoi auricolari e il sottofondo fastidioso dei pensieri. Parole confuse che si susseguono come i fotogrammi impressi su di un rullino, uno di quelli nati difettosi, che non si avvolgono bene sul finale e sovrappongono le ultime pose. Solo che lei ne aveva un numero vicino a infinito, di ultime pose.

Gianna non si chiama Gianna, ma questo non lo sa nessuno, un giorno cambiò il suo nome perché non le piaceva molto, non lo sopportava molto e poi la spaventava. Molto. Lo aveva ricevuto in dote da sua nonna, come si usava nelle famiglie di qualche generazione fa, il nome di una donna che non aveva avuto il tempo di conoscere, consumata dalla malattia a 33 anni. Se lo sentiva addosso come un cappotto in pieno agosto, una sorta di eredità non voluta. Perció da piccola prese le forbici e si ritagliò un nome su misura. Divenne Gianna, per tutti.

Distolse un attimo lo sguardo dal soffitto per assicurarsi che le gocce scendessero ancora regolari. Gocce di veleno, come se non ce ne fosse già abbastanza sparso per il mondo. Veleno per curare altro veleno, come quando racconti una bugia per coprirne un’altra e qualche volta funziona pure, riesci a farla franca, ma non ti senti migliore di nessuno. Hai solo avuto più fortuna e la tua giusta dose di dolore, di giorni passati a vomitare l’anima, di cazzotti alle pareti fino a lasciare sul muro l’impronta delle nocche, e di veleno.

Gianna adesso non sopportava più niente, le parole di finta compassione delle persone che conosceva appena, le giornate con quel sole di fine ottobre che non potevano essere vissute,  come se fossero regali incarcerati dietro ad una scatola di vetro, da bramare senza poterli aprire, da ammirare a due millimetri di distanza, tendendo le mani senza poterli toccare, senza sentirli tuoi. Non sopportava più niente, neanche quella maledetta luce al neon. Decise di chiudere gli occhi, come si fa con un sipario alla fine di una commedia, togliendo lo sguardo agli spettatori, lasciandoli ignari del fermento che si nasconde dietro la tenda, privandoli della esistenza vera degli attori. Chiuse gli occhi con il terrore e l’incofessabile speranza di non riaprirli più.

Oltrepassò il soffitto, andando alla ricerca di qualcosa che la potesse meravigliare ancora, prendendosi il posto al finestrino di quell’assurdo viaggio astrale. Voleva spingersi in alto, oltre i tetti delle case, oltre i sogni della gente, oltre le speranze disilluse, le promesse disattese, in una solitudine dolorosa e perfetta dove fare i conti con sè stessa. Un luogo talmente isolato e sicuro in cui poter trovare la lucidità per dare il giusto valore alle cose, in cui poter scegliere serenamente di vivere, o morire. Passavano le immagini di suo padre, saltato giù dal treno dell’esistenza troppo presto, quelle di suo marito, con lo sguardo perso chissà dove, a guardare un nuovo giorno che forse non sarebbe mai arrivato, vedeva le mani insicure dei suoi figli, ancora troppo fragili per essere lasciati al mondo degli inganni. Vedeva i suoi 47 anni, mandati giù come un bicchiere di vino dopo aver attraversato il deserto, che finisce troppo in fretta e tu hai ancora sete e ne vorresti ancora, ma non hai il coraggio di chiederlo, non hai nessun dio a cui sacrificare la tua disperazione.

In quel momento capisce esattamente che i ricordi, gli affetti, i giorni passati come le auto che attraversano il casello, sono solo fogli scarabocchiati messi come capita in fondo all’anima e non sono di sua proprietà, li ha solo in custodia e soprattutto non le salvarenno la vita. Gianna deve salvarsi da sola, comunque vada, che sia disfatta o vera gloria, se vuole farlo, lo deve fare da sola e soprattutto, lo deve fare adesso. Deve semplicemente scegliere e le scelte si sa, comportano rinuncie, forse rimpianti, sicuramente nuove battaglie. Di solito la scelta più facile è considerata sbagliata, ma lei se n’è sempre fregata delle convenzioni, questa era la sua stramaledetta vita e si sentiva libera di scendere giù quando voleva, in questa traversata in mare aperto era lei a decidere la rotta e adesso avrebbe voluto mettere i motori a tutta forza e puntare dritto verso la scogliera. Avere il posto in prima fila per godersi lo spettacolo della sua fine, voleva abbandonare il campo di battaglia, deporre finalmente le armi e con la punta della spada infilzare quel tarlo operoso e costantemente affamato che le divorava l’esistenza, i momenti davvero felici e la dignità. Smetterla una volta per tutte di essere forte, che alla fine lo fai solo per alleviare le sofferenze altrui, ingrassando le tue. Adesso era tempo di aprire gli occhi e comunicare al mondo la sua scelta.

“….il fazzoletto signora, le è caduto il fazzoletto, mi sente?” La voce le arrivava da lontano, come se avesse percorso migliaia di chilometri per giungere lì, Gianna a fatica aprì gli occhi, sul lettino alla sua sinistra c’era l’immagine sfuocata di una donna, anzi una ragazza, avrà avuto vent’anni ma ne dimostrava almeno trenta e parlava, parlava in continuazione, dio quanto parlava, degli studi che avrebbe fatto, dei figli che avrebbe avuto, del mare, del viaggio che doveva fare a Vienna per Natale. Parlava senza l’ombra di un dubbio, come chi ha la certezza assoluta di raggiungere la mèta e si meraviglierebbe del contrario. La sicurezza spavalda e un po’ sfacciata di chi sa di avere una mano vincente e non ne fa mistero.

” Dicevo, io mi chiamo Miriam e lei?” Gianna rimase sospesa ancora qualche secondo, “Piacere sono Giovanna, sono al terzo ciclo di chemio. Stavo pensando che anch’io sarò a Vienna per Natale, magari potremmo fare in modo di stare un po’ insieme”.

Non era ancora tempo di abbandonare il campo di battaglia.

“Si guarisce da una sofferenza solo a condizione di sperimentarla pienamente” (Marcel Proust).

Nato grazie al contributo di una persona che mi ha raccontato la sua esperienza. Ne sono onorato e la ringrazio dal profondo. Questo racconto è dedicato a lei, al piccolo Tommy e a tutti coloro che mi insegnano ad apprezzare  la vera essenza della vita. Grazie infinite. Di cuore.

Come colonna sonora ho scelto questa: The a Team – Ed Sheeran.

22 pensieri su “Gianna per tutti.

  1. Te l’ho già detto che scrivi benissimo, vero? Sì.
    Gianna e Tommy apprezzeranno, come tutti gli altri, le parole che hai saputo usare per scrivere di quest’esperienza di vita. Sono certo che faranno anche bene.

    • Me lo auguro davvero, ho solo cercato di dare il mio contributo provando ad esprimere le emozioni che mi suscitano queste esperienze, non ho la presunzione di alleviare il loro dolore, non l’ho scritto per questo, ma solo per il mio bisogno di dar sfogo alla mia ammirazione per loro.
      Grazie per aver apprezzato, grazie davvero.

      • Ammiro come scrivi a prescindere dall’argomento. Se questo poi è particolarmente toccante e delicato, l’ammirazione è doppia, senza parlare di quella per i protagonisti. E’ vero, non potrai alleviare il loro dolore ma senza dubbio gli hai regalato un sorriso, il che non è poco.

  2. Quello scarto leggero come di farfalla, quel riprendere a seguire la vita come viene… bello. Perché mi sembra dire proprio della forza che a volte ci stupiamo di avere e che ci spinge avanti. Grazie.
    (Bella anche la scelta musicale)

  3. Gianna o Giovanna o Maria o Fabiana, o Paola, sono solo nomi di esseri umani sfortunati su questa terra. Non mi sento di chiamarli maestri di vita, eroi o persone con una dignità superiore alla mia o alla tua, che magari conduciamo a fatica estrema vite diverse da come vorremmo che fossero. Nessuno di noi è un eroe, nemmeno la signora XY, nemmeno se farà o ha fatto la scelta coraggiosa di come e dove morire. Sono solo nomi tra migliaia o tra milioni, esperienze diverse dalle mie e dalle tue che non ci insegnano come e quanto amare la vita. Tu hai descritto semplicemente e meravigliosamente come è tuo costume, una scelta sul da farsi in quella determinata, orrenda, dolorosa situazione. La vita andrebbe ed uso il condizionale, amata a prescindere dal cancro o da altre malattie. Non dobbiamo arrivare ad ammalarci per capire quanto potrebbe essere bella se vissuta appieno. Pregherò per questa donna e per tutte gli altri me compresa, che avranno il coraggio di smettere o continuare una vita, che giunta a quel punto, per come la vedo io non ha più senso proseguire. Mi rattristano i figli e chi rimane, ma anche loro, con il tempo se ne faranno una ragione e la ricorderanno sorridendo. Ti mando un caro saluto, Fabiana.

    • Non sono affatto degli eroi, sono persone comuni, senza particolari meriti, con le quali però trovo stimolante il confronto, perché ogni volta alcune sfumature della vita assumono contorni diversi e più profondi.

  4. Tante testimonianze come questa, sicuramente troppe…e non conta l’età ne il sesso ne null’altro, se ci si soffermasse, ogni tanto, a pensare a questo, a quanto la vita possa cambiare in un solo istante…..si darebbe importanza solo alle cose che davvero ne hanno, e ci sarebbe sicuramente meno cattiveria, ma quando le cose non colpiscono direttamente passano…e poi si dissolvono nell’aria….
    Buon inizio settimana.

    • Diciamo che il tempo tende a far dimenticare gli eventi negativi, questo non è sempre negativo, solo che in alcuni casi si rischia di perdere anche il valore delle cose che ci circondano e la fortuna che abbiamo ad averle.
      Grazie per aver lasciato il tuo pensiero. Un abbraccio.

  5. Ecco, si…non ne potevi fare uso migliore, di questa confidenza. Che poi….confidenza significa rivelare qualcosa di personale “confidando” che la persona a cui la fai ne faccia, appunto, buon uso.
    So esattamente cosa significhi avere voglia di poter essere….debole, finalmente.
    E come, invece, in un modo o nell’altro, si arrivi a superare anche questa…debolezza.
    Grazie Pinocchio, per scrivere sempre in modo per nulla scontato, con sensibilità e rispetto, anche di cose scomode e poco…”appaganti” per i più.

    • Diciamo che ultimamente le cose “scomode” mi interessano più di altre, il fatto che una persona mi abbia scelto per raccontare la sua esperienza è stato un dono impagabile, io ho solo cercato di ripagare in minima parte il mio debito di riconoscenza.

      Grazie infinite Soraya, ho apprezzato tantissimo le tue parole.

  6. Che dire, senza parole … Grazie di aver reso con parole così belle una sofferenza reale, di quelle che ogni volta che le leggiamo pensiamo che siamo fortunati e che dobbiamo apprezzare la vita per tornare a dimenticarcene qualche minuto dopo. E un abbraccio a Gianna e a tutte le Gianna del mondo ❤

  7. Io ne avevo 42, di anni. E avevo deciso di arrendermi, perché troppe battaglie avevo combattuto e non ne potevo più, non ne avevo più la forza. Non ne avevo più la volontà. Poi niente, arriva quel clic, la molla scatta e si riparte, si torna a combattere. Sono passati 22 anni, e sono ancora qui a scassare i marroni al mondo. E a vivere, in questo che è il periodo più felice della mia vita, una meravigliosa pubertà.
    PS: sì, è proprio esattamente così che ci si sente.

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