VAFFANCULO FRANCESCO

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Sono quello che ride,
quello che poi s’incazza
sono sempre distratto
quello senza corazza
devo ancora capire
questa vita cosa mi vuole dire

Sono quello che canta
Mentre guido da solo
E in questa giostra che gira
Cerco ancora il mio ruolo
In questo mondo che danza
Sento di non essere mai abbastanza

E non so cucinare
E mi perdo per strada
Sono un po’ Don Chisciotte
Però senza la spada
Faccio sempre fatica
A capire cosa vuole la gente che dica

Non sono mai puntuale
Non capisco l’inglese
E vaffanculo Francesco
Tu e le tue frasi sospese
Sento il tempo che vola
Con le parole che mi muoiono in gola

E non ho un cazzo da dire
A chi mi chiede consigli
Ho progetti a marcire
Dentro i miei ripostigli
E ho finito i cerotti
Per certi sguardi che sembran cazzotti

E mi sento stocazzo
Perché incastro parole
Mi sento come un bambino
Con le sue capriole
Ma scrivo solo cazzate
Spesso inutili come certe giornate

Forse sono normale
Forse solo un coglione
Forse sono felice
forse è disillusione
e ha proprio ragione
chi mi vuole cambiare
ma certi giorni, davvero, io non so come fare.

La musica di Matilde.

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Erano le 23:30 e il regionale 11740 arrivava distratto al binario 6, distratto e leggero, con rumori e fischi conosciuti, talmente conosciuti che passavano inosservati. Silenziosi direi.
Matilde guardò fuori dal finestrino del vagone, il cartello appeso al soffitto diceva “Firenze S.M.N.”. Se ne stava lì, immobile, il cartello, come un’altalena sopra i visi della gente, con quel nome freddo e tassativo, avvisandola che era giunto il momento di scendere. Dal vagone, dal libro che teneva fra le mani e dalla sua vita. Anche se ancora non lo sapeva.

Le stazioni, alla fine, sono tutte uguali, un po’ deserte, un po’ distanti dal mondo, le persone parlano sottovoce come se fossero in chiesa, o almeno, così le immaginava Matilde. Tutte quelle persone che camminano sicure, come se stessero attraversando un incrocio con il verde al semaforo, si sfiorano senza toccarsi, si vedono senza guardarsi. Ma in tutte le stazioni, qualunque sia la stagione, in tutte, sempre, soffia uno strano vento freddo.

Matilde controlla le lettere che corrono veloci sul tabellone degli orari, il treno per Bologna è stato cancellato, soppresso, svanito nel nulla. Il prossimo parte alle 4:35.
Vorrebbe chiedere informazioni, ma non può e comunque, non servirebbe. Tira fuori un blocchetto dalla borsa e una penna dalla tasca dei jeans, sta per scrivere qualcosa, poi ci ripensa, alza gli occhi al cielo e decide di uscire da quella dimensione  di finta realtà, tiene la penna fra le dita, è il suo ago per far scoppiare la sua bolla e riprendere contatto con la vita.

Matilde cammina verso l’uscita leggendo i messaggi dei cartelli appesi al muro, Andrea verso l’entrata leggendo i messaggi di un addio appeso al telefono. Si scontrano. Un impatto frontale, uno scontro devastante e senza sangue, l’incidente di un risveglio. Non c’era nessun incrocio, nessun semaforo da rispettare, nessuna direzione precisa da inseguire, forse è per questo che si sono sfiorati e toccati, visti e guardati.

“Perdonami ero distratto, ti sei fatta male?” Matilde sorride e dice no con la testa,
“Per farmi perdonare posso offrirti da bere?” lei sorride, non risponde ma sorride. Ancora,
“Ma non sei italiana? Capisci la mia lingua?” lei annuisce e Andrea prende il “Sì” come risposta, lo prende per entrambe le domande.
“Ok, facciamo così, parlo solo io, tu ascolti e basta, ci stai?”. Lei sorride e quello è il “Sì” più bello che potesse pronunciare.

Camminano vicini, lui parla dei suoi progetti, di un amore finito all’improvviso, dell’estate che sta per arrivare, che dicono sarà una delle più calde del secolo.
Parla di un viaggio a Copenaghen, della gente di lassù che sorride con un suono di monete cadute in un piatto di vetro, parla della musica, di come l’ha amato e tradito e poi amato ancora e poi tradito. Ancora. Tira fuori l’ipod dalla tasca della giacca, dicendo “ascolta e se ti piace, fammelo capire. Se ti piace sorridi.”. Lei non sorride, ma si mette a ballare, su un tempo tutto suo, fregandosene della cassa e del rullante della batteria, balla anche se la musica è finita da un pezzo, balla perché ha bisogno di farlo, perché è il suo modo di andare oltre le parole della gente, oltre i pensieri, oltre i pregiudizi. Ad occhi chiusi balla, come se il tempo si fosse dilatato,balla perché questa notte sta per finire e chissà quando ce ne sarà un’altra così, balla tenendo le mani di Andrea che non dice niente. E sorride.

Sono le 4:30 del mattino, il treno per Bologna sta arrivando, Matilde lascia la mano di Andrea, tira fuori un blocchetto dalla borsa e una penna dalla tasca dei jeans, la usa come un ago per far esplodere la bolla che la tiene prigioniera, scrive qualcosa, si avvicina ad Andrea, gli mette la mano destra sul petto, all’altezza del cuore, con la sinistra  gli lascia un foglio fra le dita, lo guarda negli occhi, lo bacia sulle labbra. Sorride.

4.40, il treno è stato inghiottito dalle luci del mattino, Andrea legge le parole disegnate sopra il foglio “Mi chiamo Matilde, almeno credo, non sono straniera, almeno credo, non ho mai udito nessun suono in tutta la mia vita, ma se l’amore è una musica, allora stanotte ti ho amato”.

Perché a certe notti, come a certi amori, non servono parole da pronunciare, cadono così, come cade l’umidità sopra i panni stesi al tramonto. Perché certe emozioni non hanno bisogno di essere tradotte, non vanno spiegate, sarebbe riduttivo, devono essere così: perfette e indefinite. Perché capirsi senza parole è come baciarsi al buio dei portoni, è prendersi le mani incrociando le dita in un un’unica esistenza, è avere qualcuno che arriva alle spalle mettendoti le braccia intorno alla vita. Intorno a tutta la tua vita.

Sono le 7 del mattino, Firenze si è svegliata, Andrea cammina distratto per le vie del centro, ha gli auricolari nelle orecchie, un foglietto nel taschino della giacca, sfiora le persone che camminano veloci, le sfiora senza toccarle, le guarda senza vederle.

E sorride..

“E ricordati, io ci sarò. Ci sarò su nell’aria. Allora ogni tanto, se mi vuoi parlare, mettiti da una parte, chiudi gli occhi e cercami. Ci si parla. Ma non nel linguaggio delle parole. Nel silenzio” (Tiziano Terzani).

Matilde stanotte ha ballato su questa canzone (Tonight, Tonight – The Smashing Pumpkins)

Alla corte di Madame Sitrì.

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C’è l’anima di un gatto ammaliante dentro ognuno di noi.

Ne senti la presenza, si aggira sinuoso fra un ideale tradito e un principio venduto al mercato rionale, rimane in agguato e non sai mai quando uscirà allo scoperto, in realtà preghiamo sempre che resti al suo posto, ma non sarà così. ci cammina dentro silenzioso, si muove furtivo attorno ai nostri ideali, ci tenta, ci seduce, ci rende instabili, ci rassicura, come un bacio lento che vorresti non finisse mai

È il nostro mistero, il nostro lato in penombra, ci graffia con i ricordi e ci ammalia con gli entusiasmi.
È il nostro riflesso imprevedibile, seducente e profumato come le prostitute del bordello di Madame Sitrì, ci illude, ci regala l’impressione di poterlo controllare, si sdraia docile ai nostri piedi, per poi sbranarci nei momenti meno opporuni.

Si impossessa di noi mentre discutiamo animatamente, mentre tiriamo sassi contro un dolore fuori controllo, mentre guardiamo la nostra America allontanarsi asciugandosi il viso. Pilota le nostre parole, quando le frantumiamo contro i muri di due occhi indifesi, esce fuori sfoderando artigli affilati e straccia le vesti di quell’anima che ci aspetta da sempre, si accanisce sulla carne di chi ci ascolta morendo in silenzio.

Nessun rumore, si lascia accarezzare e poi con un balzo improvviso si prende gioco di noi, è la nostra lingua impulsiva che sputa sentenze, la nostra voce alterata che sbandiera rancori, le nostre mani agitate che spostano aria rabbiosa.
Si muove con grazia il nostro gatto lascivo, si strofina indecente come un’amante vogliosa, con il sul manto lucido di una bellezza inquietante, poi svanisce ammiccante dietro la tenda della finta normalità, ci sfida a seguirlo alzando la coda, invita a duello il nostro volere insicuro.
È il nostro sabato ozioso, il nostro istinto più vero, il desiderio straziante di affondare le mani dentro una voglia indecente.

Dà la caccia in eterno al nostro autocontrollo, lo trova, lo sbrana, lo nasconde in soffitta, ogni tanto lo libera per torturarlo di nuovo.
È il nostro grido ovattato, che trova uno sfogo improvviso, è il fuggiasco in attesa di un carcere nuovo, è lo sparo mortale ad un sogno in affitto.
È come quando ti manca talmente qualcuno che ti senti un teatrante senza il suo boccascena.

E allora nel silenzio più totale la sento che si muove con passo felpato, finalmente la guardo e la lascio graffiarmi, mi spaventa e mi cura. L’ anima errante del mio gatto randagio.

“Ognuno di noi è una luna: ha un lato oscuro che non mostra mai a nessun altro.”
Mark Twain, Seguendo l’equatore

Se l’anima del mio gatto avesse una forma, mi piacerebbe che fosse così: Cats In The Cradle

Solo un sacchetto sul diaframma.

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Come quando ti volti e loro sono sparite, stavano lì, sul sedile del passeggero o sul sellino della moto, ti sei distratto un attimo e non c’erano più. Perchè le parole sono fatte così.

Si, loro spariscono, o magari ti rimangono piantate sulla bocca dello stomaco, e non sentono ragioni, restano lì si siedono e ti guardano.
Una volta un’amica mi disse: “dentro di me c’è una piccola Shirley Temple che mi osserva seduta con le gambe incrociate e la faccia seria”. Ecco, io su quella sedia ho il sacchetto delle parole perse, quelle non dette, quelle che sono state per un attimo sulla punta della lingua ma alla fine non hanno avuto il coraggio di fare il salto. Quelle che “volevo dirtelo da tanto”, “volevo dirtelo ma non ho fatto in tempo”.

Parlano di paure e di amori, di sconfitte e pianti inconsolabili e di persone, parlano sempre di persone le parole non dette. Sono quelle che raccontano di noi, frammenti dei nostri pensieri censurati e ricacciati giù in fondo, raccontano storie. Sono piene di “se lo dico poi succede un casino”, “se lo dico poi cambia tutto”, “se lo dico poi capiscono chi sono veramente”.

Ma nonostante tutto dobbiamo trovare un modo per respirare e quel sacchetto sul diaframma pesa sempre di più e allora siamo costretti a cercare uno stratagemma, a farle uscire in un modo o nell’altro. E alla fine lo troviamo. Nei silenzi.

Si nascondono lì le parole non dette. Nelle pause all’interno di un discorso, nei colpi di tosse strategici, negli “oddio” e negli “mi serve una sigaretta”, negli sguardi infiniti verso l’isola d’Elba, nei sorrisi fuori luogo, nelle mani passate fra i capelli. E sempre costantemente in ogni maledetto silenzio.

E impari a conviverci con i tuoi silenzi, a gestirteli, a cavartela da solo, che gli altri neanche immaginano quante parole non dette ci sono in quegli attimi assordanti. E anche se è contro il regolamento, vorresti regalare un pò dei tuoi silenzi, donarli a qualcuno, toglierli dai tuoi, che ne hai già avuti tanti.
E arrivano improvvisi quei silenzi, come il libeccio d’autunno, che non è mai il momento buono, che non eri preparato che adesso sì che avresti davvero bisogno di frugare in quel sacchetto e tirare fuori la parola perfetta.
Quella che sistemerebbe tutto, che porterebbe ogni cosa a suo posto, che se la dici succederà un cazzo di casino ma te ne fregherai.

Come quando mi volto e da qurant’anni le trovo lì, le mie parole non dette e i miei silenzi, e ogni volta sono diversi, ogni volta più pesanti. E ogni volta ci muoio un pò.

“”Gli uomini cantano quando le parole non bastano, quando non riescono a dirle, forse perché da sole sarebbero persino ridicole.”. Roberto Vecchioni.

Sul filo tra le mosche e il Jackpot.

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Un po’ di tempo fa un’amica mi ha parlato della sua “strana” situazione sentimentale: é decisamente interessata (a dir poco) ad un uomo e, da quanto mi ha raccontato la cosa sembra essere corrisposta.

Ecco, ora vi chiederete cosa ci sia di strano. Niente, se non fosse per il fatto che entrambi non si decidono a parlare apertamente.

Certo, la situazione è più complicata di così, lui non è libero, ci sono amici comuni o comunque persone che hanno legami affettivi da entrambe le parti. Ok, tutto legittimo, non si discute, ma il punto sul quale ho riflettuto in questi giorni è che queste due persone non sono le uniche che conosco che vivono fra “color che son sospesi”. Esiste uno stuolo di “vorrei ma non posso” o addirittura di “e se mi dice no?”. Ecco, quest’ultima condizione mi colpisce ancora di più.

Si, perchè se nel primo caso posso capire che ci siano situazioni in ballo che fanno (giustamente) da deterrente, nel secondo caso è decisamente uno stato di limbo che in qualche modo è quasi rassicurante.

Sono i classici atteggiamenti di chi si accontenta del premio di consolazione piuttosto che puntare decisi al Jackpot. Ci basta vedere l’altra persona per un aperitivo, un caffè veloce o una cena informale (se siamo più audaci). E’ un rituale fatto di sguardi, parole non dette, sorrisi innocenti che coprono gli slanci di passione. E allora finiamo per abbrarciarci come buoni (finti) amici quando si avrebbe voglia di baci sul collo, mani nelle mani, bocche incollate. Si, quello sarebbe il montepremi finale, ma abbiamo paura di non meritarcelo, è molto più tranquillizzante galleggiare sulla nostra barchetta piuttosto che immergersi per ammirare i coralli dei fondali.

Ma quanto è faticoso, quanto autocontrollo dobbiamo usare e soprattutto, quanto è soddisfacente un rapporto in questi termini?

Ci sono tantissime persone che realmente preferiscono non avere una risposta, che non si dichiarano apertamente perchè non si troverebbero a loro agio con un “no” (ma a volte anche con un “si”) come risposta. Già, perchè avere un responso è cosa impegnativa, qualunque esso sia. Comporta responsabilità o comunque un cambiamento deciso nei nostri comportamenti futuri. Far capire in modo chiaro (e possibilmente inequivocabile) i nostri sentimenti è un rischio altissimo, perchè certe parole non hanno vie di fuga e una volta messe sul piatto non possiamo ritirare la mano. Ormai ci siamo esposti, il re è nudo e non ci resta che trattenere il fiato in attesa che la corte emetta la sua sentenza.

La consapevolezza che dopo non sarà più niente uguale, è questo che ci spaventa maggiormente, non tanto il risultato, che sia una grande disfatta o un’esaltante vittoria, avremmo irrimediabilmente cambiato la nostra situazione. Ciò non significa che dobbiamo per forza perdere l’altra persona, sarà semplicemente cambiato il modo di rapportarsi, ci saremo tolti la maschera, cosa non da poco intendiamoci, e possiamo dire di essere stati onesti con noi e con chi ci sta di fronte. Una cosa piuttosto rara, ve lo assicuro.

Personalmente sono un pessimo equilibrista e non riesco a vivere a lungo nell’incertezza, l’autoflagellazione non mi appartiene, preferisco un doloroso rifiuto ad un fastidioso “chissà”. Se provo interesse per un’altra persona lo si capisce quasi subito, certo, vado per gradi, piccoli passi per sondare il terreno, ma alla fine…salto. E come tutti, non è il volo a preoccuparmi maggiormente, ma le conseguenze dell’atterraggio.

Si, lo confesso, forse sono un maledetto egoista, me ne frego di essere sereno, io voglio essere felice. Il premio di consolazione non mi consola affatto, voglio il jackpot, a costo di tornare a casa con un pugno di mosche.

In alcuni casi storie d’amore bellissime non nasceranno mai e rimarrano incarcerate nel “preferisco così”. E poi venite a raccontarmi che chi si accontenta gode.

Forse è proprio questo il grande male che schiaccia l’umanità: non il dolore, ma la paura che le impedisce di essere felice.
Sándor Márai