Quando Giulietta guarda il mare.

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A volte, senza preavviso, accadono cose che non si spiegano. Domande lasciate in sospeso, a cui non riesci a dare risposta e allora passano i giorni, gli anni, e te ne dimentichi. Quando pensi di essere al sicuro, al riparo da tutte quelle domande che portano cucite addosso risposte spaventose, ecco, esattamente in quel momento lì, arrivano. Le risposte.

Mercuzio, non ci crederai, ma quel giorno io era là senza uno scopo preciso, te lo giuro amico mio, non avevo nessuno scopo preciso. Ero là e basta, perché là c’era il mare. E basta.

La vidi in controluce, con quell’assurdo sole malato di fine pomeriggio messo lì ad allungare le ombre e gli sguardi. Era seduta sulla panchina rivolta verso occidente, quella con le assi di legno verde su cui qualcuno un giorno ha scritto “vado camminando intorno a tutti voi, non c’è pace in questo vostro mondo. Non c’è stata mai”.
Se ne stava lì, con il suo zaino sulla spalla destra e un segreto di cartone stretto al petto, come il ricordo di qualcosa o di qualcuno che non intendi lasciar andare. E lo stringi forte, come lui stringe il tuo respiro, che se allenti la presa rischi di farlo scivolare via. Mercuzio, avresti dovuto vederla, era di una bellezza, una di quelle bellezze da guardare senza avvicinarsi troppo, che potrebbero sgualcirsi, che se le tocchi potrebbero svanire. Dio com’era, – Ciao, che ci fai qui? – ma lo dissi piano, cercando di spostare meno aria possibile. Le dissi proprio così, lo so, non è originale come approccio, ma ha funzionato. – Guardo il mare – mi disse proprio così “guardo il mare” e tu lo sai amico mio com’è Giulietta quando guarda il mare. Non ti dà scampo, non puoi pensare neanche per un momento di salvarti, quando lei sta lì davanti a te. E guarda il mare. E’ una di quelle immagini che non ti lasciano in pace. La gente che la vede mentre lei guarda il mare non resiste alla tentazione di passarle un dito sul volto per scostarle i capelli dagli occhi. E io stavo lì con una voglia fortissima che mordeva l’anima, di passarle un dito sul volto e scostarle i capelli dagli occhi.
– Sei appena arrivata?
– No, parto domani – mi disse – devo portare una cosa dall’altra parte –
– Torni?…
– Non scherzare, nessuno di quelli che vanno dall’altra parte torna.
Mi disse così, “dall’altra parte”, come se fosse un luogo indefinito. E come lo ritrovi qualcuno che va dall’altra parte. Mica è come qui, che fra queste vie, in questo sputo di mondo, ci conosciamo tutti. Che qui se qualcuno si perde per strada lo vai a riprendere. Qui nessuno è mai solo veramente. Ma dall’altra parte, Cristo santo, devi cavartela da solo. Capisci amico mio?, non ci sarebbe stato modo di andarla a riprendere.
C’era una sola cosa da fare, quella che tieni custodita sottochiave in un cassetto, come una Colt con i proiettili d’oro. Era giunto il momento di usarla. Era il momento di prendere la mira e – Vuoi sentirla una storia? – Sparare!
– Ok, ma che non sia troppo lunga, che sono stanca e domattina mi alzo presto. Devo andare dall’altra parte –
Iniziai a parlare del mare, proprio così, delle sue profondità, delle vite della gente di quaggiù. Misi insieme tutte quei racconti assurdi, quelli che mi raccontavi tu quando fuori pioveva. Li misi tutti insieme, tagliando, cucendo e inventando e ne feci una storia unica. Più lunga che potevo. Che certi momenti non capitano mica tutti i giorni, nella maggior parte delle vite che conosco non sono capitati proprio mai.
Alla fine, senza togliere neanche per un secondo lo sguardo dal mare e senza allentare la presa da quel segreto di cartone sul petto, mi chiese – Ne conosci un’altra? Una che sia lunga quasi una vita, intendo –
E da allora ci siamo amati, proprio così Mercuzio, ci siamo amati. Che certi amori non capitano mica tutti i giorni. Nella maggior parte delle vite che conosco non sono capitati proprio mai.

Furono anni vissuti d’un fiato, con la consapevolezza che non sarebbero serviti ad impedirle di andare un giorno dall’altra parte a portare quel maledetto segreto di cartone chissà dove e a chissà chi.

Io e te lo sappiamo che quelli come noi non possono cambiare per sempre il destino delle persone. L’unica cosa che ci rimane è tentare di cambiarne il percorso per un ristretto lasso tempo. Come se la vita di chi abbiamo vicino si concedesse una pausa. Ma quelle pause lì hanno sempre una fine, la curva si esaurisce e quelle vite riprendono il loro normale cammino.

Giulietta aveva percorso la sua curva, ci aveva impiegato ventidue anni a farla tutta. Ero riuscito a non farla partire, per ventidue anni, ogni singolo giorno, aveva perso un treno, una nave un aereo che l’avrebbe portata dall’altra parte. No, dico, ventidue anni, non uno di meno. Anche se sembrarono ventidue secondi.

A volte, senza preavviso, accadono cose che non si spiegano. Domande lasciate in sospeso, a cui non riesci a dare risposta e allora passano i giorni, gli anni, e te ne dimentichi. Quando pensi di essere al sicuro, al riparo da tutte quelle domande che portano cucite addosso risposte spaventose, ecco, esattamente in quel momento lì, arrivano. Le risposte.

Partì un mattino presto, di un giorno che pioveva, come a lavare via la notte e le angosce. Andò incontro a quel cielo che l’aspettava da anni. Partì senza voltarsi indietro, come qualcuno che ha esaurito la sua missione e se ne va senza rimpianti. Con uno zaino sulla spalla destra ed un segreto di cartone stretto al petto, come il ricordo di qualcosa o di qualcuno che non intendi lasciar andare. Non provai neanche a fermarla, aveva un segreto di cartone da portare dall’altra parte, non le chiesi neanche se sarebbe tornata, perché andava dall’altra parte e dall’altra parte c’era l’America. E nessuno di quelli che va laggiù torna. La vidi allontanarsi, Dio com’era bella, Pregai soltanto che non si perdesse, perché come lo ritrovi qualcuno che va dall’altra parte. Dimmelo Mercuzio, se si perdesse come farei a ritrovarla. Là c’è un mondo sproporzionato. Là c’è l’America.

“Addio Romeo, che mi hai insegnato a capire il mare, a leggere la vita che la gente di quaggiù si porta addosso. E’ stato bello vedere il mondo attraverso i tuoi occhi, averti amato mi ha reso una donna migliore. Continua a sognare, uomo degli abissi, inventa storie che fanno bene al mondo. Hai ragione tu: certi amori non capitano mica tutti i giorni. Nella maggior parte delle vite che conosco non sono capitati proprio mai.
Pensami soltanto mentre guardo il mare.
Tua Giulietta”.

Perché “dall’altra parte” c’è una donna seduta al tavolo di un bar che racconta alla persona che ha di fronte il suo segreto di cartone. (James Blunt – Miss America)

(Questo racconto è stato ispirato da un capitolo del libro “Castelli di rabbia”, Mi sono divertito a filtrarlo un po’ e ad aggiungerci qualcosa di mio. Niente di più.)

Giulia degli abissi.

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Eccola Giulia che viveva in fondo al mare, venuta a galla per riuscire a prender fiato, che aspetta senza fretta che arrivi la sua maledizione.

Giulia ha avuto notti senza sogni, ha aspettato carezze mai arrivate, elemosinando briciole di sguardi, ha avuto amori devastanti, di silenzi smisurati, che laggiù in fondo al mare se apri bocca puoi soffocare. Giulia si è fatta crescere le spine intorno al cuore, che alla fine è l’unico modo per difendere la sua illusione di essere felice. Giulia che vedeva in quelle profondità la sua vita che svaniva su marciapiedi addormentati.

Giulia che sogna amori travolgenti, quelli fatti di treni che non partono, quelli da baciarsi sui ponti la sera, da lasciare in giro emozioni sparse qua e là. Amori di “camminami nel cuore”, di “tienimi vicino quando ti voglio allontanare”, di lenzuola sopra il viso, carezze date a voce, sogna montagne da scalare tenendosi per mano, che una vita di pianure non ti fa sentire viva, sogna passioni sviscerate come panni stesi al sole e pianti senza fine da sfogare negli abbracci. Sogna vite in parallelo che si guardano nell’anima.

Ma rimane nel suo mondo, che la terraferma fa paura, meglio deserti in movimento, che nelle tue profondità ci sono solo insidie conosciute. Meglio muoversi in disparte, con bracciate più rabbiose. Meglio vivere sott’acqua che se piangi non si vede.

Giulia che nuota fino a riva e che prova a camminare, Giulia sorride fra la gente e cerca un sogno preso a rate, lei parla poco e in silenzio si ripete “non scordarti mai il dolore che hai provato”. Ma il tempo scorre piano e cancella le ferite e non ci sono più le spine intorno al cuore, prova a mettere da parte la sua esistenza negli abissi, si è strappata vie le squame per non farsi intercettare, apre bocca e non affoga e soffia fuori le parole, prova a fidarsi della gente, forse non farà poi così male, i suoi venti di bufere hanno cambiato direzione.

Giulia che si imbatte in due occhi di rincorse a perdifiato, che si lascia abbandonare da sussulti di risate, quella voce cura il male di una vita di paure, quelle braccia sono rami su cui potersi addormentare. Le parole sono quelle, i sospiri di rugiada, era quello che sognava al di là dei suoi pensieri. Era quello che voleva, le sue preghiere esaudite, il dio del mare questa volta si era mosso a compassione.

Giulia vive ed è felice ha ripreso anche a nuotare, lui le dice “andiamo sotto che ci sono meraviglie”, lei si convince che sia giusto che stavolta non farà male, guarda il cielo e prende fiato e si immerge fra le onde, sicura di aver trovato il suo paradiso da baciare.
Eccola la sua maledizione!

Adesso Giulia è alla deriva, lei si è persa nei fondali, sta vagando alla ricerca di uno strapiombo in cui sparire, i suoi sorrisi frantumati e la sua anima essiccata.
Son passate le stagioni, ma sulla spiaggia è tutto uguale, i mercati e le balere, ma nelle sere tempestose qualcuno parla ancora di Giulia, che viveva in fondo al mare.

“Devo essere una sirena. Non ho paura della profondità e ho una gran paura della vita superficiale. “(Anaïs Nin)

Per tutte le sirene che si ostinano a sognare. (Sirens – Pearl Jam)