Le ragazze degli anni novanta.

Avresti dovuto vederle le ragazze degli anni novanta,

che fumavano sotto le stelle con Dolores O’ Riordan che canta,

di frasi d’amore riempivano il diario,

Come una Alice qualunque che si innamora di Mario

E scriveva i “per sempre” sulla Smemoranda

Avresti dovuto vederle le ragazze degli anni novanta.

Poco più di vent’anni e il duemila alle porte,

ma il futuro è un bugiardo con le gambe un po’ corte,

poco più di vent’anni e qualche pena d’amore,

ma certe notti era bello aver mal di cuore,

con i sospiri intrecciati in fondo a una Panda,

Avresti dovuto vederle le ragazze degli anni novanta.

In quel posto segreto, quello del primo bacio,

rimanevi in attesa come un gatto randagio,

arrivava improvvisa bella come un temporale

e ti sentivi un po’ dio quando guarda il suo mare.

era la risposta perfetta a ogni domanda.

Avresti dovuto vederle le ragazze degli anni novanta.

Ne è passato di tempo e son cambiate le facce,

di Alice e di Mario si son perse le tracce.

Lei si è fatta ingannare da un amore bugiardo,

lui si trascina la vita e ha spento lo sguardo,

ma ogni tanto alla radio c’è Dolores che canta.

Non si sono mai arrese le ragazze degli anni novanta.

Alcune hanno un uomo a cui far promesse

altre hanno figli e diverse scommesse

spesso i sogni e la vita fan fatica a coincidere

ma loro fanno spallucce si ostinano a ridere

Hanno un lampo negli occhi che nessuno comanda.

Le riconosci tra mille, le ragazze degli anni novanta.

Adesso son donne con il basco e lo scudo,

soldatesse in tailluer con lo sguardo sicuro,

ma si accendono ancora quando si apre il sipario

e ripensano al posto, quello del primo bacio.

il cuore ha un sussulto e il respiro si incanta.

Sanno amare davvero, le ragazze degli anni novanta.

Il movimento perfetto.

Le mattonelle della piazza disposte in diagonale, secondo uno schema ordinato, a creare un obliquo progetto. Geometrico e perfetto. Linee parallele che salgono impavide fino alla vetta di un successo ipotetico per poi ripiombare verso il basso in una discesa senza freni. E una volta toccato il fondo riemergere con una – continua – testarda volontà. Così, quasi all’infinito, rappresentazione perfetta e crudele delle umane esistenze.

A metà di una di queste salite c’era Fede, seduta al tavolo di un bar con lo sguardo perso dentro ad un aperitivo quasi rosso, al profumo di frutta e giorni andati. Tiene il bicchiere con entrambe le mani, in uno tentativo inconscio di preservare la fragilità del vetro dai terremoti della vita. E’ praticamente immobile, nessun gesto funzionale al tentativo di attirare l’attenzione, niente di niente, eppure non puoi fare a meno di guardarla. E trovarla attraente. Come quando passi davanti ad un quadro di Chagall, non è altro che una tela, un’immagine appesa ad una parete, assolutamente priva di una qualsiasi ambizione di notorietà, ma non puoi evitare di guardarla. Ti seduce. E ti perdi. Per sempre. C’è da dire che Fede era, oggettivamente, bellissima.

Fede era una di loro, una di quelli lì, una degli altri. Il suo nome vero nessuno lo ha mai saputo con precisione. Probabilmente Fede era il diminutivo di Federica, ma se glielo chiedevi rispondeva di no – Chiamami Fede, va bene così-. In pochi minuti le persone si abituavano e smettevano di farsi domande. Come se quelle quattro lettere fossero scivolate nel tessuto delle azioni quotidiane, tipo lavarsi il viso. Gesti automatici, dettagli a cui non facciamo più caso, per intenderci.

Chiunque si trovasse a passare per quella piazza non poteva esimersi dal guardarla, come fosse un vortice, il polo opposto capace di attrarre le linee visive. Fede aveva qualcosa di irrisolto che la rendeva terribilmente affascinante, un mistero dentro che la accompagnava continuamente. Lei non se ne preoccupava, non lo ostentava e non cercava di reprimerlo. Ma traspariva, in ogni gesto, come un vaso pieno fino all’orlo, incapace di trattenere tutto quel liquido, destinato a traboccare al minimo sobbalzo. Muoveva le mani e traboccava, si sedeva e traboccava, si aggiustava i capelli e traboccava, rideva e traboccava. Ti guardava di sfuggita e annegavi. Quel mistero dentro, lo teneva con sé, senza farci caso. Si limitava a portarlo in giro.

E allora capitava spesso di vedere uomini intenti a fantasticare. E si capiva che non erano pensieri innocenti, ma rovesci di passioni, immagini di schiene contro il muro e fianchi ad incassare le spinte dell’istinto, di bocche lungo il collo a percorrere sentieri di pelle e sudore, di mani tra i capelli a tirarsi su la testa a vicenda, nel tentativo estremo di tornare a respirare, in quell’istante senza fine che precede la fucilata in mezzo al ventre.

Pensieri così, che ottenevano una forma, scappavano via, come figli ribelli che prendevano coscienza della loro libertà. Non c’era niente da fare, era il corso logico delle cose, reprimerli avrebbe portato soltanto a miseri fallimenti. C’è da dire che Fede era, oggettivamente, bellissima.

Se ne stava lì, seduta, a fare da guardia a quel bicchiere, distoglieva lo sguardo solo per alzarlo verso il sole, in un movimento perfetto, quasi studiato oserei dire. Piegava lentamente indietro la testa, il mento sollevato, come l’urgenza controllata di ossigeno dopo una breve immersione. Si fermava proprio lì, oltre il pelo immaginario di un’acqua che vedeva solo lei. Lo fanno tutti, quelli là, questa cosa di tornare ogni tanto a respirare loro la fanno, ogni tanto. Magari a metà di un discorso poco interessante, alla fine di un bacio distratto, al trentaduesimo passo in una via affollata del centro, in un qualsiasi momento non preventivato, come una decisione presa all’improvviso, come una buona idea. Si interrompono di scatto. E lo fanno. Loro lo fanno. E’ il movimento perfetto.

A Fede capitò dopo un abbandono, uno di quelli che ti lasciano stordito, si ritrovò seduta per terra, come se qualcosa dentro si fosse interrotto, con le spalle appoggiate contro qualcosa di imbottito, non avrebbe saputo dire cosa, ma era un dettaglio irrilevante, con un vestito leggero a far da barriera al freddo del pavimento. Le ginocchia piegate sotto il mento e gli occhi, quegli occhi lì, a fissare la porta che qualcuno si era chiuso alle spalle un po’ di tempo prima.. Non avrebbe saputo quantificarlo con precisione, forse un paio di minuti, magari due ore, più probabilmente un giorno intero. Non aveva mai abbandonato quella posizione, non si era neanche sognata di farlo, finché un pensiero nitido, perentorio le si piantò nella mente. Una scheggia infilata in un punto inaccessibile della carne. Prese una manciata di qualcosa, erano pastiglie, ma avrebbero potuto essere pallottole, le spinse in gola, piegò lentamente indietro la testa, il mento in alto, come a sollevarlo dal pelo di un’acqua che vedeva sola lei. Il movimento perfetto.

Qualcuno l’aveva salvata, ma ormai era diventata una di loro. Di quelli che hanno baciato in bocca la morte ma sono stati strappati a quell’amplesso un attimo prima di raggiungere l’apice del piacere.

E allora se lo portano in giro il loro mistero, quelli là. Non possono fare altrimenti, alcuni cercano di perdonarsi, altri non ci provano neanche, perché chi ha iniziato a morire non smetterà mai di farlo.

Fede è una di loro, è questo che attrae terribilmente le persone che la osservano inconsapevoli. Ride, si aggiusta i capelli, muove le mani, si siede. Quasi normale, tuttavia ad ognuno rimane impressa solo l’immagine di lei che gira la testa all’improvviso, cercando qualcosa, gli occhi terrorizzati come a fissare una porta chiusa da qualcuno – Ossigeno.

C’è da dire che Fede è, oggettivamente, bellissima.

La valigia senza peso.

Finì di piovere il giorno della festa del santo. In realtà nessuno aveva mai dubitato di questo. Non c’è memoria di una festa del santo sotto la pioggia. Il temporale era finito, come era logico aspettarsi, se n’era andato lasciando poche tracce di sé, tranne qualche pozzanghera qua e là, che presto sarebbe scomparsa, eliminando definitivamente le prove del suo passaggio. Andato, svanito, così come si era manifestato adesso non esisteva più. Come quando arrivi alla sera, in un giorno come tutti gli altri, che neanche te lo saresti aspettato che fosse quel giorno lì, invece arrivi alla sera e ti rendi conto che quel dolore non c’è più. Finito, come era logico aspettarsi. Se n’era andato lasciando poche tracce di sé, tranne qualche livido in fondo all’anima, che sarebbe rimasto lì per sempre, mostrando in eterno le prove del suo passaggio.

Sabrina è arrivata qui, oggi, per caso, viene da lontano, in fuga da qualcuno e cerca chissà cosa. Ed è arrivata qui. Cammina per i vicoli, come se fosse in cerca di risposte. Cammina tenendo in mano una valigia senza peso, cerca meraviglie. E oggi le troverà.

Sabrina è partita qualche giorno fa, ha lasciato il suo lavoro di insegnante, suo marito che dormiva abbracciato ad un fucile e una bottiglia, suo fratello chissà dove sotto tre metri di terra e una raffica di mitra nel costato, ha lasciato il suo paese con un mare troppo scuro ed un cielo troppo basso che si piega sotto il peso delle bombe, che da quelle parti tiri a sorte con la vita.

E’ partita per trovarlo, il suo sogno, per farsi cogliere dallo sgomento e dalla bellezza che avrebbe accompagnato la sua ricerca. E’ partita per imparare a crederci davvero nel suo sogno possibile.

E’ arrivata qui, con una valigia senza peso, il giorno della festa. E trova Robert l’inglese, che suona con le dita i suoi bicchieri e ti ci perdi a guardare quelle mani frettolose che corrono sui bordi di vetro, come chi ha perso ogni speranza e danza sul ciglio di un burrone.

Trova Coppelia delle tenebre, che morì dieci anni fa ma nessuno glielo disse. Si aggira per i vicoli bui di questo borgo declamando versi di Lucrezio e Ceronetti, gli occhi neri come il culo dell’inferno e la voce di ragazza davanti a uno stupore. Un vestito di nebbia fitta a coprire il suo scheletro inquietante. Si avvicina ad un metro dal cemento, ti si pianta davanti, con quell’anima che ha e ti sfiora il viso con un dito. E tu lo senti il freddo delle ossa sulla pelle e preghi iddio che non si abbandoni mai. Ma Coppelia fa un inchino e si allontana e a te non rimane che un rivolo di cenere sullo zigomo sinistro.

Sabrina non smette neanche per un attimo di guardarsi intorno. E di cercare le sue risposte.

Da un angolo un po’ nascosto sbuca Mirandola dei ratti, vestita di crepuscoli e curiosità. Si aggira fra la gente all’ora del tramonto con il suo corteo di topi a farle da riparo. Sono scappati da una fiaba che profumava di tragedia, sfuggiti al controllo del loro distratto romanziere. Mirandola non ha un passato, la penna dell’autore non ha fatto in tempo a descrivere i giorni che ha vissuto. Così non conosce i suoi pensieri di bambina, il batticuore e le complicazioni del destino di ragazza. Non sa cosa sia l’amore da ricevere e poi dare, le notti con lenzuola intrise di istinto e di sudore. Lei impara ogni singolo dettaglio guardando le persone che le passano vicine, prende la tua mano fra le sue, ti soffia sulla fronte. Ti ruba un singolo ricordo, uno soltanto e in cambio ti dona un topolino per farsi perdonare. Lei, curiosa come un gatto.

Sabrina è frastornata, in mezzo a tutta quella gente dimentica il rumore delle bombe, dimentica l’odore aspro della guerra. Questo è soltanto il suo viaggio e non ci vuole rinunciare. Non smette neanche per un attimo di guardarsi intorno. E di cercare le sue risposte.

In mezzo alla discesa che porta alla piazza delle erbe c’è la tenda di Alice del nigredo. Alchimista e ciarlatana, insegna filastrocche ai bambini e piaceri di altro tipo ai loro padri. Un po’ strega in calze a rete un po’ fata immacolata, additata come eretica dalle donne del paese, bramata come il vino nel deserto dagli uomini furtivi. Trasforma il metallo in oro, il vile in guerriero, medica le ferite dell’anima cantando frasi in rima.

Sabrina si affaccia all’ingresso di quella tenda, un gesto appena accennato.

–  Ti stavo aspettando ragazza della sabbia, dimmi cosa cerchi e io ti aiuterò

–  Cerco le risposte, tutte quelle che posso avere, le cerco da sempre, da quando quel boato annunciò l’inizio di un mondo che non volevo. Non le trovo, le mie risposte, maledizione non le trovo.

– Saranno loro a trovare te, è sempre stato così, fin dall’inizio dei tempi. Noi non possediamo niente, abbiamo solo l’illusione del possesso. Adesso chiudi gli occhi, segui il ritmo del respiro, pensa alla domanda, sceglila bene, senza giri di parole. Quando sarai pronta apri gli occhi e prendi la tua risposta da uno di questi calici di fronte a te. E non dimenticare mai che sarà stata lei a scegliere te.

Sabrina formulò la sua domanda, era un pensiero deciso, quasi fastidioso, puntuale come l’inizio dell’inverno, poi senza dire una parola aprì gli occhi e prese un biglietto da un calice viola.

– Questo è ciò che stavi cercando, solo tu riuscirai a comprenderne l’esattezza dell’inchiostro sulla carta.

Le due donne si guardarono per un istante lungo quasi un’esistenza, poi Alice la baciò sulla bocca e le indicò l’uscita.

Appena in strada Sabrina aprì la sua valigia, completamente vuota, portata in giro per metterci dentro le risposte, prese il biglietto che teneva tra le dita lo rilesse ancora una volta.

Lasciò fuori i timori, le paure e i ripensamenti, mise dentro solo quel biglietto, con la sua potente filastrocca.

Chiuse la valigia e partì.

– Svegliati Sabrina, è ora di scrollarsi i sogni di dosso.

La ragazza aprì gli occhi, i contorni della stanza le furono subito familiari, un rapido inventario con lo sguardo, giusto per essere sicura che fosse tutto regolare. Ad una prima occhiata non si notavano sobbalzi strani, solo un biglietto rosso arrivato da chissà dove, l’inchiostro color oro proclamava una filastrocca che suonava come una sentenza.

“Dopo una lunga guerra Re Bianco si arrese. – Mandami alla forca, dunque! – Ma Re Nero gli donò castelli, cavalli e tesori. – Non li voglio! – No? – E la guerra ricominciò”

Se questo sogno avesse una colonna sonora sarebbe questa: Dei pensieri – Ezio Bosso

L’amore forte.

C’è una bambina seduta sulla spiaggia che guarda verso il mare, in mezzo all’acqua c’è una donna vestita come un vento di Marrakesh, sembra un quadro in movimento,. qualcosa da ammirare senza farsi domande.

E’ così che funziona, le capita sempre più spesso, si alza all’improvviso dal divano, indossa qualche tipo di abito improbabile ed esce, con un’unica irremovibile destinazione. Il mare. E’ così che deve essere, in quelle mattine appena affacciate. Quella donna dall’età indefinita esce di casa per andare a fare l’amore.

Arriva alla spiaggia e sorride. Va verso quel deserto di acqua con uno sguardo di sfida, un passo sicuro e sinuoso, di chi è avvolto da pensieri scandalosi e non fa niente per tenerli nascosti. Si ferma ad un respiro dalla riva, da quel confine preciso in cui l’onda esprime il suo vigore assoluto e poi va a morire.

Alla fine si guardano, quella donna e il mare. E lo fanno forte, quasi a farsi male. E si immerge dentro, quella donna, in una distesa smisurata di acqua e tempeste, in quell’amante fragile e deciso, come un arcobaleno costante. E fanno l’amore. L’amore insicuro, delle sei del mattino, dell’acqua immobile, che quasi hai paura a metterci dentro le mani, che ci passi sopra le dita. L’amore, quello vero, quello senza ritorno, con le mani fra i capelli a guidare la testa verso una forma di paradiso. Quello che lascia i segni sulla pelle, che il giorno dopo li guardi nello specchio e ti mordi le labbra. L’amore forte, che ti graffia la schiena e l’esistenza, che ti allarga gli sguardi e i sospiri. L’amore sconosciuto del mare impetuoso, che non ti dà tregua, che ti strappa i vestiti e le voglie. Il mare indecente che fa sentire i denti sul collo e lecca le pieghe dell’anima. L’amore disperato del mare, che ti devasta i fianchi con spinte rabbiose, tenendoti in bilico fra la voglia di urlare e la fame di ossigeno. L’amore clandestino, con le spalle contro il muro e le gambe intorno alla vita. A tutta la sua vita. E lo senti arrivare quell’uragano implacabile di spasmi e lamenti e un po’ ti spaventi, ma punti i piedi, apri le braccia e lasci crollare i muscoli in quel confine preciso in cui l’onda esprime il suo vigore assoluto e poi va a morire.

In giornate come queste quella donna esce di casa, con addosso un vestito improbabile e va a fare l’amore forte. Quello che ti stravolge i sensi. L’amore di chi non sa più come fare.

Io sono Eleonora e quella donna è mia madre, o almeno lo è stata fino al giorno in cui non ha più fatto ritorno. Si è arresa a quel mare, disciolta in tutto quel mondo insidioso fatto di onde e correnti. Solo onde e correnti. A perdita d’occhio. E’ stata inghiottita da quel richiamo ammaliante.

Pioveva quella mattina, di una pioggia strana, verticale e pesante, non era un temporale arrogante, ma caduta precisa di acqua, come un velo a tinta unita, come una preoccupazione costante. Una di quelle sensazioni che hanno l’aria di non finire più. Il mare sembrava un dipinto neorealista, con la sua pelle crivellata da pallottole infinite. Era uno sguardo capace di scatenare pensieri inattesi. La strana visione di acqua nell’acqua.

Lei disse soltanto “questo cancro che mi mangia l’anima non mi avrà mai. Vivi senza fretta bambina mia e quando non sai più come fare vieni qui e guarda il mare. Mi troverai là”.

E lo faccio, ogni volta che mi scappa l’anima, lo faccio. Mi siedo su questa spiaggia e guardo quel confine preciso, in cui l’onda esprime il suo vigore assoluto e poi va a morire. E lo sento quel mare addosso, quel suo modo di abbracciarmi la vita. Quel suo modo di fare l’amore. L’amore forte.

 

Caterina come l’acqua.

Caterina è chiusa a chiave, ma il suo spirito viene da lontano, come l’acqua delle fontane, che ne ha fatti di chilometri prima di finire in quella vasca, ne ha viste di cose prima di lasciarsi cadere e confondersi con il resto del mondo, fino quasi a scomparire. E se la trascina dietro, tutta quella vita, piena di amori e cicatrici, che quando la porti alla bocca riesci a sentirlo il sapore di terra e passione. Che Caterina è come l’acqua, puoi decidere di berla o di baciarla. In entrambi i casi ti salverà la vita.

Caterina vive in una casa fatta di legno e vento forte, sulla spiaggia di un mare sconosciuto, che alle sei del pomeriggio si mette a contemplare. L’ora perfetta, quella ai bordi di un giorno che sta per terminare, l’ora in cui tutto è quasi compiuto e rimane poco tempo per poter rimediare a un qualsiasi tipo di disastro. E’ l’ora magnifica in cui si siede sulla sabbia e punta lo sguardo dritto verso l’infinito, a mescolarsi con l’andirivieni della marea, si osservano, Caterina e il mare, come duellanti in un’arena, sospirano forte, Caterina e il mare, come due amanti alla fine di un amplesso, con l’odore dell’istinto che ti rimane addosso. Alla fine lei si alza e ci cammina dentro. E le sente davvero, tutte le storie che quelle onde si portano dietro, le sente davvero, mentre si frantumano ai suoi piedi, come doni offerti da quell’immensa distesa d’acqua. Ci cammina dentro, come fosse un richiamo, perché avverte le vene che si sciolgono.

Unisce le mani e lo raccoglie. Il mare infinito. Lei ne strappa un brandello e lo tiene fra le mani, come se fosse un cuore pulsante. Come fosse il viso di un figlio. Come se fosse tutto l’amore che c’è, dolce e scandaloso, che ti fa sentire sicura e disperata, irraggiungibile e indispensabile, eterea e puttana, che sa calmarti ed incendiarti. Lo tiene fra le mani. Il mare smisurato. Lo alza verso il cielo, come a farlo benedire dall’ultimo sole. Lo riscalda, lo brama e, lo giuro, lo trascina alla bocca. E lo bacia. Lo giuro. Quel mare pieno di tramonti.

E si perdono, uno sulle labbra dell’altra, con tutta la passione che c’è, quella vera, quella di un bacio. L’atto più intimo, quello che scatena le passioni, le voglie represse. Che quando baci qualcuno, quando lo baci davvero intendo, non te ne liberi più. Da quel tipo di bacio non si torna più indietro. Quando baci qualcuno hai un sussulto di vita. Quando baci il mare hai una cascata nell’anima.

E alla fine si guardano, il mare e Caterina. E lo fanno forte, quasi a farsi male. Che viene da chiedersi se anche lui si ferma a guardare negli occhi di certe persone e magari ci si perde dentro, anche lui, e ci vede i suoi sogni. E sospira. Anche lui.

Caterina vive in una cella di pochi metri quadrati, lo fa da talmente tanto che ormai non ricorda il motivo. Il tempo le ha strappato via i ricordi, le facce delle persone che ha conosciuto fuori da lì, i loro turbamenti. Non c’è più traccia di tutti quei profumi, delle gioie e dello schifo che la vita ti regala. Ha imparato a bastarsi da sola, a fare a meno del mondo. E il mondo di lei.

Ma c’è una cosa, una sola, che quelle sbarre e quel soffitto umido non potranno mai arginare. Il mare che si porta dentro.

E ogni giorno, alle sei del pomeriggio, lei guarda verso il muro, unisce le mani, le alza verso il cielo, come a farle benedire dall’ultimo sole. E lo bacia. Lo giuro. Lo bacia. Lo sconfinato mare.

Perché Caterina se la merita tutta quella vita, quell’abbraccio di madre infinito. E’ la sua ricompensa. Caterina se lo merita un mare così. E addirittura, forse, lui merita lei.

Caterina vive in una casa fatta di legno e vento forte, sulla spiaggia di un mare sconosciuto, lei è come l’acqua, puoi decidere di berla o di baciarla. In entrambi i casi ti salverà la vita.

(Caterina vola con il pensiero, poi si ferma. E quella diventa la sua casa. – La mia casa. Daniele Silvestri.)

Rossana alla ricerca del bassista.

Che cos’è quest’aria lenta di polvere e tramonti, pesante, come le mie insicurezze, tremenda e rassicurante. E’ l’aria di quando tremi e non sai perché e quasi ti rassegni in attesa di una sventura. E non sai quale.

Che cos’è questa penombra di intonaco e salmastro, in cui gli occhi cercano l’uscita, come fosse l’unica via di scampo, l’unico sentiero conosciuto per tornare a quel mondo in cui il pronostico di un sorriso sembra quasi impossibile. Il mondo in cui quelli come me respirano in affanno. I passi si fanno pesanti e sempre, ogni maledetta volta, sempre, si fermano. Quelli come me li noti a fatica. Noi siamo quelli che dimentichi con facilità. Noi siamo i rimasti.

Che cos’è questa umidità che bagna le labbra, come se l’anima trasudasse impazienza, Quelli come me faticano persino a trovarla un’anima, come fosse un’immagine sbiadita che ogni giorno perde una sfumatura in più. Quelli come me si lasciano vivere, non danno mai il primo colpo di batteria, quelli come me suonano il basso, che in questo oceano di suoni neanche si sente. Devi sforzarti per percepirne le note, devi farlo, devi volerlo davvero. Devi venirteli a prendere certi accordi. Quelli come me devi venirli a cercare. Fermarti, voltarti un attimo indietro, verso il punto di partenza. E venirli a cercare.

Che cos’è questa mano fra i capelli, come un pavimento ruvido che ti attiva i sensi. Quasi un ostacolo al normale svolgimento delle mie inquietudini. Quel contatto inatteso che mi costringe a prendere coscienza della nuova sfida da affrontare. Quelli come me non ne vogliono sapere di scendere in battaglia. Hanno l’armatura, la spada e tutto il resto, ma non ci pensano neanche a buttarsi nella mischia. Il mio nome è Cyrano ma non sfidatemi a duello. Quelli come me alzano le mani e attendono il colpo in mezzo al petto.

Cosa sono queste dita che mi percorrono il profilo, questo respiro che si avvicina. Fermati ti prego, cos’è questa bocca che mi scende ai lati della faccia, come lava nelle vene. Fermati ti supplico, che così mi mandi in mille pezzi. Lasciami nella mia galera, che se mi baci davvero poi mi costringi a vivere. Quelli come me non sono ancora pronti, lasciami il tempo per convincermi a fare un passo. In fondo non me ne serve neanche molto, giusto la durata di una vita,
Fermati, per l’amor del cielo, togli quella lingua che mi trapassa il respiro, che se scendi ancora un po’, giusto  un paio di secondi eterni, arrivi al cuore. E lì non avrò più scampo.
Fermati che ho impiegato un’esistenza intera per rubare le emozioni che mi regalavano gli occhi dei passanti, le ho rubate tutte. Per un’esistenza intera. Le ho rubate per foderarci il mio cuore di cenere.
Fermati Rossana, che quelli come me non vogliono essere trovati, Lasciami in pace, vattene adesso, che qui ho tutto ciò che mi serve. Ho il mio basso appoggiato a queste pareti di carta vetrata, ho le mie immagini sbiadite, ormai senza altre sfumature, che se le guardo mi perdo ancora un po’ di più. Ho l’armatura e la mia spada con cui mi tormento i polsi, senza avere mai il coraggio di affondare il colpo.
Vattene finché sei in tempo, interrompi questa danza assurda di bocche che si respirano dentro, interrompi questo bacio di sabbia, che già inizio a sentire l’ossigeno nei polmoni. Che poi va finire che apro gli occhi, va a finire che li apro davvero. E se ti vedo, va a finire che muoio. Davvero.

Scappa, vattene lontano, inizio già a sentire il veleno scomparire, la schiena quasi dritta contro il cielo e questa camera di pietra lascia traspirare luce. Vai via, ti prego salvati, almeno tu.

Che cos’è quest’aria lenta di polvere e tramonti, pesante, come le mie insicurezze, tremenda e rassicurante. E’ l’aria di quando tremi e non sai perché e quasi ti rassegni in attesa di una sventura. E non sai quale.
Ma i percorsi possono cambiare e certe attese non concludersi in sventure, perché quelli come noi hanno ancora una speranza, perché se togli il bassista dalla band c’è ancora qualcuno che lo nota. Perché da qualche parte c’è ancora Rossana che non smette di cercarci. Noi che siamo solo dei Cyrano a braccia aperte in attesa del colpo in mezzo al petto. Noi che siamo sparsi a caso per il mondo. Gli immobili. I rimasti.

In giro, sparse in aria le note di Attenta – Negramaro.

Dedicato al cuore grande di ogni Rossana. Compresa la mia.

Credo in un bacio all’atmosfera.

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Credo a quelli che parlano guardandomi negli occhi, a quelli che mi ascoltano tenendo lo sguardo fisso nel mio. Perché non hanno niente da nascondere. E se rimaniamo in silenzio, allora credo negli occhi.

Credo alle mani che si sfiorano, si stringono, si intrecciano, a quei gesti che descrivono un’emozione. E se le strette di mano sono sincere, allora credo nelle strette di mano.

Non credo a chi proclama verità assolute e indiscutibili, a chi gioca con i “per sempre”. Non credo a chi non ha mai un dubbio. E se le incertezze creano scompiglio, allora credo alle incertezze.

Credo a Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Gabriele Sandri, Giuseppe Uva, Michele Ferrulli, Stefano Brunetti, Riccardo Rasman e a tutti quelli che non hanno potuto dare la loro versione. Perché forse non avevano ragione, forse avevano commesso degli errori, forse avrebbero dovuto pagare il loro debito. Forse. Sicuramente non doveva finire così. Sicuramente.

Credo a quelli che riescono a perdonare, ma non sono disposti a cedere. A quelli che capiscono ma si rifiutano di fare la parte del martire. Credo alle donne che dopo il primo schiaffo non porgono l’altra guancia. Ma credo anche a quelle che non hanno la forza di dire “basta”, che proprio non ce la fanno a scalare certi muri. E se certe paure ti strappano l’anima, allora credo in certe paure.

Non credo agli sconti di pena, alla vita facile, a chi predica l’umiltà mentre mangia caviale. Non credo alle discese, all’assenza di ostacoli, a chi non suda mai e a chi non ha mai porte da dover aprire. E se certe delusioni ti fanno crescere davvero, allora credo in certe delusioni.

Credo in Marco e Andrea che si baciano sulla panchina all’ombra del salice piangente, credo in Anna ed Eleonora che si tengono per mano nelle vie del centro e guardano le vetrine in cerca di un piumone per il loro letto. E se certi amori non hanno bisogno di clamore e ostentazione, allora credo in certi amori.

Credo a chi si sente a disagio, dopo aver visto qualcuno andare alla deriva, a chi non riesce a perdonarsi del tutto, a chi si rigira nel letto, con un unico, grande, incolmabile rimorso: non averlo difeso abbastanza. E se la forza nasce dal perdono, allora credo nel perdono.

Credo a certi “no”, quelli che non ammettono equivoci, che non si possono fraintendere. I “no” detti con la camicetta sbottonata e le mani a tenersi su le calze, ecco, quei “no” lì non hanno altri significati e non ci sono scuse, nessuna scusa che possa ignorare quel rifiuto. Non credo a chi se ne frega di quel rifiuto e continua a far salire la mano sotto la gonna. E se certe parole hanno un unico significato, allora credo nel significato delle parole. E di chi le pronuncia.

Credo a certe strofe, non credo sempre in chi le canta. Ma se la musica ha la forza di farmi emozionare ancora, allora credo nella forza della musica. Sempre. E comunque.

Credo in chi non ce la fa, in chi arranca, in chi si è fermato e non ha la forza di chiedere aiuto, ma lo implora con certi sospiri, certi sguardi e certe lacrime mascherate dai sorrisi. Quelli che vorrebbero solo stare in questo mondo, come fossero satelliti che cercano di arrivare al suolo, ma scendono dallo spazio con traiettorie azzardate e finiscono per dare un bacio all’atmosfera. E se le parole non dette fanno un rumore assordante, allora credo nelle parole non dette. E a chi non le dice.

Credo in un dio, uno di quelli di cui non parla nessuno, di quelli che vengono al pub con me e si fanno pagare da bere. Uno di quelli che non ha la fila di gente che si fa viva quando se lo ricorda, solo quando hanno bisogno di qualcosa, pronti a scambiare una manciata di desideri esauditi con promesse solenni di pentimento e devozione. Come se quel dio se ne facesse poi qualcosa di quel baratto. E se c’è un qualche dio che se ne frega delle preghiere e degli atti di fede, allora io credo in quel dio.

Non credo agli eroi, a chi fa la scaletta dei valori, a chi mi dice cosa fare o non fare, a chi mi chiede “come stai?” e non sta a sentire la risposta. Credo a chi non ha risposte, ma continua a farsi domande. E se le risposte non date mi fanno cercare percorsi alternativi, allora credo alle risposte non date.

Credo nelle mie debolezze, nelle mie tendenze che faccio una fatica infernale a debellare, ma ci devo provare. Non credo nei giorni in cui faccio promesse solenni, quelle che mantengo meno di una settimana per poi tornare stronzo come prima. Ma se anche uno solo dei miei giorni sbagliati servisse a crearne uno migliore, allora credo nei miei giorni sbagliati.

Credo in tutti quelli che stanno cercando qualcosa e lo cercanno da così tanto tempo che non sanno più neanche cosa sia. Sanno soltanto che vogliono continuare a cercarlo. E se le cose che non riesco a trovare sono quelle che mi fanno andare avanti, allora credo nelle cose che non riesco a trovare.

Credo in quelli che si baciano, mettendosi le mani fra i capelli e chiudono gli occhi e quando si allontanano hanno i pensieri profumati. Credo a quelli che mentre camminano sorridono senza un motivo apparente. Ma, loro, un motivo, ce l’hanno davvero. E se certi pensieri mi fanno arrossire, allora credo in certi pensieri. E al loro profumo.

Credo a quelli che si siedono sui muri a contemplare la facciata di un palazzo e sospirano e si accendono una sigaretta e se ti avvicini e chiedi cosa stiano guardando rispondono: il mare. E se certi orizzonti ti rendono libero, allora credo in certi orizzonti.

Credo che la risposta sia “Vita”. La domanda ha poca importanza.

“Non aver paura della vita. Credi invece che la vita sia davvero degna d’essere vissuta, e il tuo crederci aiuterà a rendere ciò una verità.” (William James).

Perché, nonostante tutto, continuo a credere in qualcosa (I believe – Christina Perri).

Il bacio della vita

  

La stanza è avvolta in un buio che notte non è, al centro un fascio di luce, come fosse una cascata, scavata fra due pareti nere come la paura dell’ignoto.

Claudio continua a girare intorno a quella pianura artificiale, mentre la nebbia che nebbia non è si sta addensando sempre di più, prendendolo alla gola, come quando stai per saltare giù, come quando non sai come andrà a finire ma nonostante tutto continui ad avanzare, come quando chiudi gli occhi ed aspetti e sono momenti interminabili e rimani immobile, senza dubitare e alla fine arriva e ti scava nella bocca. E’ il bacio della vita.

Gira intorno studiando la prossima mossa, prendendo i punti di riferimento per eseguire le traiettorie sicure, che su questo altopiano è tutto perfetto, non ci sono sorprese o inciampi o insidie celate nel terreno. Puoi piantare certezze e traguardi raggiungibili, in quest’aria verde di polvere tagliente hai il tuo destino fra le mani, non avrai nessuno disposto a prendersi le colpe dei tuoi insuccessi e potrai goderti il pieno merito delle vittorie. Perché questa è una dimensione strappata alle dinamiche della vita, regolata da geometrie precise e assolute.

Claudio ha lo sguardo fisso sul campo di battaglia, è sempre così, ogni volta che sta per sferrare il colpo decisivo, si abbassa e trattiene il fiato, potrebbe stare senza respirare per un tempo indefinito, finché resta giù l’aria non serve, come se fosse un fermo immagine mentre tutto intorno ci sono persone affannate ad inseguire secondi irraggiungibili.
E’ sempre così l’attimo che precede l’inizio della lotta, Claudio lo vive come fosse un formula matematica, un copione da ripetere, una serie di gesti abituali che portano nella loro ritualità tutta la sicurezza del mondo.
Passa la mano sull’erba che erba non è, sente sotto le dita la terra perfettamente liscia, come la pelle di una donna tra l’orecchio e la spalla, ne sente l’odore, il calore di quella luce bruciare nelle vene delle mani. In piedi, con il petto quasi appoggiato al terreno di quel finto prato, in cui finché non ti muovi non corri nessun pericolo, come quando cerchi di non farti notare, aspettando l’attimo ideale per uscire allo scoperto e fare il bomba libera tutti.

Claudio tira indietro la spada, come a caricare il colpo, come se in quel colpo ci fossero racchiuse tutte le sue speranze, il riscatto da una vita spoglia, il perdono di tutti i suoi sbagli.
E’ una questione di millimetri, è sempre una questione di millimetri. Il proiettile che si ferma ad un respiro dal cuore, la distanza dei baci non dati, il confine tra realtà e illusione. Tutta roba di pochi millimetri. La spada di Claudio deve colpire il bersaglio, proprio nel centro, esattamente e irrimediabilmente, nel centro.

Il colpo è stato sferrato, adesso Claudio può restare giù e chiudere gli occhi e finalmente sognare. Immaginare gli effetti della sua azione, i danni procurati e quelli evitati, restare giù, come fosse una cosa normale, come quando ascolti una canzone e ti viene da piangere, una cosa normale, come quando stai bene e ti trattieni ancora un po’, cercando di rimandare di qualche secondo il minuto successivo, solo qualche secondo, che profuma di eterno.

Il punto dove colpire, l’effetto da trasmettere alla spada, le linee fantasiose e intolleranti sulle quali far rotolare una palla di cannone carica di speranza. Tutto deve essere preciso, perfetto e assolutamente calcolato.

Dentro un buio che notte non è, su di un prato che prato non è, sotto una luce che luna non è, avvolto in una nebbia che nebbia non è, in una stanza di vita che reale non è, Claudio apre gli occhi e vede una palla bianca disegnare origami all’interno di un tavolo da biliardo, rimbalzare tra le sponde e fermarsi esattamente nel punto sperato.
La lampada che scende dal soffitto fermandosi ad un metro dal tavolo verde, illumina perfettamente il perimetro del biliardo, fino ai bordi e non oltre, come fossero frontiere invalicabili, per escludere allo sguardo dei giocatori tutto il superfluo che li circonda, che tanto non serve vedere oltre, che al di là della luce ci sono solo cose secondarie, trascurabili. Al di là della luce non esistono traiettorie perfette. Al di là della luce c’è soltanto il mondo di sempre.

Prende tra le dita la sigaretta e dà il suo contributo al velo pesante di fumo che avvolge la sala, riprende contatto con la realtà, quella imperfetta, quella degli inciampi improvvisi, delle assolute incertezze.

Percepisce di nuovo la sua esistenza prenderlo sottobraccio e camminargli a fianco, tornano i timori e le angosce. Riprende a vivere aspettando il momento ideale per tornare a morire un po’.
Quel momento in cui sentire ancora il bacio della vita.

“La distanza è immensa, punge finché è densa, solo un bacio è capace di riportar la pace” (Bramante).

La musica di Matilde.

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Erano le 23:30 e il regionale 11740 arrivava distratto al binario 6, distratto e leggero, con rumori e fischi conosciuti, talmente conosciuti che passavano inosservati. Silenziosi direi.
Matilde guardò fuori dal finestrino del vagone, il cartello appeso al soffitto diceva “Firenze S.M.N.”. Se ne stava lì, immobile, il cartello, come un’altalena sopra i visi della gente, con quel nome freddo e tassativo, avvisandola che era giunto il momento di scendere. Dal vagone, dal libro che teneva fra le mani e dalla sua vita. Anche se ancora non lo sapeva.

Le stazioni, alla fine, sono tutte uguali, un po’ deserte, un po’ distanti dal mondo, le persone parlano sottovoce come se fossero in chiesa, o almeno, così le immaginava Matilde. Tutte quelle persone che camminano sicure, come se stessero attraversando un incrocio con il verde al semaforo, si sfiorano senza toccarsi, si vedono senza guardarsi. Ma in tutte le stazioni, qualunque sia la stagione, in tutte, sempre, soffia uno strano vento freddo.

Matilde controlla le lettere che corrono veloci sul tabellone degli orari, il treno per Bologna è stato cancellato, soppresso, svanito nel nulla. Il prossimo parte alle 4:35.
Vorrebbe chiedere informazioni, ma non può e comunque, non servirebbe. Tira fuori un blocchetto dalla borsa e una penna dalla tasca dei jeans, sta per scrivere qualcosa, poi ci ripensa, alza gli occhi al cielo e decide di uscire da quella dimensione  di finta realtà, tiene la penna fra le dita, è il suo ago per far scoppiare la sua bolla e riprendere contatto con la vita.

Matilde cammina verso l’uscita leggendo i messaggi dei cartelli appesi al muro, Andrea verso l’entrata leggendo i messaggi di un addio appeso al telefono. Si scontrano. Un impatto frontale, uno scontro devastante e senza sangue, l’incidente di un risveglio. Non c’era nessun incrocio, nessun semaforo da rispettare, nessuna direzione precisa da inseguire, forse è per questo che si sono sfiorati e toccati, visti e guardati.

“Perdonami ero distratto, ti sei fatta male?” Matilde sorride e dice no con la testa,
“Per farmi perdonare posso offrirti da bere?” lei sorride, non risponde ma sorride. Ancora,
“Ma non sei italiana? Capisci la mia lingua?” lei annuisce e Andrea prende il “Sì” come risposta, lo prende per entrambe le domande.
“Ok, facciamo così, parlo solo io, tu ascolti e basta, ci stai?”. Lei sorride e quello è il “Sì” più bello che potesse pronunciare.

Camminano vicini, lui parla dei suoi progetti, di un amore finito all’improvviso, dell’estate che sta per arrivare, che dicono sarà una delle più calde del secolo.
Parla di un viaggio a Copenaghen, della gente di lassù che sorride con un suono di monete cadute in un piatto di vetro, parla della musica, di come l’ha amato e tradito e poi amato ancora e poi tradito. Ancora. Tira fuori l’ipod dalla tasca della giacca, dicendo “ascolta e se ti piace, fammelo capire. Se ti piace sorridi.”. Lei non sorride, ma si mette a ballare, su un tempo tutto suo, fregandosene della cassa e del rullante della batteria, balla anche se la musica è finita da un pezzo, balla perché ha bisogno di farlo, perché è il suo modo di andare oltre le parole della gente, oltre i pensieri, oltre i pregiudizi. Ad occhi chiusi balla, come se il tempo si fosse dilatato,balla perché questa notte sta per finire e chissà quando ce ne sarà un’altra così, balla tenendo le mani di Andrea che non dice niente. E sorride.

Sono le 4:30 del mattino, il treno per Bologna sta arrivando, Matilde lascia la mano di Andrea, tira fuori un blocchetto dalla borsa e una penna dalla tasca dei jeans, la usa come un ago per far esplodere la bolla che la tiene prigioniera, scrive qualcosa, si avvicina ad Andrea, gli mette la mano destra sul petto, all’altezza del cuore, con la sinistra  gli lascia un foglio fra le dita, lo guarda negli occhi, lo bacia sulle labbra. Sorride.

4.40, il treno è stato inghiottito dalle luci del mattino, Andrea legge le parole disegnate sopra il foglio “Mi chiamo Matilde, almeno credo, non sono straniera, almeno credo, non ho mai udito nessun suono in tutta la mia vita, ma se l’amore è una musica, allora stanotte ti ho amato”.

Perché a certe notti, come a certi amori, non servono parole da pronunciare, cadono così, come cade l’umidità sopra i panni stesi al tramonto. Perché certe emozioni non hanno bisogno di essere tradotte, non vanno spiegate, sarebbe riduttivo, devono essere così: perfette e indefinite. Perché capirsi senza parole è come baciarsi al buio dei portoni, è prendersi le mani incrociando le dita in un un’unica esistenza, è avere qualcuno che arriva alle spalle mettendoti le braccia intorno alla vita. Intorno a tutta la tua vita.

Sono le 7 del mattino, Firenze si è svegliata, Andrea cammina distratto per le vie del centro, ha gli auricolari nelle orecchie, un foglietto nel taschino della giacca, sfiora le persone che camminano veloci, le sfiora senza toccarle, le guarda senza vederle.

E sorride..

“E ricordati, io ci sarò. Ci sarò su nell’aria. Allora ogni tanto, se mi vuoi parlare, mettiti da una parte, chiudi gli occhi e cercami. Ci si parla. Ma non nel linguaggio delle parole. Nel silenzio” (Tiziano Terzani).

Matilde stanotte ha ballato su questa canzone (Tonight, Tonight – The Smashing Pumpkins)

Giulia degli abissi.

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Eccola Giulia che viveva in fondo al mare, venuta a galla per riuscire a prender fiato, che aspetta senza fretta che arrivi la sua maledizione.

Giulia ha avuto notti senza sogni, ha aspettato carezze mai arrivate, elemosinando briciole di sguardi, ha avuto amori devastanti, di silenzi smisurati, che laggiù in fondo al mare se apri bocca puoi soffocare. Giulia si è fatta crescere le spine intorno al cuore, che alla fine è l’unico modo per difendere la sua illusione di essere felice. Giulia che vedeva in quelle profondità la sua vita che svaniva su marciapiedi addormentati.

Giulia che sogna amori travolgenti, quelli fatti di treni che non partono, quelli da baciarsi sui ponti la sera, da lasciare in giro emozioni sparse qua e là. Amori di “camminami nel cuore”, di “tienimi vicino quando ti voglio allontanare”, di lenzuola sopra il viso, carezze date a voce, sogna montagne da scalare tenendosi per mano, che una vita di pianure non ti fa sentire viva, sogna passioni sviscerate come panni stesi al sole e pianti senza fine da sfogare negli abbracci. Sogna vite in parallelo che si guardano nell’anima.

Ma rimane nel suo mondo, che la terraferma fa paura, meglio deserti in movimento, che nelle tue profondità ci sono solo insidie conosciute. Meglio muoversi in disparte, con bracciate più rabbiose. Meglio vivere sott’acqua che se piangi non si vede.

Giulia che nuota fino a riva e che prova a camminare, Giulia sorride fra la gente e cerca un sogno preso a rate, lei parla poco e in silenzio si ripete “non scordarti mai il dolore che hai provato”. Ma il tempo scorre piano e cancella le ferite e non ci sono più le spine intorno al cuore, prova a mettere da parte la sua esistenza negli abissi, si è strappata vie le squame per non farsi intercettare, apre bocca e non affoga e soffia fuori le parole, prova a fidarsi della gente, forse non farà poi così male, i suoi venti di bufere hanno cambiato direzione.

Giulia che si imbatte in due occhi di rincorse a perdifiato, che si lascia abbandonare da sussulti di risate, quella voce cura il male di una vita di paure, quelle braccia sono rami su cui potersi addormentare. Le parole sono quelle, i sospiri di rugiada, era quello che sognava al di là dei suoi pensieri. Era quello che voleva, le sue preghiere esaudite, il dio del mare questa volta si era mosso a compassione.

Giulia vive ed è felice ha ripreso anche a nuotare, lui le dice “andiamo sotto che ci sono meraviglie”, lei si convince che sia giusto che stavolta non farà male, guarda il cielo e prende fiato e si immerge fra le onde, sicura di aver trovato il suo paradiso da baciare.
Eccola la sua maledizione!

Adesso Giulia è alla deriva, lei si è persa nei fondali, sta vagando alla ricerca di uno strapiombo in cui sparire, i suoi sorrisi frantumati e la sua anima essiccata.
Son passate le stagioni, ma sulla spiaggia è tutto uguale, i mercati e le balere, ma nelle sere tempestose qualcuno parla ancora di Giulia, che viveva in fondo al mare.

“Devo essere una sirena. Non ho paura della profondità e ho una gran paura della vita superficiale. “(Anaïs Nin)

Per tutte le sirene che si ostinano a sognare. (Sirens – Pearl Jam)