FUORI ELENCO

Lavoro in un negozio, sì ok, non è una cosa particolarmente strepitosa da dire. Non è che lavoro alla Nasa o nell’area 51, lo so, ma il punto non è questo. Il punto è che lavorando in un negozio vengo quotidianamente a contatto con persone di qualsiasi tipo e questa è una cosa che non capita proprio a tutti. Voglio dire, gli astronauti della stazione spaziale, mentre sono intenti a girare con la tuta, il casco e tutto il resto intorno al pianeta non è che incontrano la casalinga di Voghera, per capirci.

Comunque, qualche giorno fa entra in negozio un signore sulla settantina, tiene qualcosa fra le mani, una sorta di libro antico e prezioso, di quelli che ti fanno ricordare le merende con le fette di pane e olio.͔«Buongiorno, ha bisogno?» «Buongiorno…ehm…scusi il disturbo…sarei venuto a lasciare…l’elenco telefonico».Ora, non so da quanto tempo non vi capita di vedere un elenco telefonico. A me sinceramente erano anni, molti anni. Il ricordo che avevo io era quello di un librone grigio che portava sulla copertina un monumento famoso della città a cui faceva riferimento. Nel mio caso alla provincia, perché dove abito io le grandi città sono come lo Yeti. Tutti ne parlano ma nessuno l’ha mai visto veramente.

Insomma, era qualcosa di importante e di ingombrante. Una volta mi è capitato di vedere l’elenco telefonico di Roma, sono rimasto sbalordito. Addirittura erano due volumi perché tutti quei nomi in uno solo non ci stavano. Un’infinità di persone, catalogate in scrupoloso ordine alfabetico, che poi se ne vanno in giro e scambiare la loro vita con quella degli altri, perché alla fine siamo tutti come le carte da gioco, ognuna unica e irripetibile, mischiati nel mazzo e pronti a giocarci la nostra partita in una briscola chiamata. C’eravamo tutti su quei volumi grigi, nessuno sfuggiva e se proprio qualcuno non compariva su quegli elenchi significava che era una persona particolarmente importante. Presidente della Repubblica, calciatore famoso, cantante e altre persone così. Cioè, non è che uno prendeva l’elenco e poteva telefonare a Sandro Pertini o a Michel Platini. Per dire. Ma a parte queste persone famose, il resto eravamo tutti lì sopra. Anzi, per essere sicuro di esserci cercavi il tuo nome e quando lo trovavi ti sentivi quasi importante, cioè, stavi su un libro. Il tuo nome e cognome era stampato su carta e mandato in giro per il mondo, roba da montarsi la testa.

Ecco, come dicevo prima, non so da quanto tempo non vedete un elenco telefonico. Io l’ho visto due giorni fa e sono rimasto senza parole. E’ un librettino in formato A5, tipo quaderno di seconda elementare. Più che un elenco è una lista della spesa, con pochi ingredienti. Una lista della spesa di uno che è a dieta ferrea ecco. Una roba tipo: Mario Rossi – Tofu – Carlo Verdi – pane integrale – Maria Bianchi e bacche di goji

Ma che fine hanno fatto?, tutti quanti intendo. Dove sono finiti tutti quei nomi che rendevano enormi gli elenchi telefonici? Non erano solo nomi e numeri, erano storie e le storie non sono mai da buttare via.Dove sono? Hanno rinunciato al telefono fisso?, sono espatriate?, sono cadute nel buco nero? Stai a vedere che hanno ragione i terrapiattisti e tutti quelli che erano nell’elenco sono caduti di sotto. C’è da perderci la ragione se ti metti a pensare agli elenchi telefonici.Da qualche giorno a questa parte guido con prudenza, non che prima fossi un automobilista scellerato, ma adesso quando entro in galleria rallento un po’ e cerco di allungare lo sguardo, così, perché non si sa mai, magari alla fine del tunnel cado di sotto e mi ritrovo di colpo fuori dall’elenco. Roba da perderci la ragione.

OTTANTAQUATTRO PASSI

Ottantaquattro passi, questa è la distanza che separa la porta di uscita dalla fermata dell’autobus. Non sono tantissimi, ma abbastanza per pianificare le prossime mosse. Ottantaquattro passi è la misura perfetta per decidere di essere un uomo.

Cammino e penso che questa volta sarà quella buona, perché sta piovendo e quando piove il traffico scorre piano e i minuti si allungano. Tra un autobus e l’altro sembra passare un’eternità e allora ho tutto il tempo per scegliere con cura le parole da dire, che mica è facile trovare le frasi giuste. Le parole dette a voce sono indelebili, le pronunci e rimangono quelle. Quando scrivi hai sempre la possibilità di cancellare, rileggere, correggere gli avverbi e gli aggettivi. Le parole pronunciate a voce no, sono senza appello, non ammettono ripensamenti, non concedono alternative. Così parlo poco, e sorrido abbastanza, che è un modo come un altro di prendere tempo.

Ho il fiatone, il colletto del cappotto rialzato e uno strano berretto grigio infilato a forza sulla testa, che quando lo tolgo mi esplodono i capelli, come i fuochi d’artificio a capodanno. Invidio quelli con i capelli lisci, sempre ordinati, che riescono ad addomesticare con semplici gesti. I miei no, sono mossi, anarchici, elettrizzati da una sorta di protesta costante. Mi viene da credere che i capelli delle persone siano lo specchio dei loro pensieri. Alcuni li hanno precisi, quasi geometrici, altri intricati, che non si capisce dove finisce uno e inizia l’altro.

Ci sono quasi, inizio a cercarla con lo sguardo tra il gruppetto di persone in attesa, la vedo, mi avvicino più che posso, stavolta glielo dico. Ci penso ancora un secondo ma poi glielo dico, dai che ci vuole.

“Mi daresti il tuo indirizzo? Sai com’è, ti ho scritto una decina di lettere d’amore e vorrei fartele avere”, sì, potrebbe essere un buon inizio. “Senti scusa, mi faresti un sorriso, che poi magari ci scrivo un romanzo intorno”, surreale ma buono. “Ciao, mi diresti che ore sono? Non che mi interessi eh, era solo per sentire la tua voce”,  un po’ scontato ma potrebbe funzionare. “Ciao, se ti va, ti potresti addormentare così posso guardarti sognare?”, decisamente azzardato ma magari le piace e sorride.

Dai faccio passare il prossimo autobus e poi mi avvicino ancora un po’, mica posso alzare troppo la voce, cosa penserebbero tutte queste persone in attesa. A pensarci bene sono strani, quelli che aspettano intendo, sono strani, quasi comici. Se ne stanno lì, in file più o meno ordinate e mettono in stand by la vita. Rimangono impassibili mentre dentro hanno il mondo che esplode. Alcuni sono discreti, altri sbuffano irrequieti, che poi qui fa un freddo cane e si vedono ogni tanto questi sbuffi d’aria bianca uscire da quelle bocche borbottanti di impazienza e tempo perso. Alcuni sono immersi con lo sguardo nel telefono, altri parlano fra loro a voce bassa, come i parenti in chiesa durante un matrimonio. Io mi perdo nei dettagli, tra le pieghe di tutte queste vite intorno a me, che si sfiorano senza neanche conoscersi.

Mi avvicino ancora un po’, riesco quasi a sentire il profumo della sua giornata, sento perfino il profumo di tutte le giornate che ha trascorso, delle risate improvvise che avrà fatto, dei pianti disperati soffocati dal cuscino, il profumo delle sue passeggiate d’aprile, degli abbracci, di tutti gli abbracci dati e ricevuti, sento il profumo del libro che sta leggendo ora, mentre aspetta l’autobus e di quel suo modo morbido di muovere le mani, come se stesse suonando un notturno di Chopin.

Le sono a un passo, è il momento di parlarle. Ormai ne saranno passati almeno cento di autobus per casa mia. Lei chiude il libro, si alza e sale su uno di quelli. Rimango come uno scemo a parlare con me stesso, come tutte le altre sere, da cinque mesi a questa parte. Domani, domani sarà la sera giusta, me lo sento, domani farò questi ottantaquattro passi, smetterò di sognare e la prenderò per mano, il resto verrà da sé. Nel frattempo, senza preavviso, ha smesso di piovere.

Vent’anni in mezzo al temporale.

Senti scusa…scusa eh, non sai mica quando passa il prossimo? Di treno, intendo, Sì, insomma, un treno qualunque, non importa la direzione…non importa. A sud…a nord…non importa. Devo prenderne uno, uno qualunque e scorrerlo tutto, vagone per vagone, posto per posto. Faccia per faccia. Devo scorrerlo tutto perché…perché lei non scende mai dal treno e se lo fa…sì insomma…se lo fa è solo per salire su un altro. Lo so che sembra assurdo ma saranno passati vent’anni, sì, più o meno e non ho smesso di cercarla. Ogni giorno, tutti i giorni, uno dopo l’altro, fino a diventare vent’anni, più o meno. E fra vent’anni sarò ancora qui a cercarla…Me ne stavo lì, no? Me ne stavo lì seduto accanto a finestrino a guardare ogni cosa là fuori, ogni cosa che correva via. Buffo no?, buffo come le cose corrono via e ci sfuggono dalle mani quando siamo là fuori. Sul treno invece…sul treno invece è tutto più lento. Tutto decisamente più lento. Me ne stavo lì a pensare alle cose veloci della vita quando sento qualcosa di strano nell’orecchio e dentro Cat Stevens che cantava “Sad Lisa”. E io mi volto di scatto, no? Mi volto e la vedo seduta accanto a me con l’altro auricolare nell’orecchio. Così, senza dire niente, se ne stava lì a occhi chiusi. “ti chiami Lisa?”, le ho detto, “che importanza ha?, che te ne fai di un nome nel bel mezzo di un viaggio?”, così mi ha risposto. E io non ho detto niente, no?, non ho detto più niente, però le ho preso la mano, già…le ho preso la mano…perché certi viaggi è giusto farli in due, è giusto così, no? Poi la canzone è finita. E lei si è alzata. “Come ti ritrovo?” le chiesto, “sul treno, uno qualunque. Niente stazioni, le stazioni sono per chi arriva, o per chi parte. Io sto già facendo il mio viaggio”. Così ha detto. Mi ha lasciato una foto, C’è lei, con un sorriso croccante, nel bel mezzo di un temporale, Ma un temporale vero, con i fulmini e tutto il resto, che quando mi capita di farla vedere c’è sempre qualcuno che dice “guarda che meraviglia di temporale”. Nessuno fa caso a lei, come se non ci fosse neanche in quella foto. E invece c’è. Mi ha lasciato la foto. E poi è andata via. L’ho vista dal finestrino che saliva su un altro treno e andare nella direzione opposta. Io l’ho cercata, ogni giorno, tutti i giorni, sono passati vent’anni, più o meno. Sono salito e sceso da ogni treno, li scorrevo tutti, vagone per vagone, posto per posto, faccia per faccia. Sono salito sull’ultimo vagone, ho passato tutto il treno, tutti i treni, dall’inizio alla fine, ho guardato centinaia di facce, una per una, mentre cantavo Sad Lisa. Erano tutti impazienti di arrivare, nessuno che facesse caso all’istante che stavano vivendo. Erano tutti attesi, o in attesa. E’ questo che facciamo, no? Passiamo il tempo ad aspettare o a essere aspettati da qualcuno. Ma nel bel mezzo del viaggio siamo soli e questo ci spaventa. E allora ci illudiamo un po’, no? se non abbiamo nessuno in attesa o da attendere e magari prendiamo un treno, così, tanto per vedere il mondo fuori che si muove. Ma io no, io salgo sul treno, su ogni treno che riesco a prendere e inizio a cercarla, scorrendo tutti quei visi, in ogni vagone. La cerco più che posso, come un coglione, ogni giorno, uno dopo l’altro, fino a diventare vent’anni. E non importa se nessuno riesce a vederla in quella cazzo di foto, Io non smetterò di cercarla. Perché ho ognuno ha il diritto di rivederla almeno una volta la forma della propria solitudine nel bel mezzo di una meraviglia di temporale. – Senti..scusa eh, scusami se ti ho annoiato, ti lascio qui ad aspettare, io ora devo salire sul treno.

LA RAGAZZA DEL PIRATA.

L’estate è di gran lunga la stagione che mi piace meno. Gli amici del mio quartiere se ne vanno tutti al mare e i compagni di scuola, anche loro vanno al mare. Io ne farei volentieri a meno, cioè, il mare mi piace, ma fa troppo caldo e poi mi rimane il segno bianco degli occhiali sul viso. Ma la cosa che proprio mi fa vergognare di più sono i miei costumi. Ogni anno la mamma me ne compra un paio nuovi, ma sono troppo colorati, mi si nota da tutta la spiaggia, come l’insegna del bar Marilena quando c’è la festa del quartiere. Io invece vorrei essere guardata il meno possibile, perché ogni volta che qualcuno mi vede o mi parla fa sempre quell’espressione come a dire “poverina”, che alla fine non lo dice mai, ma ce l’ha scritto in faccia e si vede benissimo. Come l’insegna del bar Marilena. La mamma dice che quei colori mi illuminano il viso, io vorrei dirle che così mi si nota di più il segno bianco degli occhiali, ma mi limito a sorridere alla meglio e fare di sì con la testa.

Sono Maria e ho sette anni, ma sembro un po’ più piccola dei ragazzini della mia età. La mamma dice che è questione di tempo, che anche sua sorella, la zia Antonella, era bassina ma ora è una stangona. E io le credo, anche se quando lo dice la sua voce si incrina un po’ e lo sguardo è meno croccante. Faccio visite da quando sono nata, un dottore dopo l’altro, come quando sei sul treno e vedi passare le stazioni dal finestrino e ti fermi giusto il tempo per fare pipì e ripartire subito senza che sia cambiato niente e non vedi l’ora di scendere davvero e goderti la vita oltre la stazione.

Pare che io abbia una malattia che chiamano “sindrome” legata a un cromosoma, roba complicata, però io non mi fido mica tanto di questi dottori, perché non mi sembra di essere malata, io sto benissimo. Sì ok, leggo lentamente e sbaglio spesso le parole, ma lo fa anche nonno Michele che ha ottantasette anni e non mi pare che faccia tutte queste visite. Anche se dicono che lui ha il “morbo” e quando lo dicono allargano tutti le braccia rassegnati. Forse lo hanno fatto scendere a forza dal treno in una stazione che non era la sua e ora si guarda intorno in cerca di un passaggio, che forse non arriverà mai.

Alla fine mi rassegno e parto per la spiaggia, anche perché a Livorno se d’estate non vai al mare finisci per passare le giornate dentro casa e come dice nonno Michele mentre cammina dalla cucina alla sala cercando l’uscita della sua stazione, «a stare in casa ti incattivisci». E appena finisce la frase piscia al termosifone convinto che sia la statua della Libertà. Perché dice sempre che «gli americani non capiscono un cazzo», ma non si ricorda il motivo.

Mi piace venire al mare qui, in mezzo a tutta questa gente con nomi importanti. Sembra di stare a Hollywood. La mamma dice che se fossi nata in America avrei fatto sicuramente l’attrice. Magari quando sarò alta come zia Antonella ci farò un pensierino, per il momento cerco di imparare a parlare bene, perché non si è mai vista un’attrice che inciampa sulle parole, traballa, e alla fine si scapicolla.

Ogni giorno alle sedici in punto vado a fare la fila al bar, per prendere un ghiacciolo alla fragola. La mamma dice che con questo caldo c’è bisogno di qualcosa di rinfrescante, e ogni giorno, sempre, cascasse il mondo, mi viene incontro Samuel, il barista. Lui è alto, la barba disegnata bene e i capelli raccolti in una coda. Sembra un pirata con quegli anelli e gli orecchini. Un pirata che profuma di buono. A lui non interessa se sono bassa, se ho il segno degli occhiali, lui non ha l’insegna del Bar Marilena dentro allo sguardo, o se ce l’ha la tiene spenta. Ogni giorno si avvicina, ha un tatuaggio di Che Guevara sul braccio destro e lo stemma del Livorno Calcio su quello sinistro. Io non lo conosco questo signore Che Guevara, ma pare che qui sia amico di tutti. Mi solleva, bacino sul collo e poi mi dice:

«Te oggi sei la mia ragazza, se ti azzardi a farmi le corna ti stacco le braccine, intesi?». Ogni giorno. Cascasse il mondo.

Io non glielo dico che mi piace Iuri di terza F, non vorrei che ci rimanesse male. Però un po’ mi fa piacere essere la ragazza del pirata.

Magari quando sarò alta come zia Antonella mi farò invitare a cena fuori. Perché certe occasioni vanno prese al volo, alla faccia di tutte le sindromi e di tutti i cromosomi.

TECICENI

Per noi che abitiamo in provincia fare un giro a Livorno è sempre un’occasione per imparare cose nuove e nuovi modi di dire che sono un riassunto perfetto delle dinamiche quotidiane della vita. In una frase viene rappresentato un intero universo di situazioni e, perché no, di umane sofferenze. Tipo “Alli zoppi pedate nelli stinchi” oppure “chi lavora e si strapazza…malidetta la su’ razza”. Ma anche espressioni che fotografano la vita familiare, di solito quella degli altri. Tipo “C’ha più corna lui d’un cesto di chiocciolini” (che sono le lumache col guscio piccoline) oppure “se le maiale volassero a tu’ ma’ darebbero da mangia’ con la fionda” (ecco, questa se non la capite è meglio).

Quindi Livorno insegna, non c’è niente da fare, anzi, sarebbe opportuno visitarla con un blocchetto e una penna per poter prendere appunti. Ma Livorno è soprattutto una città di mare, con la passeggiata, la scogliera, le isole all’orizzonte e gli stabilimenti balneari. La spiaggia del lungomare è un susseguirsi di ombrelloni e sdraio disposti con geometrica perfezione. Per gli stabilimenti vale la stessa regola delle città: quelli all’inizio e alla fine della spiaggia sono le periferie, quelli in mezzo sono i quartieri “buoni”. E nelle periferie, si sa, c’è la vita vera.

Mi è capitato di essere ospite di uno di questi stabilimenti di periferia, ma non uno qualunque, no, proprio il primo in assoluto. In pratica ho preso il sole al Quarto Oggiaro degli stabilimenti livornesi. Trovarlo è facile, due passi dopo la statua di Bud Spencer, non puoi sbagliare. Ecco lì c’è tutta la vera Livorno. E la più altra concentrazione di “teciceni”.

I veri livornesi, quelli con il bollino D.O.C.G. iniziano ad andare al mare intorno al 26 febbraio. In quella occasione si portano il tavolino da pic-nic e lo incatenano all’ombrellone. Lo lasceranno lì fino al 25 febbraio prossimo. In pratica entro la prima settimana di marzo il 98 percento della spiaggia è già occupata, da quel momento chiunque arriverà sulla spiaggia farà alcune semplici mosse. Si guarderà intorno, si avvicinerà con il tavolo da pic-nic in mano e la borsa frigo sulla spalla a un ombrellone occupato ed esporrà una semplice domanda alla persona sulla sdraio: «Te ci ceni?ۛ». Più che una domanda è una supplica, tipo “ti prego, sono le sette di mattina, dimmi che fra dodici ore te ne vai. Guarda, ti offro io una pizza, ma non rimanere a cena qui”.

Lo scopo della domanda è sapere se si libera il posto entro un’ora decente. Come quelli che stanno tredici ore a girare nel parcheggio dei Gigli di Campi Bisenzio in attesa che qualcuno se ne vada. Il “teciceni” è una vera e propria forma di saluto, più di “ciao”, di “piacere”, è qualcosa che ha a che fare con l’educazione «che antipatico, non mi ha detto neanche teciceni», oppure «era una persona tanto buona, diceva sempre teciceni».

Anche i bambini lo usano per fare conoscenza, è il sistema perfetto per rompere il ghiaccio. Capita così di vedere un ragazzino timido che guarda il vicino di ombrellone giocare con la paletta e il secchiello, due solitudini che si cercano. La mamma del timido gli sussurra all’orecchio «Perché non vai a conoscerlo?», con il tono più amorevole del mondo. «Mamma, mi vergogno, che gli dico?», risponde il figlio stringendosi nelle spalle. «Che ne so. Vai da lui, gli dici teciceni e iniziate a giocare insieme», perché l’educazione prima di tutto.

E’ una vera e propria forma di rispetto, che viene insegnata fin dalla prima infanzia. Avete presente quando da bambini camminavamo in mezzo al babbo e alla mamma e incontravamo una loro conoscente? Ecco, qui è uguale. C’è sempre uno dei due genitori che dice al bambino «Su, Igor, dì teciceni alla signora».

Già, i nomi. La posizione degli stabilimenti e i nomi dei bagnanti sono strettamente legati. Qui, nella estrema periferia balneare possiamo avere la conferma di questo ineluttabile assioma cartesiano. Quelli maschili spaziano da: Igor, Iuri, Chevin, Maicol e Attias (che probabilmente è il nome della piazza dove è stato concepito il bambino), tutti, rigorosamente, scritti come si pronunciano. Per le ragazze i nomi variano in base alle soap opera preferite dalle mamme: Bruc (presumo quella di “biutiful”), Sciana (quando si ama), Sciaron e Suellen (moglie di Geiar in Dallas. Ma che ne sanno i “millennials” degli sceneggiati, quelli belli).

I genitori sono abbronzantissimi e tutti, rigorosamente ricoperti da tatuaggi, roba che Fedez scansati proprio. I soggetti disegnati sulla pelle sono per il novanta percento a sfondo politico. Il Che, Fidel Castro con il Che, il Che con la bandiera del Livorno, il che con la falce e il martello e la scritta “Pisamerda” sulla maglietta del Che. E’ un tripudio assoluto di “boia dé, Rivombrosa esci dall’acqua che ti spuntano le branchie. E’ arrivata Donna, vai a dargli il teciceni”.

E allora li vedi arrivare da lontano, il babbo con la borsa frigo a tracolla, che da queste parti chiamano “ghiacciaina” e il tavolo da pic-nic nell’altra, la madre che cammina un passo dietro ai figli Igor e Sciaron. Avanzano a mani giunte, tranne il padre che sta cedendo sotto il peso della ghiacciaina e gli occhi rivolti verso il cielo in segno di supplica. Sono i nuovi discepoli, i templari del tecicenismo.

Marta fa il libera tutti.

Marta sopravvive in una piazza vuota senza far rumore tra una pizzeria e un caffè,

lei ti guarda e ride quando la sua rabbia non riesce a contenerla dentro sé

un vestito rosso, scarpe senza tacco, labbra di cristallo le ginocchia al petto senza età,

e certe giornate si diverte a indovinare il destino di qualcuno che passa e che va,

Quello è un tipo strano, forse è innamorato e non si rassegna a scrivere sui muri frasi sovversive tipo tu sei mia

Marta che sospira, fuma una marlboro, butta fuori l’aria e la guarda andare via.

Se solo anche i ricordi, quelli spaventosi, fossero solubili in lacrime e bestemmie, o potessero affogare alla fine del bicchiere senza riaffiorare allora sì,

sì che si potrebbe respirare, correre e lasciarsi andare, senza la paura di cadere, avere soltanto l’urgenza di esserci.

Marta che cammina, stringe fra le mani, una birra media e la faccia di suo padre che le urla contro frasi scellerate con il pugno in aria già da un po’

Uno sulla schiena, uno sul costato, uno sulla bocca per provare in tutti i modi a cancellarle quel sorriso che si ostina a stare su,

Ma la paura del dolore non era mai abbastanza per farle dire “basta, io mi arrendo adesso, hai vinto tu”,

Marta porta addosso tutti i segni del passato, ma non sono quelli sulla pelle a fare male a farla smettere di respirare proprio no,

certe cicatrici non si fanno mai vedere, come vipere di bosco, escono di notte spargono veleno senza antidoto.

E non ti puoi salvare, non c’è un cazzo da fare, devi lasciarti torturare fino quasi a scomparire, finché non vanno via.

Che certi pensieri sono spaventosi, vivono in simbiosi come fossero due sposi il terrore e la follia.

Marta se ne andò, aveva sedici anni, si lasciò alle spalle, un uomo mostruoso e una madre che sapeva e non parlava, arresa ormai

E tutte le serate a sputare sangue per i pugni presi non avrebbero raggiunto il grado di dolore di quelle parole dette mai.

Marta si è salvata, forse non del tutto, ma ci sta provando a regalarsi il sogno di una vita presa contromano come certa musica,

lei ci sta provando, coi suoi occhi asciutti, a nascondersi dietro a un sospiro e fare “libera tutti” all’anima.

Marta è la nostra terza onda, quella che restituisce tutto, le immagini più belle, ricordi profumati, lenzuola stese al sole e brividi di sale,

lei si è rialzata dopo ogni caduta, perché Marta è sempre stata viva e non sopravvissuta.

Se Marta fosse una canzona sarebbe questa: L’anima non conta (Zen Circus)https://www.youtube.com/watch?v=TtLcvqCCXBI

“Olliuchenit” non ti temo.

Sono allergico all’aloe, alle uova di lompo, alle bacche di goji e a tutto il cibo esotico in generale, Questo per dire che amo le cose semplici, specialmente in cucina. Non piacciono esperimenti strani e soprattutto detesto esplorare sapori sconosciuti. Sì, lo so, che state passando in rassegna tutti i doppi sensi a sfondo sessuale noti al genere umano, ma io sto parlando semplicemente della mia idea culinaria. Scritto tutto attaccato.

Le mie convinzioni gastronomiche si rafforzano ogni volta che qualcuno mi trascina, spesso con l’inganno, in qualche locale dove si dilettano in ricette di cucina alternativa. La settimana scorsa, i miei colleghi di lavoro con uno stratagemma che non sto qui a spiegarvi, mi hanno fatto mettere piede per la prima volta in vita in un ristorante giapponese all you can eat. Che all’inizio ero convinto che “olliuchenit” fosse proprio il nome del ristorante. Per quelli come me cresciuti con il mito di “DanielSan, dai la cera togli la cera” in Giappone può succedere di tutto. Comunque i miei commensali hanno subito provveduto a spiegarmi con parole chiare e dirette il concetto di “all you can eat”: «France, non rompere i coglioni, la traduzione letterale è semplice: mangi quello che cazzo ti pare e paghi quindici euro». Già qui il primo dubbio mi ha assalito: la moneta giapponese è lo Yen, quindi non può essere una traduzione letterale. Comunque ho evitato di farlo notare altrimenti dicono che sono antipatico. Come quando qualcuno parla e io gli correggo i verbi. Quello mi guarda come se gli avessi rigato la macchina. Io ci rimango di merda ma vorrei dirgli quello che mi diceva mia madre ogni volta che mi tirava una ciabatta «Sappi che fa più male a me che a te».

Comunque il concetto è chiaro e io so già che assisterò dal vivo alla più alta rappresentazione dell’era preistorica che il genere umano sia in grado di mettere in scena. Ovvero: metti dieci persone intorno a un tavolo senza limiti sul menù e vedrai l’uomo di Neanderthal, in 3D e con il dolby surround, purtroppo. Di solito quando si va in questi posti esotici c’è sempre un membro della compagnia che ne sa più di tutti gli altri. E’ un abituè del locale, conosce per nome i camerieri e probabilmente con quello che ha speso lì dentro ha sistemato tutti i loro parenti e anche quelli del maestro Miyagi. Entriamo dentro, il personale ci accoglie con un inchino, il nostro compagno “esperto” prende subito in mano la situazione.

Ci accompagna al suo solito tavolo e dice al cameriere di portare i menù e il wasabi. Dopo trenta secondi arrivano due ciotole contenenti un impasto verde tipo i succhi gastrici che vomitava mia figlia quando mangiò il Didò e dieci volumi con il numero di pagine di “Guerra e pace”. Erano i menù. Mi astengo volentieri dall’assaggiare il wasabi e mi concentro sui piatti da ordinare. Sfoglio il libro sacro almeno una decina di volte alla fine azzardo e faccio la mia scelta: patatine fritte! (e vaffanculo al sushi, sashimi e Didò).

I miei compagni di merende iniziano a segnare su un foglio le loro ordinazioni ripetendomi continuamente «questo lo devi provare, è squisito». Uno di loro ordina addirittura i ravioli alla bolognese. Finalmente qualcuno che tiene alta la bandiera della cucina italiana.

Arrivano le pietanze. Il cameriere si presenta con un carrello delle stesse dimensioni del rimorchio di un cingolato Pirelli. Inizia a disporre tutto sul tavolo con un sorriso come a dire “mo’ so cazzi vostri”, in un perfetto dialetto di Hokkaido.

Improvvisamente il nostro banchetto viene sommerso da bocconi bizzarri e colorati, Tutti a base di riso, pesce e ingredienti misteriosi. Riso con salmone, riso e tonno, riso e alghe, risi e bisi, riso e chiwawa, riso sorriso e quanto mi viene da ridere. I mezzo a questo tripudio di ilarità spiccano i ravioli. Prendo coraggio e ne assaggio uno. In quel momento capisco che c’è un errore sul menù. Non sono tortellini “alla” bolognese ma “con” bolognese. Il ripieno è sicuramente fatto con i resti di un contadino della provincia di Modena. Uno di quelli scomparsi nel nulla che gli abitanti dei poderi vicini descrivono ancora come un tipo solitario e taciturno.

A metà del pasto iniziano a verificarsi fenomeni strani: i simpatici bocconcini di pesce non finiscono mai! Sembra il videogioco di Pac Man, più ne mangi più si ricreano. Mi viene il dubbio che il pesce non sia crudo ma vivo e appena ti distrai ne approfitta per accoppiarsi e riprodursi.

Anche le mie patatine fritte sembrano soffrire della stessa sindrome. Oltretutto sono fritte nell’olio Motul con centoventimila chilometri percorsi e l’antigelo Paraflu da cambiare.

Il pensiero “cazzomene, io le lascio nel piatto” inizia farsi strada nella mia testa e mi sento sollevato

Quando ormai anche l’ultimo commensale sta per cedere e perdere i sensi si manifesta nuovamente il cameriere che con i suoi occhietti a mandorla sfoggia stavolta un vero e proprio sorriso di rivincita personale esclamando:

«Signori avete finito?, posso iniziare a contare?».

Contare? cosa deve contare?

L’amico esperto con un master in “inculazioni giapponesi” emerge dal letargo e con un filo di voce bisbiglia:

«Quello che avanza ce lo fanno pagare a parte».

Cosa??? In quel preciso momento mi sento come Lucignolo nel paese dei balocchi quando capisce che si sta trasformando in asino. Anche gli altri membri del gruppo hanno uno scatto emotivo e realizzano che a occhio e croce sul tavolo c’è una cifra pari al pil della Nuova Zelanda. Inizia così una frenetica azione di occultamento delle prove. Qualcuno si mette il sashimi in bocca conservandolo all’interno delle gote, tipo criceto. Altri con un’azione da veri bastardi senza gloria iniziano a lanciare palline di riso stocazzoshimi sui tavoli vicini, ma la tecnica di nascondismo più usata in assoluto è quella di avvolgere tutto ciò che si trova nei piatti dentro a fazzoletti di carta e seppellirlo nelle tasche dei giubbotti.

Andiamo a pagare il conto con aria indifferente, vestiti come zampognari e con un cucciolo di tonno pinna gialla che si agita dentro la tasca destra della giacca.

Le successive dodici ore le passiamo seduti sulla tazza del cesso bestemmiando in giapponese e cercando su Facebook i parenti del contadino emiliano per avere la ricetta ufficiale dei ravioli.

Quindi vi prego, lasciatemi alle mie allergie esotiche e al mio cacciucco di pesce cotto bene. Lasciatemi al mio concetto di cucina culinaria, scritto anche separato.

Il viaggio di un sommerso.

Ti guarderò partire, con quell’aria di chi non si è mai voluto fermare e la giacca di velluto di tuo fratello prima che la guerra se lo prendesse per sempre.

Ti guarderò partire con il berretto in mano e quello sguardo come a dire “forse il mio posto è dall’altra parte dell’oceano. Forse il mio destino un giorno riuscirà a trovarmi e questa smania di capire chi sono mi lascerà in pace”.

Ti guarderò partire appoggiata al parapetto di questo pontile, con una mano a tenere lo scialle intorno al collo e l’altra alzata per salutare. A pensarci bene l’ho sempre saputo che te ne saresti andato. Quelli come te hanno un piede sulla terra e l’altro in mezzo al mare. E allora ti guarderò partire senza poterci fare niente. Abbi cura di te e delle tue scarpe nuove. Ormai la gente prenderebbe qualsiasi cosa pur di non pagare.

Mamma ormai questa gente mi prende già la dignità ogni volta che la nave sta per salpare. Mi mettono davanti a una montagna di carbone da spalare. La bocca della caldaia che vomita scintille e bestemmie a mille gradi. È come se il diavolo in persona si venisse a scomodare per portarmi al centro dell’inferno. Poi i pistoni inizieranno la loro danza. L’elica si muove, la nave si staccherà dal porto e sarà come sentire la tua mano quando mi accarezzi il viso e mi dici che ho l’Atlantico negli occhi.

Dicono che questo oceano visto dalla nave faccia perdere il senso della misura, come un amante esagerato che non riesce a limitare la potenza di un abbraccio.

Io non lo so che faccia abbiano tutte queste onde, non te l’ho mai detto, ma il mio viaggio è sempre stato cinque metri sott’acqua. Loro vedono il sorriso di questo mare smisurato, a me da quaggiù non resta che guardare il cuore cattivo dell’Atlantico.

Ti guarderò partire e mentre l’elica si muove ti immagino in quel posto che tutti chiamano America. Se chiudo gli occhi ti vedo fra dieci anni, con una moglie che sorride mentre tiene in braccio il tuo bambino biondo. Avrai imparato una lingua sconosciuta e mischiato la tua faccia in mezzo a tutta quella gente strana, che ti chiamerà per nome. Diventerai uno di loro, è giusto così, spero solo che non ti vada mai via tutto quel mare dagli occhi.

Ogni tanto mi sembra di sentire le voci di tutta quella gente che sta sopra di me, nella parte umana di questo transatlantico. Immagino i loro volti luminosi i loro sogni spensierati. Si godono il viaggio in attesa di un’esistenza migliore in una terra nuova. Probabilmente non sanno neanche che esistiamo, noi siamo i sommersi e tutto ciò che sta sotto al livello del mare è qualcosa che spaventa.

Mamma quando scenderò da questa nave i miei sguardi saranno asciutti e forse non riuscirò mai a guardare l’America negli occhi. Avrò tutto quel futuro fra le mani e questo è un pensiero che fa più paura dell’oceano.

Non lo so mamma, non lo so come sarà la mia esistenza, forse un giorno tornerò, magari salirò di nuovo su questa nave, starò sulla prua e ti saluterò con la mia giacca nuova.

Ma il tempo dei pensieri è finito, ora è il momento di dar da mangiare alle viscere di questo inferno.

Non preoccuparti mamma, starò bene e sarò al sicuro, proprio come ora mentre sto su questa nave che dicono non possa mai affondare. Lo dicono spesso e ne vanno fieri. Ogni tanto qualcuno scende fin quaggiù per farcelo sapere.

“Andrà tutto bene” ci dicono, “questo è il primo viaggio di una nave che non può affondare”.

Dovresti sentirli, mamma, come lo dicono bene.

È un pensiero che mi rassicura e rende sopportabile il tempo passato cinque metri sott’acqua, coperto dal nero di questo carbone, a guardare il cuore cattivo dell’Atlantico.

(Palesemente ispirato da “L’abbigliamento di un fuochista” – De Gregori).

La gente che sta bene.

(Mamma, se stai per leggere questa cosa rilassati, non è autobiografica).

Finalmente ho molto tempo libero, è un desiderio che ho espresso tante volte e ora qualcuno mi ha ascoltato. A quarantanove anni ho perso il lavoro. Un calcio nel culo e via, Come diceva Oscar Wilde “ci sono due grandi tragedie nella vita. La prima è desiderare ciò che non puoi avere. La seconda è ottenerla”.

«Ci dispiace ma questo ramo dell’azienda verrà chiuso», mi hanno detto, «ma non si preoccupi, alla prima occasione la richiamiamo. E poi, un uomo con le sue capacità non avrà problemi a trovare un altro impiego». C’è solo un piccolissimo particolare: un uomo con le mie capacità, quando si ritrova disoccupato perde immediatamente il grado di “uomo”.

Ma chi se ne frega, vediamo il lato positivo. Posso fare ciò che voglio. Conoscere un sacco di gente nuova, ogni giorno, almeno una decina di facce sconosciute che mi fanno sempre le stesse domande. Mi squadrano da dietro la scrivania. Con la loro giacca di un blu rassicurante, segnano le mie risposte su un foglio impegnandosi a celare, con pessimi risultati, un sorriso inopportuno quando dico la mia età. Molti mi congedano con la frase «le sue conoscenze sarebbero sprecate per la nostra azienda, si merita qualcosa di meglio». Mi ricordano quei fidanzati che si separano e uno dice all’altro «ti lascio perché ti meriti di meglio». Che cazzo di frase è? Fatti i cazzi tuoi, io voglio una storia di merda. Voglio un lavoro di merda.

Dicono «ti aiuterà la famiglia», certo, come no. Mia moglie mi ha lasciato quattro anni fa, perché mi “meritavo qualcosa di meglio”. Lei invece si è sacrificata per me e adesso convive con un direttore di banca. E’ sempre stata una donna altruista e si vocifera che sia anche in odore di santità.

M dai, non mi lamento, mi restano gli amici, quelli veri. Loro ci sono sempre, è bello passare del tempo insieme. Sì insomma, quei tredici secondi. Il tempo necessario per incrociare il mio sguardo e cambiare strada. D’altronde sono “la gggente che sta bbbene”, si sono salvati dal cataclisma e adesso si sentono tutti un po’ più Flavio Briatore. Come lui si tengono alla larga da certe persone perché potrebbero attaccare la povertà. Fosse per loro girerebbero con una mascherina sulla bocca come i cinesi, magari brandizzatata Dolce e Gabbana. Alcuni vecchi amici mi guardano con disprezzo, altri con compassione. Potendo scegliere preferisco la prima. E’ molto meno umiliante, credetemi.

Ma non importa, sono riuscito comunque a farmene di nuovi, di amici intendo. Ho scoperto per esempio che alcuni dei pensionati che vengono a vedere il cantiere della nuova metropolitana hanno un cuore grande così. Si chiama cardiomegalia e si può curare con una sana alimentazione. Altri invece di grande hanno la prostata e quella è come le corna: te le tieni così e basta.

La mia condizione ha un altro lato positivo, molto positivo direi. Ogni notte posso dormire in un posto diverso. Tanto che insieme a un mio socio clochard stiamo progettando un’applicazione: BarboniAdvisor. Rileva la tua posizione e ti dice in tempo reale se ci sono sottoponti, panchine attrezzate, portici e androni accoglienti intorno a te. Se scarichi la versione a pagamento hai diritto anche a un chilo di cartone quattro metri per due.

In tutto questo tempo da portatore sano di disoccupazione ho capito che il lavoro è l’unità di misura della tua dignità. (e su questa, caro Oscar Wilde, scansati proprio). Se consegni bevande a domicilio puoi salvare la vita al Papa, ma rimarrai sempre “l’omino dell’acqua”. Non c’è un cazzo da fare.

Ma ormai non ho più di questi problemi, vivo la mia disoccupazione con serenità, come quelli della pubblicità del Tena Lady. Ecco, ci vorrebbe un assorbente per noi poveri, perché siamo fra voi, ci trovate sugli autobus, nei sottoscala della metro o fuori da qualche supermercato. Ogni tanto sorridiamo, almeno un paio di volte al giorno beviamo, cerchiamo di limitarci ma due o tre volte a settimana cediamo alla tentazione e mangiamo qualcosa. Facciamo di tutto per trattenerci ma spesso ci scappa pure di respirare. Quindi, datemi ascolto, voi che state bene, datevi una mossa e iniziate a distribuire al più presto il Tena Povery. Perché ce la mettiamo tutta, ma iniziamo a puzzare troppo di umanità. E questa sì che è una piaga sociale.

Limbes. (parte 1 di boh)

Questo è una parte di un qualcosa a cui non riesco a dare un senso logico, ma che comunque ha il diritto di prendere aria. Forse ci saranno altre parti, forse no, lasciamo fare al caso.

Chi arriva a Limbes si ritrova davanti a questo lago che si illude di essere mare, acqua che travisa lo sguardo dei passanti, nascondendo alla vista gli argini della riva opposta. Un tappeto liquido che porta con sé una nebbia complice. Il mago e l’assistente, imprescindibili l’uno dall’altra. È questo che fa il presuntuoso lago, ammalia le menti, offuscandone la percezione, come una donna che sfuma il perimetro della pelle con abiti morbidi nel tentativo di regalarsi un profilo migliore.

Le persone giungo qui attraversando il lago, si materializzano lentamente, oltre i rovi della nebbia. Sono un punto in lontananza che, col passare dei minuti, prende la forma di una barca. Arrivavano remando. Tutti. Come se dall’altra parte non esistessero barche a motore. Hanno lo sguardo fisso davanti a loro, mentre affogano i remi nel lago facendoli riemergere prima che sia troppo tardi. Poi rimettono i legni di nuovo in acqua e poi in aria. In un eterno equilibrio fra la vita e la morte.

Quelli che arrivano qui hanno una luce. Tutti. Fosse anche solo una candela, una lampada a olio o chissà quale altra diavoleria che a contatto con la foschia si trasforma in un alone biancastro. Li vedi in lontananza, con questa idea di faro messa sulla prua, sembrano anime sfuggite a un castigo, e forse lo sono. Forse quel castigo se lo portano dentro. Appena toccano terra la loro luce svanisce, come a sancire la fine di un viaggio che non ha più bisogno di schiarite.

Era quasi l’inizio di un nuovo autunno quando Piero giunse a Limbes, più che un paese, uno sputo di mondo. Uno di quei luoghi che molti chiamerebbero frazione, come a sottolinearne l’inferiorità. In posti come questo la vita segue logiche alternative, chi vive qui non si fa troppe domande su ciò che accade, qui le persone si limitano a prendere atto, adeguandosi al naturale svolgimento degli eventi. Limbes è una frazione, così come lo sono le emozioni rispetto a un amore, un posto piccolissimo con l’infinito del mondo a disegnarne i confini. Tutti quelli che sbarcavano qui cercavano qualcosa, Piero giunse in cerca di un perdono.

Arrivò come arrivavano tutti gli altri, su di una barca a remi, ma non aveva nessun tipo di luce sulla prua, niente lampade, niente candele, niente di niente. Solo lui e la sua barca. E un pianoforte sopra. Un pianoforte a mezza coda, nero, come se ne vedono pochi in giro. Linee morbide, suono leggermente graffiato, in altre parole un connubio perfetto di legno, corde e bestemmie. Come diavolo fosse riuscito a trascinarlo fin qui senza far affondare la barca rimane un mistero. Gli abitanti di Limbes si limitarono a prenderne atto.

Scese dalla sua barca trascinando a fatica il pianoforte sulla terraferma, tornò a prendere lo sgabello e si sedette davanti al suo strumento, poi con lo sguardo perso chissà dove appoggiò le dita sui tasti bianchi e neri. L’intenzione di iniziare a suonare non lo sfiorò neanche per un attimo.

Piero Giuliani trascorreva le giornate sulla spiaggia, con quel lago a fare da sentinella, seduto al suo pianoforte. Applicava un rituale consolidato: lasciava cadere la giacca delicatamente, arrotolando le maniche della camicia appena sotto al gomito e si sgranchiva le mani. Gesti  precisi, armoniosi e impeccabili. Posava le dita sui tasti, senza affondare il colpo. E apriva gli occhi, rimaneva così fino alla fine del giorno, senza suonare neanche una nota. Con lo sguardo teso verso un qualcosa che vedeva solo lui, oltre la spiaggia, oltre il sipario di nebbia. Oltre ogni cosa visibile. Se qualcuno avesse avuto il coraggio di domandargli cosa stesse guardando, lui avrebbe risposto perentorio – Il mare aperto –.  Lo avrebbe detto come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

Guardando quell’immagine dalla strada si aveva la sensazione di trovarsi di fronte a un quadro, uno di quelli appoggiati momentaneamente in un angolo, tra il pavimento e la parete, che interrompono le linee ordinate della stanza . Era la visione di un pianoforte a mezza cosa in attesa che il suo condottiero si decidesse a prendere le briglie per iniziare una cavalcata a perdifiato. Quella meraviglia di strumento era un alveare che racchiudeva uno sciame di note, pungenti e smaniose, che proprio non ne volevano sapere di rimanere chiuse in quella prigione di corde e legno. Si dimenavano, sbattevano contro le pareti, alcune perfino imploravano l’uomo seduto di fronte a loro di renderle libere. Lui non le guardava neanche, teneva lo sguardo teso verso d  solo sa cosa, avvicinava le dita a quel tappeto di tasti, senza sfiorarli. Con movimenti impercettibili faceva salire quelle note su per le mani, lungo le braccia, le lasciava confluire al centro del torace, su per il collo, in mezzo alla gola. Un tumulto di suoni armoniosi, graffianti, come quando non c’è via di scampo; ma anche ballate dolci, di quelle che ti profumano i pensieri , notturni leggeri, capaci di prenderti per mano e portarti a spasso per i tuoi sogni. Tutta quella musica, silenziosa e testarda arrivava alla sua mente, fermandosi al centro di un’emozione. E moriva.

Dal pianoforte non usciva nessuna melodia,  ma in realtà Piero Giuliani stava suonando. Perché ognuno suona la propria musica, che  lo voglia o no e nella mente di Piero si affollavano armonie composte molti anni prima, suoni che lo tormentavano, odori che diventano nodi irrisolti. Insieme ai suoni arrivavano immagini, perché è questo il meccanismo diabolico dei ricordi. Vedeva una sposa innamorata e sognante, una bambina intenta a raccogliersi i capelli in una treccia, ma vedeva anche le liti furibonde, quella donna in una camera bianca d’ospedale, quella bambina che non riusciva a capire la forza devastante di certe malattie della mente. In mezzo a tutto questo c’era la musica, pronta a curare i patimenti creandone di nuovi, l’antidoto e il veleno. Piero Giuliani non riusciva a fare a meno di quella dolcissima ossessione. In qualche modo salire su un palco e iniziare a suonare era la sua salvezza e allo stesso tempo la sua condanna.

Guardando quell’immagine dalla strada si aveva la sensazione di trovarsi di fronte a un uomo che guardava lontano in cerca di un’ispirazione, in realtà Piero Giuliani stava seduto sulla riva del lago in attesa di un perdono.