Marta fa il libera tutti.

Marta sopravvive in una piazza vuota senza far rumore tra una pizzeria e un caffè,

lei ti guarda e ride quando la sua rabbia non riesce a contenerla dentro sé

un vestito rosso, scarpe senza tacco, labbra di cristallo le ginocchia al petto senza età,

e certe giornate si diverte a indovinare il destino di qualcuno che passa e che va,

Quello è un tipo strano, forse è innamorato e non si rassegna a scrivere sui muri frasi sovversive tipo tu sei mia

Marta che sospira, fuma una marlboro, butta fuori l’aria e la guarda andare via.

Se solo anche i ricordi, quelli spaventosi, fossero solubili in lacrime e bestemmie, o potessero affogare alla fine del bicchiere senza riaffiorare allora sì,

sì che si potrebbe respirare, correre e lasciarsi andare, senza la paura di cadere, avere soltanto l’urgenza di esserci.

Marta che cammina, stringe fra le mani, una birra media e la faccia di suo padre che le urla contro frasi scellerate con il pugno in aria già da un po’

Uno sulla schiena, uno sul costato, uno sulla bocca per provare in tutti i modi a cancellarle quel sorriso che si ostina a stare su,

Ma la paura del dolore non era mai abbastanza per farle dire “basta, io mi arrendo adesso, hai vinto tu”,

Marta porta addosso tutti i segni del passato, ma non sono quelli sulla pelle a fare male a farla smettere di respirare proprio no,

certe cicatrici non si fanno mai vedere, come vipere di bosco, escono di notte spargono veleno senza antidoto.

E non ti puoi salvare, non c’è un cazzo da fare, devi lasciarti torturare fino quasi a scomparire, finché non vanno via.

Che certi pensieri sono spaventosi, vivono in simbiosi come fossero due sposi il terrore e la follia.

Marta se ne andò, aveva sedici anni, si lasciò alle spalle, un uomo mostruoso e una madre che sapeva e non parlava, arresa ormai

E tutte le serate a sputare sangue per i pugni presi non avrebbero raggiunto il grado di dolore di quelle parole dette mai.

Marta si è salvata, forse non del tutto, ma ci sta provando a regalarsi il sogno di una vita presa contromano come certa musica,

lei ci sta provando, coi suoi occhi asciutti, a nascondersi dietro a un sospiro e fare “libera tutti” all’anima.

Marta è la nostra terza onda, quella che restituisce tutto, le immagini più belle, ricordi profumati, lenzuola stese al sole e brividi di sale,

lei si è rialzata dopo ogni caduta, perché Marta è sempre stata viva e non sopravvissuta.

Se Marta fosse una canzona sarebbe questa: L’anima non conta (Zen Circus)https://www.youtube.com/watch?v=TtLcvqCCXBI

L’amore forte.

C’è una bambina seduta sulla spiaggia che guarda verso il mare, in mezzo all’acqua c’è una donna vestita come un vento di Marrakesh, sembra un quadro in movimento,. qualcosa da ammirare senza farsi domande.

E’ così che funziona, le capita sempre più spesso, si alza all’improvviso dal divano, indossa qualche tipo di abito improbabile ed esce, con un’unica irremovibile destinazione. Il mare. E’ così che deve essere, in quelle mattine appena affacciate. Quella donna dall’età indefinita esce di casa per andare a fare l’amore.

Arriva alla spiaggia e sorride. Va verso quel deserto di acqua con uno sguardo di sfida, un passo sicuro e sinuoso, di chi è avvolto da pensieri scandalosi e non fa niente per tenerli nascosti. Si ferma ad un respiro dalla riva, da quel confine preciso in cui l’onda esprime il suo vigore assoluto e poi va a morire.

Alla fine si guardano, quella donna e il mare. E lo fanno forte, quasi a farsi male. E si immerge dentro, quella donna, in una distesa smisurata di acqua e tempeste, in quell’amante fragile e deciso, come un arcobaleno costante. E fanno l’amore. L’amore insicuro, delle sei del mattino, dell’acqua immobile, che quasi hai paura a metterci dentro le mani, che ci passi sopra le dita. L’amore, quello vero, quello senza ritorno, con le mani fra i capelli a guidare la testa verso una forma di paradiso. Quello che lascia i segni sulla pelle, che il giorno dopo li guardi nello specchio e ti mordi le labbra. L’amore forte, che ti graffia la schiena e l’esistenza, che ti allarga gli sguardi e i sospiri. L’amore sconosciuto del mare impetuoso, che non ti dà tregua, che ti strappa i vestiti e le voglie. Il mare indecente che fa sentire i denti sul collo e lecca le pieghe dell’anima. L’amore disperato del mare, che ti devasta i fianchi con spinte rabbiose, tenendoti in bilico fra la voglia di urlare e la fame di ossigeno. L’amore clandestino, con le spalle contro il muro e le gambe intorno alla vita. A tutta la sua vita. E lo senti arrivare quell’uragano implacabile di spasmi e lamenti e un po’ ti spaventi, ma punti i piedi, apri le braccia e lasci crollare i muscoli in quel confine preciso in cui l’onda esprime il suo vigore assoluto e poi va a morire.

In giornate come queste quella donna esce di casa, con addosso un vestito improbabile e va a fare l’amore forte. Quello che ti stravolge i sensi. L’amore di chi non sa più come fare.

Io sono Eleonora e quella donna è mia madre, o almeno lo è stata fino al giorno in cui non ha più fatto ritorno. Si è arresa a quel mare, disciolta in tutto quel mondo insidioso fatto di onde e correnti. Solo onde e correnti. A perdita d’occhio. E’ stata inghiottita da quel richiamo ammaliante.

Pioveva quella mattina, di una pioggia strana, verticale e pesante, non era un temporale arrogante, ma caduta precisa di acqua, come un velo a tinta unita, come una preoccupazione costante. Una di quelle sensazioni che hanno l’aria di non finire più. Il mare sembrava un dipinto neorealista, con la sua pelle crivellata da pallottole infinite. Era uno sguardo capace di scatenare pensieri inattesi. La strana visione di acqua nell’acqua.

Lei disse soltanto “questo cancro che mi mangia l’anima non mi avrà mai. Vivi senza fretta bambina mia e quando non sai più come fare vieni qui e guarda il mare. Mi troverai là”.

E lo faccio, ogni volta che mi scappa l’anima, lo faccio. Mi siedo su questa spiaggia e guardo quel confine preciso, in cui l’onda esprime il suo vigore assoluto e poi va a morire. E lo sento quel mare addosso, quel suo modo di abbracciarmi la vita. Quel suo modo di fare l’amore. L’amore forte.

 

La rabbia addosso

Mi sveglio, nel cuore della notte, apro gli occhi e lei è lì, in piedi a fianco del letto che mi guarda.

–          Cristo santo! Mi hai fatto prendere un colpo. Che succede?

–          Hai scritto oggi?

–          Sì, qualcosa, ma faccio fatica, le parole mi sfuggono. Ho bisogno di un’ispirazione.

–          Scrivi di me.

–          Non posso Arianna, mi prenderebbero per pazzo. Prenderebbero per pazzi entrambi.

–          Io parlo e tu scrivi di me.

 

Arianna te la trovi accanto, non sai neanche come abbia fatto ad arrivare fin lì, senza farsi sentire, senza un rumore. Arianna arriva leggera, come quelli che non hanno colpe da espiare.

Non dice mai una parola, ti guarda, con i suoi occhi svelti, ma non apre bocca. Lei si parla dentro. Come se avesse bisogno di tenere al riparo le sue emozioni. Arianna ha trentadue anni da quasi quindici anni e tra mille anni ne avrà ancora trentadue.

Ci sono persone che hanno bisogno della loro camera del silenzio, Sono quelli con il buio in fondo agli occhi un po’ più nero del normale e il mare dentro all’anima più profondo.

Quelli che si perdono dietro un’illusione, quelli come Arianna hanno le parole nelle tempie che fanno un frastuono insopportabile e l’esistenza piena di lividi da smaltire, ci passano vicino lungo i marciapiedi, magari ci sfiorano, ma non ci facciamo caso, è il loro modo di chiedere attenzione, ma non sanno neanche loro dove son finiti coi pensieri.

Arianna tiene gli occhi bassi, come a voler nascondere una vergogna e le mani strette a pugno, come fanno quelli che vivono con la rabbia addosso. Ha una sorta di terrore sulla pelle, che è più di una paura. E’ l’attesa di una tempesta.

–          Scrivi di me e fai capire che non sono sbagliata. Quelle come me non sono sbagliate.

Quelle come lei sono solo spaventate, perché l’uomo che le ha prese a schiaffi ha ridotto a brandelli le loro sicurezze. E noi non sappiamo un cazzo di ciò che hanno provato, che a stare da questa parte è facile dire “perché non hai reagito?”, ma per quelle come lei la fuga non è contemplata, lei non smetterebbe mai di aggrapparsi alla speranza di una redenzione. Perché di forza ce n’è infinita nel cuore grande di Arianna.

Davvero non lo sappiamo ciò che passa nei pensieri di questa donna forte quando lui rientra con la bottiglia in mano e il diavolo nelle vene. E la guarda e lei lo sa che non servirà misurare i gesti e le parole. Che poi non è neanche il dolore nelle ossa quello che fa male, ma gli sguardi della gente il giorno successivo. Perché è una fitta enorme sentirsi fuori posto e non poterlo dire. Arianna non ha quasi niente da farsi perdonare, ma nonostante questo farebbe di tutto per non farsi notare.

–          Scrivi di me, ti prego e fai capire l’importanza dei miei silenzi

Arianna ha bisogno di rifugiarsi nella sua stanza, quella in cui non c’è nessun rumore, con le pareti di cotone, per quelle come lei anche il suono dell’aria che si muove potrebbe essere letale. Lei vive così, nei suoi corridoi senza frastuoni, lei vive lì, fra le mura di quelli che non sanno dove andare, che anche se si perdono ormai non ci fanno più caso. E vanno a senso. Che in quel luogo non c’è nessuno che vuol sapere, non serve dare spiegazioni, Quello è il posto di quelli a cui scappa l’anima.

Arianna mi guarda dormire, ha un vestito chiaro e i capelli sul volto a coprire gli ematomi, ha trentadue anni, da almeno quindici anni e fra mille anni ne avrà ancora trentadue. La sua forza non l’ha salvata, ma è riuscita a non farsi scappare l’anima. Non è sbagliata Arianna, non sono sbagliate le donne come lei che resistono agli schiaffi e a tutti gli altri tipi di dolore. Neanche una lo è. Viene solo voglia di salvarle tutte, ma non ce la faremo mai e allora non ci rimane che andare in giro con le mani chiuse a pugno e la rabbia addosso per non esserci riusciti.

–          Che dici? Può andare? E’ troppo patetico? Ho provato a scrivere di te, ma credimi, non è per niente facile. E comunque mi prenderanno per pazzo.

–          Pazienza, non sarà grave.

–          Avrei potuto fare di meglio, lo so, ma davvero non escono le parole. E poi non dimentichiamoci che sto parlando con qualcuno che non c’è. (decisamente mi prenderanno per pazzo)

–          Stai parlando con qualcuno che non puoi toccare, ma che è sempre stata qui.

–          Perché proprio io?

–          Perché hai risposto alla mia richiesta

–          Quale richiesta?

–          Di un atto d’amore

–          E io che pensavo che fosse la Telecom

–          Comunque non abbiamo finito.

–          Lo so, ma adesso lasciami dormire. Che qui domani c’è gente che lavora. Arianna…comunque…grazie. (Decisamente, mi prenderanno per pazzo. Decisamente)

 

 

Morgana Nientebaci.

IMG_5380.JPG

– Primissimo piano -.
Due occhi castani, ma tiri ad indovinare perché non distingui bene il colore, occhi veloci, che sognano vallate e spazi infiniti, orizzonti di rondini e fruscii, occhi che nascondono tempeste e solitudini, sogni di bambina e barche a vela. E li nascondono talmente bene che se li guardi ci vedi solo labirinti di voci soffuse.

– Primo piano -.
Un viso di strade scavate, di fughe e di ritorni, di pomeriggi di febbre e rincorse, di carezze ricevute senza amore, di sorrisi disegnati col pugnale. Un viso che ha sentito sussurri non voluti, parole come sassi, respiri di sudore e spazzatura.
Odori di banchieri e clandestini, ministri e mendicanti, di doppiopetti e jeans strappati, di camicie inamidate e maglioni che sanno di tabacco e vino rosso.

– Mezzo busto –
Un collo di vene da baciare, di collane e bagnoschiuma, di regali mai voluti.
Due spalle di abbracci, di gioielli senza senso, di fatiche prese a nolo.
Seni di abbracci detestati, di mani ruvide di vetro, di bocche come draghi nel deserto, di lingue come lava nei polmoni.

– Piano americano –
Un corpo di diete e corse folli, di divani e perizoma, di schiena come a dire “passami le braccia sulla vita” non inteso in senso fisico.
Di cosce aperte senza anima, come quando “sto immaginando di essere altrove”, di gambe piegate e ginocchia su tappeti di chiodi, per regalare piaceri umilianti e spasmi nelle reni.

– Campo lungo –
Un letto a due piazze dove mettersi in croce aspettando il martirio, luci soffuse e profumi orientali, di incenso, solitudini rabbiose e istinti viscerali, pareti decorate di rimpianti e di vendette, materassi di illusioni per stenderti andando via da te, sotto a una voglia che striscia disperata, come un fiume asciutto dentro ai fianchi.
Evadere in un mondo di notti verdi e luci al neon, un posto di cieli chiari e rosmarino, per non dover vedere lo schifo di alberghi scintillanti, dove poter scegliere di non vendere il corpo ad ore, dove trovi nel cassetto bolle di sapone e sogni blu e mai preservativi e calze a rete.
Un posto dove nessuno è un’isola e l’anima non si incarta nel denaro, dove non serve essere Morgana, ma Patrizia può bastare, dove il tempo inganna gli orologi e i giorni non si perdono sul fondo di un’estate.

Una finestra che si affaccia su viali a perdifiato, in clacson accelerati e sui vetri la tua voglia di volare.
Adesso sei Patrizia, adesso respira forte, adesso togli i tacchi, cammina a piedi nudi, accendi la tua radio, lo senti? C’è Peter Gabriel che canta Shock the monkey, ti viene voglia di ballare, ti viene voglia di dire “ce la posso fare”.
Registrati i pensieri, adesso sei Patrizia e vieni da lontano, hai incendiato i progetti di ragazza, hai perso per strada i sorrisi le illusioni, hai incontrato i tuoi miraggi e li hai lasciati lungo il fiume, ma stai tranquilla, stanno bene. Stai per metterti a cantare
Ma bussano alla porta. Ricordati Morgana: niente baci.

– Campo lunghissimo -.

“Le prostitute sono più vicine a Dio delle donne oneste: han perduto la superbia e non hanno più l’orgoglio.” (Anatole France – Il giglio rosso)

Tori Amos: Cornflakes girls

Alla corte di Madame Sitrì.

IMG_5339-0.JPG

C’è l’anima di un gatto ammaliante dentro ognuno di noi.

Ne senti la presenza, si aggira sinuoso fra un ideale tradito e un principio venduto al mercato rionale, rimane in agguato e non sai mai quando uscirà allo scoperto, in realtà preghiamo sempre che resti al suo posto, ma non sarà così. ci cammina dentro silenzioso, si muove furtivo attorno ai nostri ideali, ci tenta, ci seduce, ci rende instabili, ci rassicura, come un bacio lento che vorresti non finisse mai

È il nostro mistero, il nostro lato in penombra, ci graffia con i ricordi e ci ammalia con gli entusiasmi.
È il nostro riflesso imprevedibile, seducente e profumato come le prostitute del bordello di Madame Sitrì, ci illude, ci regala l’impressione di poterlo controllare, si sdraia docile ai nostri piedi, per poi sbranarci nei momenti meno opporuni.

Si impossessa di noi mentre discutiamo animatamente, mentre tiriamo sassi contro un dolore fuori controllo, mentre guardiamo la nostra America allontanarsi asciugandosi il viso. Pilota le nostre parole, quando le frantumiamo contro i muri di due occhi indifesi, esce fuori sfoderando artigli affilati e straccia le vesti di quell’anima che ci aspetta da sempre, si accanisce sulla carne di chi ci ascolta morendo in silenzio.

Nessun rumore, si lascia accarezzare e poi con un balzo improvviso si prende gioco di noi, è la nostra lingua impulsiva che sputa sentenze, la nostra voce alterata che sbandiera rancori, le nostre mani agitate che spostano aria rabbiosa.
Si muove con grazia il nostro gatto lascivo, si strofina indecente come un’amante vogliosa, con il sul manto lucido di una bellezza inquietante, poi svanisce ammiccante dietro la tenda della finta normalità, ci sfida a seguirlo alzando la coda, invita a duello il nostro volere insicuro.
È il nostro sabato ozioso, il nostro istinto più vero, il desiderio straziante di affondare le mani dentro una voglia indecente.

Dà la caccia in eterno al nostro autocontrollo, lo trova, lo sbrana, lo nasconde in soffitta, ogni tanto lo libera per torturarlo di nuovo.
È il nostro grido ovattato, che trova uno sfogo improvviso, è il fuggiasco in attesa di un carcere nuovo, è lo sparo mortale ad un sogno in affitto.
È come quando ti manca talmente qualcuno che ti senti un teatrante senza il suo boccascena.

E allora nel silenzio più totale la sento che si muove con passo felpato, finalmente la guardo e la lascio graffiarmi, mi spaventa e mi cura. L’ anima errante del mio gatto randagio.

“Ognuno di noi è una luna: ha un lato oscuro che non mostra mai a nessun altro.”
Mark Twain, Seguendo l’equatore

Se l’anima del mio gatto avesse una forma, mi piacerebbe che fosse così: Cats In The Cradle

Dentro un sogno d’amianto.

E allora scrivi, per non sentire il tempo che passa, per non vedere gli anni cadere, per dire che non ti basta veder passare i tuoi giorni.

Scrivi, perché devi far uscire la sabbia dai polmoni, perché in quella sabbia ci sono i tuoi sogni interrotti e fanno un male bastardo.
Scrivi, perché in qualche modo devi pur sopravvivere, parla dei momenti in cui vorresti strappare il cuore e piantarlo al muro per farlo parlare, per sentire che cazzo c’ha da urlare così forte, che non sei sordo, che qui c’è gente che vorrebbe riposare.

E allora scrivi, parla di cose che non sai, di persone andate, di storie finite, delle tue dita che fanno vibrare una chitarra acustica che non suonava da anni, della tua voce che segue le note ed esce impastata, di quando salivi su un palco e ti piantavano un microfono davanti e lì, in quel preciso istante, vivevi davvero.

E allora scrivi France, come ti viene, che tanto sono le 3 di notte, chi vuoi che se ne accorga se sbagli gli accenti, che a quest’ora si sa, non esce mai niente di buono, ma tu fregatene e continua a battere le dita sui tasti, e se anche nessuno leggerà mai, va comunque bene così.
Lo stai facendo solo per te, perché stanotte sei egoista, perché ne hai bisogno, perché ogni tanto l’anima deve riuscire a prendere aria.

Scrivi, che se scrivi non verranno a cercarti, che se scrivi non sanno chi sei, non saranno capaci di spezzarti il respiro, se metti in fila parola riesci a fregarli, se muovi le dita racconti il tuo blues. Se muovi le dita riesci volare.
E scrivi di te, che adesso puoi farlo, che a quest’ora chi vuoi che ti stia ad ascoltare, racconta il tuo mondo che è qui e ne senti il respiro, in questo silenzio ne intuisci i contorni, che alcuni giorni passati sono stati un regalo, che preghi ogni giorno che lei sia felice davvero, che mica è un reato stare bene ad oltranza, che tu ne hai bisogno di quegli occhi assordanti, che in quel tempo passato abbracciati sembrava tutto perfetto.

E raccontalo al mondo di quella smania imprecisa, che di giorno la lasci nascosta a dovere, ma con il buio riappare e sembra che voglia incendiare i tuoi sogni d’amianto. Che i sogni si sa, prendono fuoco con poco.

Scrivi, che fino a domani nessuno vorrà più sapere se stai bene o stai male e le facce che fai saranno sempre le stesse, solo i sorrisi sono meno impulsivi, ma chi vuoi che se ne accorga, io e te lo sappiamo che siamo bravi a celare un fremito di disperazione dietro a un solco sul viso.

E allora chiudi gli occhi, roba di un minuto, che la vita è in attesa dei tuoi passi all’assalto e se senti che cedi stringi i pugni più forte, che le botte che hai preso fanno male sul serio e non c’è più motivo di aspettare che il dolore svanisca da solo.

Respira Francesco che domani è arrivato e dobbiamo riuscire a trovare le scuse migliori per non lasciarsi affogare. E se non sai come fare, dai retta a me, con i denti serrati e le mani tremanti, prendi fiato. E poi scrivi.

“Un sognatore e’ colui che puo’ solo trovare la sua strada dalla luce
della luna, e la sua punizione e’ che vede l’alba prima del resto del mondo.”
Oscar Wilde

Oltre all’originale, questa è la versione che preferisco. Ve la presto, speriamo ci aiuti a sentirsi vivi.

Un’altra giornata di vento forte

IMG_5312.JPG
Foto presa sul web

Forse scorrono piano fra un silenzio e un senso di sabbia nelle scarpe, le persone che non si sono accontentate.

Seguono il profilo della vita fra le cose minori, leggono i dettagli e non si lasciano sopraffare dal tempo che passa, perché per loro i minuti trascorsi pensando a “come sarebbe stato se” non hanno molto senso.
Sono loro, le riconosci da lontano, sono le donne forti, che non si sono accontentante di “un uomo purchè sia”, che hanno incendiato i progetti di una vita che solo a pensarla il loro stomaco si conterceva, che hanno scavato fino a spellarsi le mani, ma alla fine lo hanno trovato il loro vento di scirocco, quello che le porta al largo, oltre il faro di Gorgona, fiere, e decise ad affrontare la traversata. Comunque vada.
Sono le donne che non lo dicono ma vorrebbero uscire da quel vento forte, che non si sono vendute, che continuano a scommettere su se stesse. Nonostante tutto.
Che ad ogni passo pensano di mollare, di adeguarsi, che sarebbe tutto più semplice, che non accontentarsi è quasi una condanna, che sognano, come tutti, ma vivono a modo loro.

Quelle persone lì, quelle donne lì, non vogliono uomini “altrove”, distratti, scostanti, no, loro pretendono impegno di vita nelle vene, di un buio che serve ad immaginare, vogliono uno straccio di ragione che le inviti a provarci.
Non cercano amori sicuri, preferiscono il caos, gli equilibri precari, i silenzi da interpretare, i sussulti incontrollati. Loro cercano l’anima, quella vera. E sarà sempre così.
Quelle donne lì, brillano, di luce propria, anche se non vorrebbero farlo, anche se qualcuno ripete loro “ma chi te lo fa fare”, anche se alla fine della giornata si ritrovano ad affogare in un pensiero, dentro ad un maglione e sul fondo di una tisana al biancospino. Si stringono nelle spalle, guardano oltre la siepe e aspettano che arrivi domani.

Ci sono uomini che non si accontentano, che lottano per un’emozione senza nome, per un motivo che li convinca a continuare a farlo,. Sono quelli che scelgono di amare e farsi male, che non basta sopravvivere, che non vogliono il male minore, che rischiano, e sa va male pazienza, che non lasceranno mai che qualcuno possa vivere la loro vita.
Sono quelli che hanno i lividi e i cazzotti li hanno presi talmente forte che dio solo sa come facciano a reggersi ancora in piedi. E come facciano ancora a sorridere, ecco, quello non lo sa neanche dio.

Sono gli uomini che “se io ho bisogno tu devi esserci”, quelli a cui non servono prove di coraggio per sapere che esistono, che scelgono, cadono, ma continuano a tirare su i guantoni.
Sono quelli che hanno rinunciato a godersi il viaggio per prendere in mano il timone, si portano dietro due o tre giorni terribili che premono ancora tra il collo e la spalla, ma cercano di non farci caso. Non riuscendoci, peraltro.
Gli uomini che non si accontentano hanno bisogno di confeme, sanno che ad ingannarli non è l’amore, ma hanno una paura fottuta a buttarsi di testa in una storia, si strappano il petto con i “ti prego, un’altra botta no”, con i “se devi spararmi, prendi la mira e fallo adesso, che se aspetti poi mi uccidi davvero”, che vivere per loro è come tirare a sorte.
Sono uomini che bestemmiano contro la loro natura, perché di notte urla più forte e stanno finendo i soffitti da fissare e dopo sarà impossibile non essere sbranati dalla vita.
E anche il loro vento soffia forte, così forte che lascia i segni e fanno un male boia, ma più il dolore sale più loro decidono di non cedere, perchè hanno imparato a godersi sulla lingua il sapore di ogni spillo di felicità, perchè sanno che stanno sputando sangue per riuscire ad accerttarsi, che a forza di andare in salita i muscoli bruciano e la vetta sta diventando un pensiero evanescente, ma non si rassegnano a vivere al riparo dalle passioni.

Qualcuno un giorno mi ha detto “le persone che non si accontentano alla fine restano da sole”.
Non lo so, forse si o forse no, forse hanno vinto comunque, forse alla fine avranno perso tutto. Tutto. Tranne la dignità. E sapranno sostenere lo sguardo di quell’immagine che lo specchio rimanda.

Le persone che non si accontentano continueranno a scorrere piano fra un silenzio e un senso di sabbia nelle scarpe, ma con il sorriso consapevole di chi ha imparato a convivere con quel vento forte.

“Nel momento in cui ti accontenti di meno di quanto meriti, ottieni ancora meno di quello per cui ti sei accontentato.” MAUREEN DOWD

Ok, oggi mi è presa così, sono un po’ Evanescente

Fate il vostro gioco.

Composite

Oh, svegliati, che aspetti?…la partita è iniziata.
Hanno distribuito le carte, è la prima cosa da fare, la più semplice, ma ora viene il bello, ora è il tuo turno.
Che fai?, sbirci le carte degli altri?, fregatene delle carte degli altri, tu concentrati sulle tue.
E non stare lì a lamentarti sempre, e non ripetere che quelle degli altri sono migliori, che le tue fanno schifo, che sei stato sfortunato, che quasi quasi potresti anche provare a barare un po’, tanto… chi vuoi che se ne accorga.

E invece magari se ne accorgono o magari la farai franca, ma poi…dimmi come diavolo farai a guardarti allo specchio. Si perchè tutti i punti che farai dovranno essere meritati. Solo così avrai vinto veramente.

Si, ma muoviti, non stare lì a girati e rigirarti le carte fra le mani, tanto non cambiano mica, l’unica cosa che puo’ cambiare è il tuo modo di vederle, è il valore che puoi dare ad ognuna di essa. Ma questo puoi farlo solo tu, io posso solo continuare a martellarti e romperti le scatole all’infinito, ma niente di più. D’altronde il compito di noi antipatici spronatori rompicoglioni è questo.

Come dici? hai paura a buttare giù una carta? Bravo, pensi di essere l’unico in questa stanza ad avere paura?, sei convinto che quelli che hanno giocato prima di te non l’avessero?, ne avevano eccome. Una paura fottuta. E gran parte di loro, moltissimi direi, hanno rinunciato, hanno detto “io mi ritiro, che sto bene così”. Ecco, guarda. Guarda la fine che hanno fatto. ti sembrano felici? Si?. Balle. Non sono felici, sono rassegnati, omologati, pieni di “se avessi fatto…se avessi detto”. E tu vorresti vivere così?. E me lo chiami vivere questo? E poi, tu non sei “la maggior parte delle gente”, tu sei tu.

Perciò finiscila di morderti il labbro e gioca quella cazzo di carta, che non possiamo stare qui in eterno, oh, ho una famiglia anch’io, che ti credi. Dai, signorino, tira.

Che significa “mi prenderanno in giro”?, che rideranno di te? E’ questo che ti spaventa?, fregatene e ridi con loro, credi che loro non abbiamo mai sbagliato? che nessuno li abbia mai presi per il culo almeno una volta nella vita? e se fosse una volta sola sarebbero comunque dei miracolati. Le persone che rideranno di te ci saranno sempre, tu lo sai, ma ci saranno altrettante persone che rideranno di loro. Ed io, sinceramente non sono così convinto che loro lo sappiano.

Dai è il momento. Gioca la carta e credi sempre in lei, difendila, perchè lei ha solo te, tu sei l’unico che potrà portarla fino in fondo e una volta arrivati, insieme potrete dire “ce l’abbiamo fatta”.

Ohhh bravo, ci sei riuscito. Ora la tua carta è sul tavolo. Visto? non è stato poi così difficile, se è giusta o sbagliata lo sapremo solo alla fine della partita, per ora l’unica cosa che sappiamo è che quella carta è tua e hai delle responsabilità verso di lei. Non permettere a nessuno di provare a farti cambiare idea, è li che ti guarda, proteggila, passo dopo passo, all’inizio sarà dura, ma con il tempo ti convincerai che non avresti potuto scegliere una carta migliore di quella, nessuno dovrà mai sostituirla con la propria. Ora finalmente sei della partita. Sicuramente, vada come vada, alla fine avrai giocato. E questa è la cosa che conta davvero.

Ora posso andare, se avrai bisogno di me , mi troverai al solito posto, un palmo sotto all’anima a godermi le meritate ferie. Che noi carogne ci stanchiamo molto.

Datti da fare adesso e dimostra a tutti che sei un vero giocatore.

Perchè se dopo dieci minuti che giochi non hai individuato “il pollo”….significa che sei tu.