Forse sono bigotto.

Ma guarda, questo non è assolutamente vero, no, non tutti quelli della mia generazione sono bigotti, ma figuriamoci, siamo moderni, siamo smart, ok, magari ci mettiamo mezz’ora a rispondere a un messaggio whatsapp ma solo perché siamo scrupolosi, misuriamo le parole, detestiamo i refusi e quindi, scriviamo, cancelliamo, correggiamo e alla fine inviamo il messaggio…con frasi tipo “apri la porca” anziché la “porta”, ma quello è colpa della presbiopia.

Come? Ma certo che sono moderno, anche come mentalità, sì, nonostante abbia sempre votato a sinistra, sì.

Ma come cosa penso dell’identità sessuale?, ma che domanda è? Sarebbe come chiedere cosa penso degli hipster o dei tatuati. Certo che so chi sono gli hipster!

Cosa farei se mio figlio fosse gay? Ma che ne so, gli direi di non fare tardi, di stare attento agli sbalzi di temperatura, di guidare piano, di non bere. Mi preoccuperei per lui, semplicemente, come ogni genitore dovrebbe fare. Sarei felice quando lui è felice e incazzato quando qualcuno lo fa stare male.

Come reagirei se si fidanzasse con un uomo? Come dovrei reagire, gli parlerei, proverei a spiegargli che un rapporto di coppia è un patto, sì, un patto fra due esseri umani, che si impegnano a non capirci niente.  Le relazioni di coppia sono il Blu Tornado di Gardaland, con le discese, le impennate, le curve messe a cazzo. Ti sentirai con lo stomaco sottosopra e l’adrenalina in circolo che ti farà urlare, di rabbia, gioia e paura. Alcune durano giusto il tempo di un giro di giostra, altre non la smettono più di sballottarti qua e là. Ma in ogni relazione di coppia ci sono alcuni momenti in cui ti sentirai veramente al sicuro, nonostante tutto. La durata di questi momenti dipende da te, almeno per il cinquanta percento.

Il sesso sarebbe un problema? In che senso? Certo che sarebbe un problema, che discorsi, se lui non lo facesse mai sarebbe un problema sì. Cosa ne penso? Penso che sarebbero affari suoi.

Perché dovrei preoccuparmi? Il sesso è il sesso e basta, siamo noi a dargli una specifica connotazione. E ogni volta è diversa. Il sesso è come il cibo, puoi farti un’abbuffata o brevi spuntini. Puoi fare la dieta tisanoreica o quella a zone, nel senso che mangi in sala, cucina, bagno, camera, balcone. Il sesso lo usi per festeggiare, per noia, per disperazione. Può diventare un piacere o un problema, una cosa è certa: il corpo umano non è progettato per farne a meno.

No aspetta, questa me la spieghi bene eh, perché dovrei sentirmi in colpa? Per aver fallito come genitore? Ma sei impazzito! Mi sentirei in colpa se fosse un delinquente, un maleducato…un interista, ma non certo se fosse gay. Ma che c’entra la sensibilità? È un luogo comune stucchevole, non tutti i gay sono sensibili, o creativi o empatici, conosco omosessuali che sono delle grandissime teste di cazzo. C’è questa cosa che se uno è gay devi per forza trovargli delle qualità, come quando muore qualcuno e tutti a dire “era una brava persona”, ma chi l’ha detto? Magari è stato uno stronzo intergalattico, o magari no.

Perché dovrei essere imbarazzato? Fammi capire, non sarebbero certo i gusti sessuali di mio figlio a imbarazzarmi. mi imbarazza l’ignoranza, la battuta sessista, le risatine del cazzo fra amici quando vedono qualcuno diverso da loro.  Mi imbarazza chi dice “donna con le palle” o peggio “ha il ciclo”, mi imbarazza chi dice ancora “frocio di merda”, ma non per me che ascolto eh, no, io mi imbarazzo per chi lo dice. Mi imbarazza chi usa la parola “omosessuale” come se fosse un’offesa. Mi imbarazzano questi atteggiamenti qui, ma mi imbarazza ancora di più chi li giustifica.

Come penso che sia sessualmente il nostro paese? Penso che sia autoerotico. Ci facciamo un milione di pippe mentali per risolvere problemi che abbiamo creato noi. Facciamo leggi contro le discriminazioni sessuali quando basterebbe dire “amate chi cazzo vi pare, nessuno vi giudica”.  Ostentiamo il sesso e tutte le nostre preferenze sessuali solo per esorcizzarle. Sono stato per un po’ di tempo in Danimarca, trent’anni fa eh, non l’altro ieri, ecco, già allora se andavi a dire a qualcuno di Copenaghen “sai, io sono gay” quello ti guardava come se venisse qualcuno da noi a dirci che è mancino. Il nostro paese sessualmente è come “il cane di Betto”: mentre tutti gli altri scopavano lui si leccava il…ok, ci siamo capiti.

Il lavoro? Che c’entra il lavoro? No, non credo che sarebbe penalizzato no, perché dovrebbe esserlo? Certo che mi incazzerei se accadesse, come si incazzerebbe chiunque. Ma mi incazzerei anche se fosse privilegiato. Una persona non deve avere dei vantaggi perché è gay, o donna, o disabile, o bianco o nero, blu eccetera. Una persona deve avere privilegi perché dimostra di meritarseli. Altrimenti è comunque una discriminazione. Cosa ridi? Sì sono un illuso, voglio credere che avere le capacità serva ancora a qualcosa, lo voglio credere. E vorrei che lo credesse anche mio figlio.

Ecco, non lo so se sono bigotto, forse un po’ sì, c’è qualcosa che non riesco a superare, ci provo, ma proprio non ci riesco. Non sopporto i finti buonisti, chi sfrutta le debolezze degli altri per farsi valere, chi sbeffeggia qualcuno solo perché ha gusti diversi dai suoi. Ecco, per me queste sono persone di merda, indipendentemente da ciò che hanno fra le gambe.

Il movimento perfetto.

Le mattonelle della piazza disposte in diagonale, secondo uno schema ordinato, a creare un obliquo progetto. Geometrico e perfetto. Linee parallele che salgono impavide fino alla vetta di un successo ipotetico per poi ripiombare verso il basso in una discesa senza freni. E una volta toccato il fondo riemergere con una – continua – testarda volontà. Così, quasi all’infinito, rappresentazione perfetta e crudele delle umane esistenze.

A metà di una di queste salite c’era Fede, seduta al tavolo di un bar con lo sguardo perso dentro ad un aperitivo quasi rosso, al profumo di frutta e giorni andati. Tiene il bicchiere con entrambe le mani, in uno tentativo inconscio di preservare la fragilità del vetro dai terremoti della vita. E’ praticamente immobile, nessun gesto funzionale al tentativo di attirare l’attenzione, niente di niente, eppure non puoi fare a meno di guardarla. E trovarla attraente. Come quando passi davanti ad un quadro di Chagall, non è altro che una tela, un’immagine appesa ad una parete, assolutamente priva di una qualsiasi ambizione di notorietà, ma non puoi evitare di guardarla. Ti seduce. E ti perdi. Per sempre. C’è da dire che Fede era, oggettivamente, bellissima.

Fede era una di loro, una di quelli lì, una degli altri. Il suo nome vero nessuno lo ha mai saputo con precisione. Probabilmente Fede era il diminutivo di Federica, ma se glielo chiedevi rispondeva di no – Chiamami Fede, va bene così-. In pochi minuti le persone si abituavano e smettevano di farsi domande. Come se quelle quattro lettere fossero scivolate nel tessuto delle azioni quotidiane, tipo lavarsi il viso. Gesti automatici, dettagli a cui non facciamo più caso, per intenderci.

Chiunque si trovasse a passare per quella piazza non poteva esimersi dal guardarla, come fosse un vortice, il polo opposto capace di attrarre le linee visive. Fede aveva qualcosa di irrisolto che la rendeva terribilmente affascinante, un mistero dentro che la accompagnava continuamente. Lei non se ne preoccupava, non lo ostentava e non cercava di reprimerlo. Ma traspariva, in ogni gesto, come un vaso pieno fino all’orlo, incapace di trattenere tutto quel liquido, destinato a traboccare al minimo sobbalzo. Muoveva le mani e traboccava, si sedeva e traboccava, si aggiustava i capelli e traboccava, rideva e traboccava. Ti guardava di sfuggita e annegavi. Quel mistero dentro, lo teneva con sé, senza farci caso. Si limitava a portarlo in giro.

E allora capitava spesso di vedere uomini intenti a fantasticare. E si capiva che non erano pensieri innocenti, ma rovesci di passioni, immagini di schiene contro il muro e fianchi ad incassare le spinte dell’istinto, di bocche lungo il collo a percorrere sentieri di pelle e sudore, di mani tra i capelli a tirarsi su la testa a vicenda, nel tentativo estremo di tornare a respirare, in quell’istante senza fine che precede la fucilata in mezzo al ventre.

Pensieri così, che ottenevano una forma, scappavano via, come figli ribelli che prendevano coscienza della loro libertà. Non c’era niente da fare, era il corso logico delle cose, reprimerli avrebbe portato soltanto a miseri fallimenti. C’è da dire che Fede era, oggettivamente, bellissima.

Se ne stava lì, seduta, a fare da guardia a quel bicchiere, distoglieva lo sguardo solo per alzarlo verso il sole, in un movimento perfetto, quasi studiato oserei dire. Piegava lentamente indietro la testa, il mento sollevato, come l’urgenza controllata di ossigeno dopo una breve immersione. Si fermava proprio lì, oltre il pelo immaginario di un’acqua che vedeva solo lei. Lo fanno tutti, quelli là, questa cosa di tornare ogni tanto a respirare loro la fanno, ogni tanto. Magari a metà di un discorso poco interessante, alla fine di un bacio distratto, al trentaduesimo passo in una via affollata del centro, in un qualsiasi momento non preventivato, come una decisione presa all’improvviso, come una buona idea. Si interrompono di scatto. E lo fanno. Loro lo fanno. E’ il movimento perfetto.

A Fede capitò dopo un abbandono, uno di quelli che ti lasciano stordito, si ritrovò seduta per terra, come se qualcosa dentro si fosse interrotto, con le spalle appoggiate contro qualcosa di imbottito, non avrebbe saputo dire cosa, ma era un dettaglio irrilevante, con un vestito leggero a far da barriera al freddo del pavimento. Le ginocchia piegate sotto il mento e gli occhi, quegli occhi lì, a fissare la porta che qualcuno si era chiuso alle spalle un po’ di tempo prima.. Non avrebbe saputo quantificarlo con precisione, forse un paio di minuti, magari due ore, più probabilmente un giorno intero. Non aveva mai abbandonato quella posizione, non si era neanche sognata di farlo, finché un pensiero nitido, perentorio le si piantò nella mente. Una scheggia infilata in un punto inaccessibile della carne. Prese una manciata di qualcosa, erano pastiglie, ma avrebbero potuto essere pallottole, le spinse in gola, piegò lentamente indietro la testa, il mento in alto, come a sollevarlo dal pelo di un’acqua che vedeva sola lei. Il movimento perfetto.

Qualcuno l’aveva salvata, ma ormai era diventata una di loro. Di quelli che hanno baciato in bocca la morte ma sono stati strappati a quell’amplesso un attimo prima di raggiungere l’apice del piacere.

E allora se lo portano in giro il loro mistero, quelli là. Non possono fare altrimenti, alcuni cercano di perdonarsi, altri non ci provano neanche, perché chi ha iniziato a morire non smetterà mai di farlo.

Fede è una di loro, è questo che attrae terribilmente le persone che la osservano inconsapevoli. Ride, si aggiusta i capelli, muove le mani, si siede. Quasi normale, tuttavia ad ognuno rimane impressa solo l’immagine di lei che gira la testa all’improvviso, cercando qualcosa, gli occhi terrorizzati come a fissare una porta chiusa da qualcuno – Ossigeno.

C’è da dire che Fede è, oggettivamente, bellissima.

Carlo e “Bellamore”

Carlo che vive di ricordi si ferma un po’ più in là dei suoi pensieri. Saluta con un sorriso e cerca di nasconderlo con tutta quella dolcezza che ha, ma se sei attento lo capisci che qualcosa gli prude in fondo agli occhi.

Parla poco, che forse il suono di tutte quelle sillabe liberate dal respiro non guarirebbero il graffio della vita. E allora tanto vale lasciarle soffocare, tutte quelle frasi inutili come i tramonti trai i palazzi di cemento. Sì, decisamente, meglio non perdere tempo a districare le traiettorie delle frasi non dette, che puoi stare lì a pettinarle quanto vuoi, rimarranno impigliate fra le pieghe della mente.

Carlo lascia sempre una fiamma libera sul davanzale di cucina, che “ti ricordi come ti piaceva la luce vicino alla finestra, dio quanto sognavi guardando al di là di quel vetro, che mi dicevi – in quel giardino, sotto l’ombra di quel salice piangente io ci farei l’amore- e poi sorridevi. Mi guardavi. E sorridevi. Dio com’eri bella, che poi neanche lo sapevi il profumo di pentagrammi e nuvole che avevi, quando stavi scalza sulla sabbia di novembre, con quel vestito leggero, roba da prenderci un accidente senza scampo, ma te ne fregavi, mi tenevi la mano cantando “Bellamore” fra le labbra. E la sera del dodici dicembre, che pioveva come una disperazione, la sera in cui Cassandra perse un amore e un orecchino, dio come pioveva, come se qualcuno avesse deciso di buttare via i rimorsi, tutti insieme dico, tutti quella sera lì, – che quando cade la notte così viene voglia di temersi un po’ più stretti – così dicevi.

E quell’idea assurda di oltrepassare Capo Horn, – che da quelle parti si sta bene, da quelle parti non si muore mai – che quando lo dicevi ci prendevano per pazzi. E lo dicevi spesso. Ma noi lo sapevamo che era vero, che ci andavamo spesso, ogni volta che ci davamo le mani, prendendoci per i polsi, come a sentire il sangue mescolarsi, con lo sguardo fisso a frugarci le passioni. Cercatori d’oro con i diamanti nelle tasche, pelle su pelle al riparo da intemperie e poi tutti gli odori e le passioni nelle vertebre e poi rincorse di abbandoni e poi tutta l’anima del mondo. La nostra rotta per oltrepassare Capo Horn, che da quelle parti non si muore mai.

E poi tutte le mattine, tutte quante, mentre dormivi e ti guardavo seguendo con un dito il profilo dei tuoi sogni e non riesco più a contare le volte in cui mi sono perso in quei respiri. Che non te l’ho mai detto, ma quelle mattine lì mi resteranno addosso. Tutte quante.

E non ci siamo persi, tu lasciali parlare, lasciali venire in processione a stringermi la mano, con gli occhi lucidi e lo sforzo di un sorriso. Non ci fare caso, lascia che vadano ad illudersi, che noi lo sappiamo che va bene così.

Adesso è quasi mezzanotte e sprofondo dentro il letto. Che ho voglia di sognarti, e già lo so che mi guarderai in modo complicato, come un tempo in cinque quarti e mi dirai ridendo – Sono sempre stata qui. – Adesso ho voglia ancora di prenderti la mano mentre canti “Bellamore” fra le labbra.

 

E anche stasera è quasi mezzanotte ed è ora di andare ad ascoltare “Bellamore”

 

 

Ventidue giorni dall’ultima volta.

  • …deve essere tutto pronto per domani. Non voglio sentire scuse. Roberto mi senti?
  • (sono già passati ventidue giorni, arriverà a momenti. Lo so) Certo, per domani.
  • Ah, ricordati che dopo andremo tutti a cena. Devi esserci, stavolta non tollero imprevisti, altrimenti facciamo una figura di merda.
  • (Cazzo, la maledetta cena) Ci sarò.
  • E’ la stessa cosa che hai detto le ultime tre volte. Poi sappiamo com’è andata. Si tratta di lavoro, maledizione! E vai in banca per quel deposito. Cristo, ti ho chiesto di farlo un mese fa!
  • (La banca no. Merda, merda, merda, non ce la posso fare. E poi sono già passati ventidue giorni. Arriverà a momenti. Sai che figura del cazzo se arriva mentre sono lì. Fanculo alla banca) Appena ho due minuti ci vado. Promesso.

 

  • Ciao Simo
  • Ohi, Roby, anche per oggi è andata, il capo era parecchio incazzato, sarà teso per domani. Dai, scappo, ci vediamo e…speriamo che vada tutto bene.
  • Aspetta, ti do un passaggio, ho bisogno di sfogarmi un po’, sono troppo teso. (dimmi di sì, ti prego, sarà almeno mezz’ora di strada. Da solo. Cazzo)
  • Grazie, ma oggi sono venuto in auto, ho accompagnato Elena dal dottore e ho proseguito.
  • Ma lascia la macchina qui, domattina vengo a prenderti e torniamo insieme, tanto passo comunque davanti casa tua.
  • No, davvero, grazie, ma domani l’auto serve ad Elena. Magari ci organizziamo per un altro giorno. Comunque grazie.
  • (Maledizione, è mezz’ora di strada, da solo, in auto e sono già passati ventidue giorni. Ma te che cazzo ne sai) Certo. Un altro giorno…(Fottiti).

(Dieci minuti, qui il traffico non scorre, ci vorrà sicuramente più tempo per arrivare a casa. Il venerdì è sempre un casino così. Tutti a correre a casa, o chissà dove, come a voler anticipare il più possibile la fine di una giornata e l’inizio di qualcosa di diverso. Tutti in cerca di qualcosa o di qualcuno. Una musica che indovina i pensieri, un amico con i suoi casini, un’idea arrivata per caso, una scopata che amplifica il senso di vuoto, una donna. Lei, che solo a pensarla ti rende migliore.

Quindici minuti e avremo fatto sì e no un chilometro, stasera sembra peggio del solito, magari sono io che la vedo così, forse perché sono passati già ventidue giorni dall’ultima volta e a momenti arriverà. Lo so. Che poi l’ultima volta è stata tremenda. A pensarci, tutte le ultime volte sono tremende. L’ultima volta che mi sono illuso, l’ultima volta che ho visto mio padre, l’ultima volta che l’ho guardata dormire. Tremende, tutte quante. E magnifiche. Ma quella di ventidue giorni fa è stata davvero pesante, tanto che la signora alla cassa si è messa a gridare. Che a vederla da fuori sembrava una scena surreale. Sì, l’ultima volta che è arrivata ha fatto davvero un gran casino. Che poi mentre è lì neanche me ne rendo conto di ciò che accade di preciso, è quando va via che son cazzi! E quando arriva, che magari la sto aspettando da giorni, ma…quando arriva non sono mai pronto. Mi prende alle spalle, anzi, di solito allo stomaco, neanche la soddisfazione di arrivarmi da dietro. E la sento che sale e arriva proprio in mezzo al petto. E lì stringe forte. Chissà che cazzo ci troverà di tanto interessante da stringere così. E poi arriva alla testa. E la fa vibrare, la prende tra le mani e la gira. E io che ne so, non capisco più niente. Ho solo la certezza assoluta di morire. Solo quella. E vai a spiegarglielo a quelli che hai intorno e che ti guardano. Che gli dici? Sono sicuro di morire ma fra dieci minuti mi passa? Fai finta di niente. Stai per morire ma fai finta di niente, Che è un po’ ciò che fanno tutti, almeno tre o quattro volte nella vita. Stare per morire e fare finta di niente. Solo che io ne ho la certezza, quando lei è qui e non mi lascia in pace. Assoluta certezza.

Venti minuti, finalmente si scorre, non manca poi molto per essere a casa. Respira Roberto, respira, così mi dice il dottore, mentre compila la ricetta. Neanche mi ci dovessi strozzare con tutte quelle maledette pillole. Che qualche volta gli salto alla gola a quello stronzo con il camice immacolato che mi guarda e mi compatisce. Da tre anni a questa parte ho baciato solo xanax. Almeno quattro volte al giorno. Che cazzo compatisci, sempre con quello sguardo a farmi sentire un povero squilibrato. Ho bisogno d’aiuto, porca puttana, ho sempre bisogno di avere qualcuno vicino. E questo mi fa incazzare. Ho passato un’esistenza intera cercando di cavarmela da solo, mi sono fatto un culo così. E ora invece, ora devo avere sempre qualcuno vicino a me. E la verità è che mi stanno tutti un po’ sui coglioni. Tutti compiacenti, comprensivi, come se sapessero ciò che mi passa per la testa. Che poi non ho detto niente a nessuno, che sono pazzo intendo, me lo tengo per me, ma è chiaro che traspare.

Venticinque minuti, forse me la cavo, sento una vampata sotto le costole, ma per adesso niente di preoccupante. Maledizione no, non adesso, vattene cazzo. Che alla fine non è neanche la paura di morire, quella ce l’hanno tutti, è la paura di avere paura. E’ come camminare in punta di piedi al centro di un campo minato, non sai mai quale sarà il passo che ti farà saltare in aria. L’unica cosa che sai è che succederà. Che ore sono? Quanto manca al prossimo xanax? Troppo, fanculo, troppo.

Ci sono, vedo già il cancello di casa, adesso parcheggio dove capita e poi sono salvo, trenta minuti precisi per giungere qui, inizia a starmi sulle palle questa città. Il calore aumenta, sale già su per la gola, il motore è spento, aspetto solo un attimo a scendere perché mi gira la testa. Fa un caldo del cazzo in questo abitacolo. E manca l’aria, i finestrini sono aperti, ma niente aria. Sono già passati ventidue giorni, due in più del solito. Mi gira la testa, forte, mi manca l’aria e il cuore sembra volermi uscire dalle tempie. Sto per morire. Lo so. Morirò da stronzo dentro una macchina, come un tossico, con in vena un’overdose di paura. Mi troveranno così, con gli occhi sbarrati e la testa fuori dal finestrino. Che immagine patetica. Ormai lei è qui e io sto per morire. Però guarda che bello il cielo stanotte).

  • Ciao Roberto, ti ricordi di me?
  • Certo, sei in ritardo. Ti stavo aspettando

 

Dalla radio En e Xanax – Samuele Bersani. (E non poteva essere altrimenti)

 

 

La valigia senza peso.

Finì di piovere il giorno della festa del santo. In realtà nessuno aveva mai dubitato di questo. Non c’è memoria di una festa del santo sotto la pioggia. Il temporale era finito, come era logico aspettarsi, se n’era andato lasciando poche tracce di sé, tranne qualche pozzanghera qua e là, che presto sarebbe scomparsa, eliminando definitivamente le prove del suo passaggio. Andato, svanito, così come si era manifestato adesso non esisteva più. Come quando arrivi alla sera, in un giorno come tutti gli altri, che neanche te lo saresti aspettato che fosse quel giorno lì, invece arrivi alla sera e ti rendi conto che quel dolore non c’è più. Finito, come era logico aspettarsi. Se n’era andato lasciando poche tracce di sé, tranne qualche livido in fondo all’anima, che sarebbe rimasto lì per sempre, mostrando in eterno le prove del suo passaggio.

Sabrina è arrivata qui, oggi, per caso, viene da lontano, in fuga da qualcuno e cerca chissà cosa. Ed è arrivata qui. Cammina per i vicoli, come se fosse in cerca di risposte. Cammina tenendo in mano una valigia senza peso, cerca meraviglie. E oggi le troverà.

Sabrina è partita qualche giorno fa, ha lasciato il suo lavoro di insegnante, suo marito che dormiva abbracciato ad un fucile e una bottiglia, suo fratello chissà dove sotto tre metri di terra e una raffica di mitra nel costato, ha lasciato il suo paese con un mare troppo scuro ed un cielo troppo basso che si piega sotto il peso delle bombe, che da quelle parti tiri a sorte con la vita.

E’ partita per trovarlo, il suo sogno, per farsi cogliere dallo sgomento e dalla bellezza che avrebbe accompagnato la sua ricerca. E’ partita per imparare a crederci davvero nel suo sogno possibile.

E’ arrivata qui, con una valigia senza peso, il giorno della festa. E trova Robert l’inglese, che suona con le dita i suoi bicchieri e ti ci perdi a guardare quelle mani frettolose che corrono sui bordi di vetro, come chi ha perso ogni speranza e danza sul ciglio di un burrone.

Trova Coppelia delle tenebre, che morì dieci anni fa ma nessuno glielo disse. Si aggira per i vicoli bui di questo borgo declamando versi di Lucrezio e Ceronetti, gli occhi neri come il culo dell’inferno e la voce di ragazza davanti a uno stupore. Un vestito di nebbia fitta a coprire il suo scheletro inquietante. Si avvicina ad un metro dal cemento, ti si pianta davanti, con quell’anima che ha e ti sfiora il viso con un dito. E tu lo senti il freddo delle ossa sulla pelle e preghi iddio che non si abbandoni mai. Ma Coppelia fa un inchino e si allontana e a te non rimane che un rivolo di cenere sullo zigomo sinistro.

Sabrina non smette neanche per un attimo di guardarsi intorno. E di cercare le sue risposte.

Da un angolo un po’ nascosto sbuca Mirandola dei ratti, vestita di crepuscoli e curiosità. Si aggira fra la gente all’ora del tramonto con il suo corteo di topi a farle da riparo. Sono scappati da una fiaba che profumava di tragedia, sfuggiti al controllo del loro distratto romanziere. Mirandola non ha un passato, la penna dell’autore non ha fatto in tempo a descrivere i giorni che ha vissuto. Così non conosce i suoi pensieri di bambina, il batticuore e le complicazioni del destino di ragazza. Non sa cosa sia l’amore da ricevere e poi dare, le notti con lenzuola intrise di istinto e di sudore. Lei impara ogni singolo dettaglio guardando le persone che le passano vicine, prende la tua mano fra le sue, ti soffia sulla fronte. Ti ruba un singolo ricordo, uno soltanto e in cambio ti dona un topolino per farsi perdonare. Lei, curiosa come un gatto.

Sabrina è frastornata, in mezzo a tutta quella gente dimentica il rumore delle bombe, dimentica l’odore aspro della guerra. Questo è soltanto il suo viaggio e non ci vuole rinunciare. Non smette neanche per un attimo di guardarsi intorno. E di cercare le sue risposte.

In mezzo alla discesa che porta alla piazza delle erbe c’è la tenda di Alice del nigredo. Alchimista e ciarlatana, insegna filastrocche ai bambini e piaceri di altro tipo ai loro padri. Un po’ strega in calze a rete un po’ fata immacolata, additata come eretica dalle donne del paese, bramata come il vino nel deserto dagli uomini furtivi. Trasforma il metallo in oro, il vile in guerriero, medica le ferite dell’anima cantando frasi in rima.

Sabrina si affaccia all’ingresso di quella tenda, un gesto appena accennato.

–  Ti stavo aspettando ragazza della sabbia, dimmi cosa cerchi e io ti aiuterò

–  Cerco le risposte, tutte quelle che posso avere, le cerco da sempre, da quando quel boato annunciò l’inizio di un mondo che non volevo. Non le trovo, le mie risposte, maledizione non le trovo.

– Saranno loro a trovare te, è sempre stato così, fin dall’inizio dei tempi. Noi non possediamo niente, abbiamo solo l’illusione del possesso. Adesso chiudi gli occhi, segui il ritmo del respiro, pensa alla domanda, sceglila bene, senza giri di parole. Quando sarai pronta apri gli occhi e prendi la tua risposta da uno di questi calici di fronte a te. E non dimenticare mai che sarà stata lei a scegliere te.

Sabrina formulò la sua domanda, era un pensiero deciso, quasi fastidioso, puntuale come l’inizio dell’inverno, poi senza dire una parola aprì gli occhi e prese un biglietto da un calice viola.

– Questo è ciò che stavi cercando, solo tu riuscirai a comprenderne l’esattezza dell’inchiostro sulla carta.

Le due donne si guardarono per un istante lungo quasi un’esistenza, poi Alice la baciò sulla bocca e le indicò l’uscita.

Appena in strada Sabrina aprì la sua valigia, completamente vuota, portata in giro per metterci dentro le risposte, prese il biglietto che teneva tra le dita lo rilesse ancora una volta.

Lasciò fuori i timori, le paure e i ripensamenti, mise dentro solo quel biglietto, con la sua potente filastrocca.

Chiuse la valigia e partì.

– Svegliati Sabrina, è ora di scrollarsi i sogni di dosso.

La ragazza aprì gli occhi, i contorni della stanza le furono subito familiari, un rapido inventario con lo sguardo, giusto per essere sicura che fosse tutto regolare. Ad una prima occhiata non si notavano sobbalzi strani, solo un biglietto rosso arrivato da chissà dove, l’inchiostro color oro proclamava una filastrocca che suonava come una sentenza.

“Dopo una lunga guerra Re Bianco si arrese. – Mandami alla forca, dunque! – Ma Re Nero gli donò castelli, cavalli e tesori. – Non li voglio! – No? – E la guerra ricominciò”

Se questo sogno avesse una colonna sonora sarebbe questa: Dei pensieri – Ezio Bosso

L’amore forte.

C’è una bambina seduta sulla spiaggia che guarda verso il mare, in mezzo all’acqua c’è una donna vestita come un vento di Marrakesh, sembra un quadro in movimento,. qualcosa da ammirare senza farsi domande.

E’ così che funziona, le capita sempre più spesso, si alza all’improvviso dal divano, indossa qualche tipo di abito improbabile ed esce, con un’unica irremovibile destinazione. Il mare. E’ così che deve essere, in quelle mattine appena affacciate. Quella donna dall’età indefinita esce di casa per andare a fare l’amore.

Arriva alla spiaggia e sorride. Va verso quel deserto di acqua con uno sguardo di sfida, un passo sicuro e sinuoso, di chi è avvolto da pensieri scandalosi e non fa niente per tenerli nascosti. Si ferma ad un respiro dalla riva, da quel confine preciso in cui l’onda esprime il suo vigore assoluto e poi va a morire.

Alla fine si guardano, quella donna e il mare. E lo fanno forte, quasi a farsi male. E si immerge dentro, quella donna, in una distesa smisurata di acqua e tempeste, in quell’amante fragile e deciso, come un arcobaleno costante. E fanno l’amore. L’amore insicuro, delle sei del mattino, dell’acqua immobile, che quasi hai paura a metterci dentro le mani, che ci passi sopra le dita. L’amore, quello vero, quello senza ritorno, con le mani fra i capelli a guidare la testa verso una forma di paradiso. Quello che lascia i segni sulla pelle, che il giorno dopo li guardi nello specchio e ti mordi le labbra. L’amore forte, che ti graffia la schiena e l’esistenza, che ti allarga gli sguardi e i sospiri. L’amore sconosciuto del mare impetuoso, che non ti dà tregua, che ti strappa i vestiti e le voglie. Il mare indecente che fa sentire i denti sul collo e lecca le pieghe dell’anima. L’amore disperato del mare, che ti devasta i fianchi con spinte rabbiose, tenendoti in bilico fra la voglia di urlare e la fame di ossigeno. L’amore clandestino, con le spalle contro il muro e le gambe intorno alla vita. A tutta la sua vita. E lo senti arrivare quell’uragano implacabile di spasmi e lamenti e un po’ ti spaventi, ma punti i piedi, apri le braccia e lasci crollare i muscoli in quel confine preciso in cui l’onda esprime il suo vigore assoluto e poi va a morire.

In giornate come queste quella donna esce di casa, con addosso un vestito improbabile e va a fare l’amore forte. Quello che ti stravolge i sensi. L’amore di chi non sa più come fare.

Io sono Eleonora e quella donna è mia madre, o almeno lo è stata fino al giorno in cui non ha più fatto ritorno. Si è arresa a quel mare, disciolta in tutto quel mondo insidioso fatto di onde e correnti. Solo onde e correnti. A perdita d’occhio. E’ stata inghiottita da quel richiamo ammaliante.

Pioveva quella mattina, di una pioggia strana, verticale e pesante, non era un temporale arrogante, ma caduta precisa di acqua, come un velo a tinta unita, come una preoccupazione costante. Una di quelle sensazioni che hanno l’aria di non finire più. Il mare sembrava un dipinto neorealista, con la sua pelle crivellata da pallottole infinite. Era uno sguardo capace di scatenare pensieri inattesi. La strana visione di acqua nell’acqua.

Lei disse soltanto “questo cancro che mi mangia l’anima non mi avrà mai. Vivi senza fretta bambina mia e quando non sai più come fare vieni qui e guarda il mare. Mi troverai là”.

E lo faccio, ogni volta che mi scappa l’anima, lo faccio. Mi siedo su questa spiaggia e guardo quel confine preciso, in cui l’onda esprime il suo vigore assoluto e poi va a morire. E lo sento quel mare addosso, quel suo modo di abbracciarmi la vita. Quel suo modo di fare l’amore. L’amore forte.