Ventidue giorni dall’ultima volta.

  • …deve essere tutto pronto per domani. Non voglio sentire scuse. Roberto mi senti?
  • (sono già passati ventidue giorni, arriverà a momenti. Lo so) Certo, per domani.
  • Ah, ricordati che dopo andremo tutti a cena. Devi esserci, stavolta non tollero imprevisti, altrimenti facciamo una figura di merda.
  • (Cazzo, la maledetta cena) Ci sarò.
  • E’ la stessa cosa che hai detto le ultime tre volte. Poi sappiamo com’è andata. Si tratta di lavoro, maledizione! E vai in banca per quel deposito. Cristo, ti ho chiesto di farlo un mese fa!
  • (La banca no. Merda, merda, merda, non ce la posso fare. E poi sono già passati ventidue giorni. Arriverà a momenti. Sai che figura del cazzo se arriva mentre sono lì. Fanculo alla banca) Appena ho due minuti ci vado. Promesso.

 

  • Ciao Simo
  • Ohi, Roby, anche per oggi è andata, il capo era parecchio incazzato, sarà teso per domani. Dai, scappo, ci vediamo e…speriamo che vada tutto bene.
  • Aspetta, ti do un passaggio, ho bisogno di sfogarmi un po’, sono troppo teso. (dimmi di sì, ti prego, sarà almeno mezz’ora di strada. Da solo. Cazzo)
  • Grazie, ma oggi sono venuto in auto, ho accompagnato Elena dal dottore e ho proseguito.
  • Ma lascia la macchina qui, domattina vengo a prenderti e torniamo insieme, tanto passo comunque davanti casa tua.
  • No, davvero, grazie, ma domani l’auto serve ad Elena. Magari ci organizziamo per un altro giorno. Comunque grazie.
  • (Maledizione, è mezz’ora di strada, da solo, in auto e sono già passati ventidue giorni. Ma te che cazzo ne sai) Certo. Un altro giorno…(Fottiti).

(Dieci minuti, qui il traffico non scorre, ci vorrà sicuramente più tempo per arrivare a casa. Il venerdì è sempre un casino così. Tutti a correre a casa, o chissà dove, come a voler anticipare il più possibile la fine di una giornata e l’inizio di qualcosa di diverso. Tutti in cerca di qualcosa o di qualcuno. Una musica che indovina i pensieri, un amico con i suoi casini, un’idea arrivata per caso, una scopata che amplifica il senso di vuoto, una donna. Lei, che solo a pensarla ti rende migliore.

Quindici minuti e avremo fatto sì e no un chilometro, stasera sembra peggio del solito, magari sono io che la vedo così, forse perché sono passati già ventidue giorni dall’ultima volta e a momenti arriverà. Lo so. Che poi l’ultima volta è stata tremenda. A pensarci, tutte le ultime volte sono tremende. L’ultima volta che mi sono illuso, l’ultima volta che ho visto mio padre, l’ultima volta che l’ho guardata dormire. Tremende, tutte quante. E magnifiche. Ma quella di ventidue giorni fa è stata davvero pesante, tanto che la signora alla cassa si è messa a gridare. Che a vederla da fuori sembrava una scena surreale. Sì, l’ultima volta che è arrivata ha fatto davvero un gran casino. Che poi mentre è lì neanche me ne rendo conto di ciò che accade di preciso, è quando va via che son cazzi! E quando arriva, che magari la sto aspettando da giorni, ma…quando arriva non sono mai pronto. Mi prende alle spalle, anzi, di solito allo stomaco, neanche la soddisfazione di arrivarmi da dietro. E la sento che sale e arriva proprio in mezzo al petto. E lì stringe forte. Chissà che cazzo ci troverà di tanto interessante da stringere così. E poi arriva alla testa. E la fa vibrare, la prende tra le mani e la gira. E io che ne so, non capisco più niente. Ho solo la certezza assoluta di morire. Solo quella. E vai a spiegarglielo a quelli che hai intorno e che ti guardano. Che gli dici? Sono sicuro di morire ma fra dieci minuti mi passa? Fai finta di niente. Stai per morire ma fai finta di niente, Che è un po’ ciò che fanno tutti, almeno tre o quattro volte nella vita. Stare per morire e fare finta di niente. Solo che io ne ho la certezza, quando lei è qui e non mi lascia in pace. Assoluta certezza.

Venti minuti, finalmente si scorre, non manca poi molto per essere a casa. Respira Roberto, respira, così mi dice il dottore, mentre compila la ricetta. Neanche mi ci dovessi strozzare con tutte quelle maledette pillole. Che qualche volta gli salto alla gola a quello stronzo con il camice immacolato che mi guarda e mi compatisce. Da tre anni a questa parte ho baciato solo xanax. Almeno quattro volte al giorno. Che cazzo compatisci, sempre con quello sguardo a farmi sentire un povero squilibrato. Ho bisogno d’aiuto, porca puttana, ho sempre bisogno di avere qualcuno vicino. E questo mi fa incazzare. Ho passato un’esistenza intera cercando di cavarmela da solo, mi sono fatto un culo così. E ora invece, ora devo avere sempre qualcuno vicino a me. E la verità è che mi stanno tutti un po’ sui coglioni. Tutti compiacenti, comprensivi, come se sapessero ciò che mi passa per la testa. Che poi non ho detto niente a nessuno, che sono pazzo intendo, me lo tengo per me, ma è chiaro che traspare.

Venticinque minuti, forse me la cavo, sento una vampata sotto le costole, ma per adesso niente di preoccupante. Maledizione no, non adesso, vattene cazzo. Che alla fine non è neanche la paura di morire, quella ce l’hanno tutti, è la paura di avere paura. E’ come camminare in punta di piedi al centro di un campo minato, non sai mai quale sarà il passo che ti farà saltare in aria. L’unica cosa che sai è che succederà. Che ore sono? Quanto manca al prossimo xanax? Troppo, fanculo, troppo.

Ci sono, vedo già il cancello di casa, adesso parcheggio dove capita e poi sono salvo, trenta minuti precisi per giungere qui, inizia a starmi sulle palle questa città. Il calore aumenta, sale già su per la gola, il motore è spento, aspetto solo un attimo a scendere perché mi gira la testa. Fa un caldo del cazzo in questo abitacolo. E manca l’aria, i finestrini sono aperti, ma niente aria. Sono già passati ventidue giorni, due in più del solito. Mi gira la testa, forte, mi manca l’aria e il cuore sembra volermi uscire dalle tempie. Sto per morire. Lo so. Morirò da stronzo dentro una macchina, come un tossico, con in vena un’overdose di paura. Mi troveranno così, con gli occhi sbarrati e la testa fuori dal finestrino. Che immagine patetica. Ormai lei è qui e io sto per morire. Però guarda che bello il cielo stanotte).

  • Ciao Roberto, ti ricordi di me?
  • Certo, sei in ritardo. Ti stavo aspettando

 

Dalla radio En e Xanax – Samuele Bersani. (E non poteva essere altrimenti)

 

 

Le libellule e il lampione.

20140719-221649-80209640.jpg

C’è un posto, appena fuori città dove le persone vanno a pettinarsi la vita.

È un parcheggio, di quelli con un solo lampione che a malapena ti permette di vedere oltre il vetro dell’auto, è il posto di coloro che riescono ancora ad assaporare emozioni. Di quelli che hanno ancora bisogno di frugarsi nell’anima.

Ogni città ne ha uno, è il posto adatto per liberare emozioni, che volano come libellule e si incontrano fra loro riconoscendosi fra mille.
Ci sono auto con gli amanti che si baciano, auto con dentro due amici da una vita che ascoltano i Jetrho thull con una birra sul cruscotto, auto gonfie di musica e di sere accellerate che si fermano a riprendere fiato, altre con qualcuno dentro che viene qui “a dar la nanna un pò ad un altro brutto giorno” (come dice il buon Luciano).

È il posto dei sogni interrotti, delle sigarette fumate guardando il carro dell’orsa maggiore, delle teste cariche di pianto appoggiate sul volante, degli “stavolta è davvero finita” e degli “è talmente bello che fa quasi male”, è il bicchiere di vino in una sera di luglio, il tempo passato a prendere a schiaffi i tormenti.
È la terra consacrata degli amori impossibili, delle mareggiate emotive, degli spruzzi di allegria, dei baci rubati i respiri condivisi e le parole non dette. Che in quel posto lì le parole non servono veramente a un cazzo.

È il luogo delle cose fuori posto, quelle che fuori da lì devi nascondere per essere “normale”, è il muro degli “Anna ama Luca” ma anche dei “Marco ama Andrea”, che lì i pregiudizi se ne vanno a fanculo, che tanto quel lampione non fa abbastanza luce per svelare le confessioni degli sguardi.

È il giardino dei sognatori, delle porte sbattute in faccia, dei pugni presi e mai ridati, del padre e della figlia che si tengono per mano, del ladro e del santo che giocano a carte, delle speranze di monetine lanciate nelle fontane.

È la nostra scatola nera, quella che si trova due dita oltre la parete del cuore, che non la vediamo, ma sappiamo che c’è.

È fuori città, ha un solo lampione, non potete sbagliare, se chiederete ai passanti e vi prenderanno per pazzi significa che siete sulla strada giusta.

Amore è tutto ciò che aumenta, allarga, arricchisce la nostra vita,
verso tutte le altezze e tutte le profondità.
L’amore non è un problema, come non lo è un veicolo;
problematici sono soltanto il conducente, i viaggiatori e la strada.

Franz Kafka

Per entrare nel mio parcheggio, da sempre, chiudo gli occhi e metto questa

Una passeggiata nella zona rossa.

zona rossa

Allora, ho deciso di raccogliere la sfida che mi ha lanciato la mia amica Vetrocolato nel suo commento sul mio ultimo post, quello dei bravi ragazzi e degli stronzi. Perciò, cara Vetro, presta attenzione, perchè dubito che la cosa si ripeterà.

Innanzi tutto, giusto per mettere le mani avanti, sono consapevole che questo pezzo non sarà facile per me, di solito parlo in seconda, terza, quarta, milionesima persona, è una forma di distacco, ma soprattutto di protezione (o di vigliaccheria, fate un pò voi) e i pochi articoli che parlano di me trattano solo argomenti “scazzoni”, si, perché non è facile  mettermi a nudo, e la prova costume è lì a dimostrarlo, essere in gioco completamente. Però mi piacciono le sfide, provare ogni tanto a mettere un piede oltre il confine, nella zona rossa.
Si lo so, devo piantarla con questa paraventata e andare al sodo, ma era un modo subdolo per prendere tempo, però oh, mica è facile aprire quella porta, che oltretutto assomiglia moltissimo a quella de “il sesto senso”.

Lo ammetto, a costo di passare per immodesto, la prima impressione che le persone hanno di me è quella del classico “bravo ragazzo”. Detta così può sembrare una fortuna, e forse in certi casi lo è, mi aiuta sicuramente nel lavoro ad esempio, in molti altri casi credetemi, è una condanna. Si, perchè la gente si aspetta sempre che faccia cose positive, che sia senza macchia, che sia migliore. Bè, notiziona: non sono così. Mi sforzo di esserlo per non deluderli, ma di solito fallisco malamente, e dovreste vedere le facce che fanno quando scoprono la verità. Non se ne fanno una ragione, difficilmente riescono ad accettare il fatto di aver preso una cantonata. I più si allontanano.
Si perchè è molto più semplice legarsi all’idea che ci siamo fatti di qualcuno piuttosto che prendersi la briga di conoscerlo veramente, e lo capisco. Il rischio di scoprire cose che non ci piacciono è altissimo e soprattutto, molto probabile.

Durante uno di quegli inutili corsi di formazione fu detta da un relatore pagato fior di quattrini per farti sentire un inetto, fu detta dicevo, una frase che mi colpì particolarmente: nei primi trenta secondi si forma nella testa della persona che sta di fronte a te  un’idea sul tuo modo di essere, ci vogliono minimo tre anni perchè questa idea possa cambiare.
Voi però siete fortunati, con questo post vi accorcerò i tempi di gran lunga. Andrò a rimestare nel torbido, mi sporcherò le mani e porterò alla luce un po’ di scheletri guardandoli per una volta dritto nelle orbite, e, forse, mandarli definitivamente a fanculo.

E allora fanculo a tutte le volte che non mi sono ribellato a mio padre, perchè io non sono come lui, cazzo, no, io sono io e basta, a tutte le volte che non ho saputo resistere alle tentazioni, sentendomi una merda per il dolore causato alle persone che mi stavano vicino, fanculo a tutte le volte che non ho interrotto il percorso di una canna e l’ho fatta girare, fanculo a quando ho tradito la musica per seguire una qualche utopia, che di solito indossava un paio di calze a rete, per tutte le volte che ho lucidato un sogno senza avere le palle di crederci fino in fondo. , a tutte le volte in cui ho scelto la via più facile, alle volte in cui ho mentito per pararmi il culo, a tutte le volte in cui ho lasciato che decidessero per me.  Fanculo a tutte le maledette volte che mi guardo allo specchio e non riesco a sostenere lo sguardo

La verità è che non riesco a tirarmi via dalla periferia in cui sto, e non sto parlando in senso geografico, è la periferia delle emozioni, dei progetti irrisolti, di coloro che scaldano i motori ma rimangono fermi dentro l’hangar, per quelli come me che ogni giorno è quello buono e invece invecchiano con i rinvii, che hanno un ruvido bisogno di far parte di qualcosa, che sperano di riuscire a sciogliere quei nodi che fanno un male dell’anima, che vivono in apnea sul trampolino senza tuffarsi mai, che portano dentro di loro dolce curaro e amaro miele, nella speranza di durare oltre quest’attimo.

Questo è il mio lato buio, il mio lavoro nero, è un po’ il mio male di me.

Bene, Vetro, ho fatto del mio meglio, pero ora è il massimo che riesco a dare parlando di me, non lo so se ho vinto la mia sfida, ci ho provato, e questo è già qualcosa.