Certi alberghi

Ho bisogno degli alberghi, questa è la verità, ma non quelli di lusso, no, quella è roba fatta per gente con i soldi, che va lì per lavoro e per scopare. No, io ho la necessità degli alberghi di terza categoria, quelli un po’ decadenti con gli armadi che si portano dentro l’odore di muffa e naftalina. Ammesso poi che ci sia, un armadio. Devo avere i mobili datati, un po’ dozzinali, con il tavolo graffiato, la sedia che dondola e tutto il resto. E mi ci perdo con quegli alberghi lì. Metto un po’ di blues in sottofondo. E mi ci perdo. E scrivo.

Io devo scrivere. Questa è la verità. Voglio dire, non è uno sfizio, è proprio una questione di sopravvivenza, tipo respirare, ecco, scrivere è quella roba lì. Ma è anche farsi del male, perché tocca andare a strapparsi qualcosa dentro, non parlo solo di sofferenze, ci mancherebbe, anche se scrivi una cazzata, una scemata qualunque, ecco, anche in quel caso, hai dovuto metterti lì e ascoltarti e farla uscire quella cosa. E non c’è niente da fare, appena la scrivi non è più tua. Questo è sicuro.

C’è stato un periodo che scrivevo in auto, mentre guidavo, cioè non è che facessi materialmente entrambe le cose insieme, mica sono così scellerato, no, guidavo e scrivevo, con la testa intendo. Non serve per forza avere carta e penna o magari una tastiera per scrivere qualcosa, no, quello è semplicemente il risultato finale. Guidavo e con la mente ero già là, che non è un posto preciso, è semplicemente “là”. Oddio, non è che andasse sempre tutto liscio, ogni tanto bucavo le uscite dell’autostrada e invece fermarmi a Parma mi ritrovavo a Luino, per dire.

Poi c’è stato il periodo dei treni, ma non quelli belli e luccicanti eh, no, i miei treni erano i regionali, quelli dei ragazzi pendolari, degli operai delle acciaierie che tornano a casa portandosi addosso la certezza che prima o poi qualcosa dovrà cambiare e l’odore della consapevolezza che non cambierà mai un cazzo di niente. Scrivevo lì, nel bel mezzo di un vagone di seconda classe, in mezzo a tutte quelle vite che mi giravano intorno e io che ne rubavo un pezzetto per me. Come quando strappi una pagina di un libro e la metti nel portafogli.

Ma negli alberghi, porca puttana, negli alberghi c’è una catastrofica dolcezza, che certe giornate come fai a resistere. Giornate quasi normali o dannatamente complicate, che stai lì nella merda fino al collo, che boh, non hai i soldi per arrivare a fine mese, la Juve ha perso, hai chiuso una storia d’amore…che ne so, cose così, normali e devastanti. Ecco, in quei giorni lì ho bisogno di stare in un albergo, a fermare il tempo. O almeno, a rallentarlo un po’. E neanche mi ricordo di mangiare, è proprio una dimensione parallela, sei tu, solo e la tua vita seduta accanto a te che si fa i cazzi suoi.

Mi sono sempre chiesto come cazzo fanno i pianisti a stare seduti davanti a tutti quei tasti, ma ore e ore, a far scorrere le dita senza stancarsi mai, cioè, mai uno che si alzi e dica “oh basta, mi sono rotto i coglioni”, no. Stanno lì, ma giornate intere eh, a creare musica, persi in quell’oceano di note. Vita e note, tutti giorni. Incredibile.
O i pittori, cazzo i pittori sono assurdi, prendono una tela bianca, un pennello e qualche colore e tirano fuori un paesaggio, un volto o comunque roba geniale. Magari hanno davanti, che ne so, una discarica e sbam! Dipingono un tramonto. Ma dove diavolo ce lo vedono il tramonto in una discarica. Devono aver dei gran casini nella testa, i pittori.

Gente strana, i musicisti, i pittori, gli artisti di strada, ma anche i pendolari dei treni, le mignotte d’alto borgo, i manager incravattati, o i ragazzetti che si baciano sui tram, quelli che rimangono appesi a un lampione aspettando qualcuno che non arriverà, o gli altri, quelli che stanno insieme da quarant’anni e ancora si tengono per mano.
Persone così, gente strana davvero. Io invece no, a me basta stare chiuso in questo albergo a scrivere di loro.

Dentro un sogno d’amianto.

E allora scrivi, per non sentire il tempo che passa, per non vedere gli anni cadere, per dire che non ti basta veder passare i tuoi giorni.

Scrivi, perché devi far uscire la sabbia dai polmoni, perché in quella sabbia ci sono i tuoi sogni interrotti e fanno un male bastardo.
Scrivi, perché in qualche modo devi pur sopravvivere, parla dei momenti in cui vorresti strappare il cuore e piantarlo al muro per farlo parlare, per sentire che cazzo c’ha da urlare così forte, che non sei sordo, che qui c’è gente che vorrebbe riposare.

E allora scrivi, parla di cose che non sai, di persone andate, di storie finite, delle tue dita che fanno vibrare una chitarra acustica che non suonava da anni, della tua voce che segue le note ed esce impastata, di quando salivi su un palco e ti piantavano un microfono davanti e lì, in quel preciso istante, vivevi davvero.

E allora scrivi France, come ti viene, che tanto sono le 3 di notte, chi vuoi che se ne accorga se sbagli gli accenti, che a quest’ora si sa, non esce mai niente di buono, ma tu fregatene e continua a battere le dita sui tasti, e se anche nessuno leggerà mai, va comunque bene così.
Lo stai facendo solo per te, perché stanotte sei egoista, perché ne hai bisogno, perché ogni tanto l’anima deve riuscire a prendere aria.

Scrivi, che se scrivi non verranno a cercarti, che se scrivi non sanno chi sei, non saranno capaci di spezzarti il respiro, se metti in fila parola riesci a fregarli, se muovi le dita racconti il tuo blues. Se muovi le dita riesci volare.
E scrivi di te, che adesso puoi farlo, che a quest’ora chi vuoi che ti stia ad ascoltare, racconta il tuo mondo che è qui e ne senti il respiro, in questo silenzio ne intuisci i contorni, che alcuni giorni passati sono stati un regalo, che preghi ogni giorno che lei sia felice davvero, che mica è un reato stare bene ad oltranza, che tu ne hai bisogno di quegli occhi assordanti, che in quel tempo passato abbracciati sembrava tutto perfetto.

E raccontalo al mondo di quella smania imprecisa, che di giorno la lasci nascosta a dovere, ma con il buio riappare e sembra che voglia incendiare i tuoi sogni d’amianto. Che i sogni si sa, prendono fuoco con poco.

Scrivi, che fino a domani nessuno vorrà più sapere se stai bene o stai male e le facce che fai saranno sempre le stesse, solo i sorrisi sono meno impulsivi, ma chi vuoi che se ne accorga, io e te lo sappiamo che siamo bravi a celare un fremito di disperazione dietro a un solco sul viso.

E allora chiudi gli occhi, roba di un minuto, che la vita è in attesa dei tuoi passi all’assalto e se senti che cedi stringi i pugni più forte, che le botte che hai preso fanno male sul serio e non c’è più motivo di aspettare che il dolore svanisca da solo.

Respira Francesco che domani è arrivato e dobbiamo riuscire a trovare le scuse migliori per non lasciarsi affogare. E se non sai come fare, dai retta a me, con i denti serrati e le mani tremanti, prendi fiato. E poi scrivi.

“Un sognatore e’ colui che puo’ solo trovare la sua strada dalla luce
della luna, e la sua punizione e’ che vede l’alba prima del resto del mondo.”
Oscar Wilde

Oltre all’originale, questa è la versione che preferisco. Ve la presto, speriamo ci aiuti a sentirsi vivi.