I sognatori non hanno un cazzo da fare.

«E se loro si mangiano il mare?»
«Noi ci mangiamo il porto con tutte le barche. E se ci fanno girare i coglioni, ci mangiamo anche i pescatori».

«E se loro si mangiano i ponti?»
«Noi ci mangiamo i fiumi e le cascate».

«E se loro si mangiano i campi di pallone?»
«Noi zitti zitti ci mangiamo il codino di Roberto Baggio».

«E se loro si mangiano la musica?»
«Noi ci mangiamo gli spartiti e i rullanti. E siccome siamo figli di puttana, ci mangiamo pure il pianoforte di Ludovico Einaudi».

«E se loro si mangiano i tramonti?»
«Noi ci mangiamo le strade e i pensieri belli».

«E se loro si mangiano le risate?»
«Noi ci mangiamo le giornate piovose».

«E se loro si mangiano le piazze?»
«Noi ci mangiamo le bandiere, i cortei e tutte le rivoluzioni».

«E se loro si mangiano i teatri?»
«Noi ci mangiamo i baci delle ultime file».

«E se loro si mangiano i muri?».
«Noi ci mangiamo le frasi d’amore lasciate ad asciugare».

«E se loro si mangiano le parole?»
«Noi ci mangiamo i libri, tutti quanti».

«E se loro si mangiano le poesie?»
«Noi ci mangiamo Silvia, Rossana, Beatrice, Giulietta e visto che ci siamo, ci mangiamo anche Alda Merini».

«E se loro si mangiano i quadri?»
«Noi ci mangiamo la sposa nel vento e tutte le madonne con il bambino, ci mangiamo Frida e tutti gli amanti. E se ci fanno incazzare, ci mangiamo pure Amanda Lear».

«E se loro si mangiano le feste di paese?»
«Noi ci mangiamo tutta la banda e lo zucchero filato».

«E se loro si mangiano le domeniche mattina?»
«Noi ci mangiamo i panni stesi e una donna in cucina che canta De André».

«E se loro si mangiano la storia?»
«Noi ci mangiamo i lager, Norimberga, Marzabotto, Evita Peron E giusto per rompere il cazzo, ci mangiamo pure la motocicletta di Che Guevara».

«E se loro si mangiano l’Africa?»
«Noi ci mangiamo le mani tese e i capitani sovversivi. E per farli incazzare davvero, ci mangiamo anche il cuore immenso di Gino Strada».

«E se loro si mangiano i sogni?»
«Noi ci mangiamo le stelle e tutti i cassetti, i vetri appannati e le giornate di Aprile. E se continuano a rompere le palle ci mangiamo Firenze vista dal Piazzale».

«E se loro si mangiano le storie d’amore?»
«Noi ci mangiamo tutte le panchine, i vetri appannati e Cesare perduto nella pioggia. E siccome siamo molto cattivi, ci mangiamo pure l’addio di Casablanca nel tramonto».

«E se loro si mangiano il futuro?»
«Noi ci mangiamo quelli controcorrente, gli idealisti e tutti quelli che non si rassegnano. E anche se non servono a niente, ci mangiamo pure i sognatori, che tanto quelli non hanno un cazzo da fare».

«Va bene, ho capito, ma il tempo sprecato si conta o non vale?»
«Ma che cazzo di domande fai? Finisci di mangiare e poi mettiti a dormire. Fuori la situazione non è buona».

Il fastidio e la speranza.

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Non amo molto le categorie, anzi non le amo per niente, ma a pensarci bene di una ne faccio parte. Quella dei rimasti.

Siamo strani, leggermente indecifrabili, altamente incompatibili con la realtà e per cercare di sopravvivere, quelli come noi, sono rimasti. Ad un certo punto ci siamo fermati, senza accorgercene siamo rimasti un passo indietro, magari è stata solo una frazione di secondo, magari è stata colpa di un sorriso avuto gratis, abbiamo iniziato a rallentare e alla fine siamo rimasti fermi. Mentre tutto il resto andava avanti senza di noi. Noi guardiamo in disparte quelli che cavalcano l’onda, con una frenesia che non ci appartiene.

Siamo quelli che vivono nei ricordi, li spolveriamo, li guardiamo rapiti, come se fossero le nostre opere d’arte, non li tocchiamo, ma li veneriamo come dèi pagani.
Sono quel tipo di ricordi che quando ci pensi senti di nuovo l’odore della pineta dopo un temporale, e sorridi, inspiri ancora e senti sui polpastrelli la pelle nuda della tua prima volta, ma non ti basta, dai, un altro respiro, ed ecco sul palato quella lingua che sapeva di Winston e caffè, dai, dai, ancora uno, l’ultimo, lo giuro, ancora uno e poi basta, respira, e arrivano le luci di una periferia che ti ha rubato trent’anni di vita, oltre al portafogli.

Lo so, adesso vorresti respirare ancora, ne hai bisogno come un tossico della sua dose, ma non è così che funziona, no, adesso è tempo di smettere di inalare aria e di aprire gli occhi. E non ti illudere, questa non è la parte più difficile, no, il difficile è rendersi conto che non c’è più nessuna pineta, nessun bacio, nessuna periferia. Ci sei solo tu, che ti sei fermato a ricordare, che sei rimasto indietro, che sei rimasto lì.
Come ti senti adesso? Ti senti imbrogliato, incazzato, fottuto, arrabbiato. Ed è adesso che devi decidere come fare la prossima mossa e non farti illusioni, non avrai possibilità di rimediare, sbaglia adesso e la partita è chiusa. Puoi trascinarti fino al giorno dopo sperando di avere un ricordo in più, così, succube, alla ricerca della tua dose di coca, o almeno di un po’ di metadone, lasciandoti vivere senza una cazzo di battaglia in cui farti valere. Oppure proiettarti verso il futuro, anche quando il pronostico di un sorriso sembra quasi impossibile.

Perchè è dura restare indietro, ma è ancora più dura muovere un passo. E noi che siamo rimasti lo sappiamo bene, conosciamo perfettamente quella sensazione di speranza e fastidio che ci assale quando qualcuno viene a prenderci a calci nel culo per farci muovere, si, speranza e fastidio, è sempre così, il fastidio di chi ci vuol far capire la differenza fra vivere e lasciarsi vivere. E la speranza che qualcuno noti la nostra assenza, che torni indietro e ci costringa a dimenticare qualcosa, che ogni tanto per muovere un passo è necessario dimenticare qualcosa. Anche se non ne abbiamo voglia.

Tutti quelli della mia categoria sono rimasti. Di solito è proprio un attimo preciso.
Il mio no, io mi sono fermato un giorno qualunque, di un anno qualunque, in un parco qualunque, alle 14:37, quando qualcuno mi disse “voglio solo che tu sia felice”.

È vero, c’è il fastidio, ma voi che siete avanti non ci fate caso, venite a prenderci, noi siamo lì, sempre lì, aggrappati alla sicurezza effimera dei nostri ricordi. Siamo ancora lì, sempre lì. Noi siamo quelli che sono rimasti.

“I ricordi veramente belli continuano a vivere e a splendere per sempre, pulsando dolorosamente insieme al tempo che passa.
Banana Yoshimoto

Per tutti quelli che ci aiutano a raggiungere il centro del labirinto.

La piadina degli addii.

addii

Ogni tanto succede che debba salutare qualcuno, talvolta per scelta mia, altre volte per scelta altrui.

Confesso, che fra le due ipotesi preferisco la seconda, si, è sicuramente meno impegnativa, magari ugualmente dolorosa, ma sapere che l’artefice di tale distacco non sono io mi rincuora.
Può sembrare un concetto egoistico, e forse lo è, però essere dalla parte di colui che subisce mi fa sentire meno responsabile, è un pò come dire “prendo atto della tua decisione, accuso il colpo, ma non posso farci niente”.
È una condizione in cui mi è capitato di trovarmi, non posso fare altro che stringere l’altra persona in un abbraccio e augurarle buon viaggio della vita.

Ma dover essere io a prendere questa decione, bhe, lì è un’altra storia.
Partiamo da un principio: odio gli addii. Siano essi amichevoli o burrascosi. Non trovo mai le parole giuste, balbetto, distolgo lo sguardo, cerco di stemperare la sacralità del momento con qualche battuta idiota. Le parole mi muoiono in gola soffocate da quel maledetto nodo che non ne vuol sapere di sciogliersi.

Ieri è successo. Solo che invece di salutare una singola persona, ho saluto un gruppo. E ammetto che nonostante mi fossi preparato all’evento in modo scrupoloso, cercando di studiare gesti ed espressioni, ecco, nonostante tutto questo…è andata malissimo.
Passare una giornata insieme a loro, scherzare davanti ad una piadina e parlare di progetti futuri con la consapevolezza che non saranno comuni, è stato quasi surreale.

Ci sono addii inconsapevoli, non mi riferisco alla perdita di una persona cara, ma a quelli che a pensarci dopo ti sembra strano essersi perduti così, chi l’avrebbe detto che quella sarebbe stata l’ultima volta che vi vedevate, a saperlo avresti fatto cose diverse, detto parole più prfonde e invece così non è stato e un po’ ti rode che quella persona possa portarsi dietro un ricordo di te così leggero. A pensarci bene, sono i migliori nessuno dei due lo sapeva e non c’è stato bisogno di dire altro.

Poi però ci sono gli addii concordati e quelli sono davvero tosti. C’è chi si prodiga in strette di mano, per trattenersi ancora, chi lascia un saluto veloce e se ne va senza voltarsi indietro, che se lo facesse non partirebbe più, chi si allontana con il viso voltato verso quelle facce, per imprimersi a fuoco nella mente quegli sguardi, chi tira su una valigia di speranze saltando in corsa sopra un treno.

E allora lo ribadisco: odio gli addii. Non credo alle promesse di un nuovo incontro, al giuramento solenne di conversare al telefono, dei “se passi da queste parti vieni a trovarci”. Frasi dette per alleviare il peso del distacco.

Io di solito ringrazio, lo faccio veramente con il cuore, perchè mi sento in debito, anche se loro soridono, anche se loro mi guardano e non capiscono, ringrazio perchè ho già la pena di star lontano, ringrazio per non dire “mi mancherai”. Ringrazio perchè abbiamo mischiato un po’ le nostre vite e, che lo vogliamo o no, non siamo più quelli di prima. Tutte le persone che abbiamo incontrato sono la risposta quando ci chiederemo se siamo esistiti per davvero.

E allora non mi rimane che mettere un sorriso preso a nolo e trovare la forza di dirlo, una volta per tutte: fai buon viaggio della vita.

Ogni stagione è legata all’altra, incontri e addii formano il cerchio, il sacro centro è la nostra armatura, dove tutto cambia, tutto è eguale. ”
Marion Zimmer Bradley, L’alba di Avalon.

P.S. Dedicato ad un gruppo di persone straordinarie con le quali ho trascorso due anni vissuti a pieni giri. Ragazzi…keep calm and tenete botta.