Il viaggio di un sommerso.

Ti guarderò partire, con quell’aria di chi non si è mai voluto fermare e la giacca di velluto di tuo fratello prima che la guerra se lo prendesse per sempre.

Ti guarderò partire con il berretto in mano e quello sguardo come a dire “forse il mio posto è dall’altra parte dell’oceano. Forse il mio destino un giorno riuscirà a trovarmi e questa smania di capire chi sono mi lascerà in pace”.

Ti guarderò partire appoggiata al parapetto di questo pontile, con una mano a tenere lo scialle intorno al collo e l’altra alzata per salutare. A pensarci bene l’ho sempre saputo che te ne saresti andato. Quelli come te hanno un piede sulla terra e l’altro in mezzo al mare. E allora ti guarderò partire senza poterci fare niente. Abbi cura di te e delle tue scarpe nuove. Ormai la gente prenderebbe qualsiasi cosa pur di non pagare.

Mamma ormai questa gente mi prende già la dignità ogni volta che la nave sta per salpare. Mi mettono davanti a una montagna di carbone da spalare. La bocca della caldaia che vomita scintille e bestemmie a mille gradi. È come se il diavolo in persona si venisse a scomodare per portarmi al centro dell’inferno. Poi i pistoni inizieranno la loro danza. L’elica si muove, la nave si staccherà dal porto e sarà come sentire la tua mano quando mi accarezzi il viso e mi dici che ho l’Atlantico negli occhi.

Dicono che questo oceano visto dalla nave faccia perdere il senso della misura, come un amante esagerato che non riesce a limitare la potenza di un abbraccio.

Io non lo so che faccia abbiano tutte queste onde, non te l’ho mai detto, ma il mio viaggio è sempre stato cinque metri sott’acqua. Loro vedono il sorriso di questo mare smisurato, a me da quaggiù non resta che guardare il cuore cattivo dell’Atlantico.

Ti guarderò partire e mentre l’elica si muove ti immagino in quel posto che tutti chiamano America. Se chiudo gli occhi ti vedo fra dieci anni, con una moglie che sorride mentre tiene in braccio il tuo bambino biondo. Avrai imparato una lingua sconosciuta e mischiato la tua faccia in mezzo a tutta quella gente strana, che ti chiamerà per nome. Diventerai uno di loro, è giusto così, spero solo che non ti vada mai via tutto quel mare dagli occhi.

Ogni tanto mi sembra di sentire le voci di tutta quella gente che sta sopra di me, nella parte umana di questo transatlantico. Immagino i loro volti luminosi i loro sogni spensierati. Si godono il viaggio in attesa di un’esistenza migliore in una terra nuova. Probabilmente non sanno neanche che esistiamo, noi siamo i sommersi e tutto ciò che sta sotto al livello del mare è qualcosa che spaventa.

Mamma quando scenderò da questa nave i miei sguardi saranno asciutti e forse non riuscirò mai a guardare l’America negli occhi. Avrò tutto quel futuro fra le mani e questo è un pensiero che fa più paura dell’oceano.

Non lo so mamma, non lo so come sarà la mia esistenza, forse un giorno tornerò, magari salirò di nuovo su questa nave, starò sulla prua e ti saluterò con la mia giacca nuova.

Ma il tempo dei pensieri è finito, ora è il momento di dar da mangiare alle viscere di questo inferno.

Non preoccuparti mamma, starò bene e sarò al sicuro, proprio come ora mentre sto su questa nave che dicono non possa mai affondare. Lo dicono spesso e ne vanno fieri. Ogni tanto qualcuno scende fin quaggiù per farcelo sapere.

“Andrà tutto bene” ci dicono, “questo è il primo viaggio di una nave che non può affondare”.

Dovresti sentirli, mamma, come lo dicono bene.

È un pensiero che mi rassicura e rende sopportabile il tempo passato cinque metri sott’acqua, coperto dal nero di questo carbone, a guardare il cuore cattivo dell’Atlantico.

(Palesemente ispirato da “L’abbigliamento di un fuochista” – De Gregori).

Quando Giulietta guarda il mare.

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A volte, senza preavviso, accadono cose che non si spiegano. Domande lasciate in sospeso, a cui non riesci a dare risposta e allora passano i giorni, gli anni, e te ne dimentichi. Quando pensi di essere al sicuro, al riparo da tutte quelle domande che portano cucite addosso risposte spaventose, ecco, esattamente in quel momento lì, arrivano. Le risposte.

Mercuzio, non ci crederai, ma quel giorno io era là senza uno scopo preciso, te lo giuro amico mio, non avevo nessuno scopo preciso. Ero là e basta, perché là c’era il mare. E basta.

La vidi in controluce, con quell’assurdo sole malato di fine pomeriggio messo lì ad allungare le ombre e gli sguardi. Era seduta sulla panchina rivolta verso occidente, quella con le assi di legno verde su cui qualcuno un giorno ha scritto “vado camminando intorno a tutti voi, non c’è pace in questo vostro mondo. Non c’è stata mai”.
Se ne stava lì, con il suo zaino sulla spalla destra e un segreto di cartone stretto al petto, come il ricordo di qualcosa o di qualcuno che non intendi lasciar andare. E lo stringi forte, come lui stringe il tuo respiro, che se allenti la presa rischi di farlo scivolare via. Mercuzio, avresti dovuto vederla, era di una bellezza, una di quelle bellezze da guardare senza avvicinarsi troppo, che potrebbero sgualcirsi, che se le tocchi potrebbero svanire. Dio com’era, – Ciao, che ci fai qui? – ma lo dissi piano, cercando di spostare meno aria possibile. Le dissi proprio così, lo so, non è originale come approccio, ma ha funzionato. – Guardo il mare – mi disse proprio così “guardo il mare” e tu lo sai amico mio com’è Giulietta quando guarda il mare. Non ti dà scampo, non puoi pensare neanche per un momento di salvarti, quando lei sta lì davanti a te. E guarda il mare. E’ una di quelle immagini che non ti lasciano in pace. La gente che la vede mentre lei guarda il mare non resiste alla tentazione di passarle un dito sul volto per scostarle i capelli dagli occhi. E io stavo lì con una voglia fortissima che mordeva l’anima, di passarle un dito sul volto e scostarle i capelli dagli occhi.
– Sei appena arrivata?
– No, parto domani – mi disse – devo portare una cosa dall’altra parte –
– Torni?…
– Non scherzare, nessuno di quelli che vanno dall’altra parte torna.
Mi disse così, “dall’altra parte”, come se fosse un luogo indefinito. E come lo ritrovi qualcuno che va dall’altra parte. Mica è come qui, che fra queste vie, in questo sputo di mondo, ci conosciamo tutti. Che qui se qualcuno si perde per strada lo vai a riprendere. Qui nessuno è mai solo veramente. Ma dall’altra parte, Cristo santo, devi cavartela da solo. Capisci amico mio?, non ci sarebbe stato modo di andarla a riprendere.
C’era una sola cosa da fare, quella che tieni custodita sottochiave in un cassetto, come una Colt con i proiettili d’oro. Era giunto il momento di usarla. Era il momento di prendere la mira e – Vuoi sentirla una storia? – Sparare!
– Ok, ma che non sia troppo lunga, che sono stanca e domattina mi alzo presto. Devo andare dall’altra parte –
Iniziai a parlare del mare, proprio così, delle sue profondità, delle vite della gente di quaggiù. Misi insieme tutte quei racconti assurdi, quelli che mi raccontavi tu quando fuori pioveva. Li misi tutti insieme, tagliando, cucendo e inventando e ne feci una storia unica. Più lunga che potevo. Che certi momenti non capitano mica tutti i giorni, nella maggior parte delle vite che conosco non sono capitati proprio mai.
Alla fine, senza togliere neanche per un secondo lo sguardo dal mare e senza allentare la presa da quel segreto di cartone sul petto, mi chiese – Ne conosci un’altra? Una che sia lunga quasi una vita, intendo –
E da allora ci siamo amati, proprio così Mercuzio, ci siamo amati. Che certi amori non capitano mica tutti i giorni. Nella maggior parte delle vite che conosco non sono capitati proprio mai.

Furono anni vissuti d’un fiato, con la consapevolezza che non sarebbero serviti ad impedirle di andare un giorno dall’altra parte a portare quel maledetto segreto di cartone chissà dove e a chissà chi.

Io e te lo sappiamo che quelli come noi non possono cambiare per sempre il destino delle persone. L’unica cosa che ci rimane è tentare di cambiarne il percorso per un ristretto lasso tempo. Come se la vita di chi abbiamo vicino si concedesse una pausa. Ma quelle pause lì hanno sempre una fine, la curva si esaurisce e quelle vite riprendono il loro normale cammino.

Giulietta aveva percorso la sua curva, ci aveva impiegato ventidue anni a farla tutta. Ero riuscito a non farla partire, per ventidue anni, ogni singolo giorno, aveva perso un treno, una nave un aereo che l’avrebbe portata dall’altra parte. No, dico, ventidue anni, non uno di meno. Anche se sembrarono ventidue secondi.

A volte, senza preavviso, accadono cose che non si spiegano. Domande lasciate in sospeso, a cui non riesci a dare risposta e allora passano i giorni, gli anni, e te ne dimentichi. Quando pensi di essere al sicuro, al riparo da tutte quelle domande che portano cucite addosso risposte spaventose, ecco, esattamente in quel momento lì, arrivano. Le risposte.

Partì un mattino presto, di un giorno che pioveva, come a lavare via la notte e le angosce. Andò incontro a quel cielo che l’aspettava da anni. Partì senza voltarsi indietro, come qualcuno che ha esaurito la sua missione e se ne va senza rimpianti. Con uno zaino sulla spalla destra ed un segreto di cartone stretto al petto, come il ricordo di qualcosa o di qualcuno che non intendi lasciar andare. Non provai neanche a fermarla, aveva un segreto di cartone da portare dall’altra parte, non le chiesi neanche se sarebbe tornata, perché andava dall’altra parte e dall’altra parte c’era l’America. E nessuno di quelli che va laggiù torna. La vidi allontanarsi, Dio com’era bella, Pregai soltanto che non si perdesse, perché come lo ritrovi qualcuno che va dall’altra parte. Dimmelo Mercuzio, se si perdesse come farei a ritrovarla. Là c’è un mondo sproporzionato. Là c’è l’America.

“Addio Romeo, che mi hai insegnato a capire il mare, a leggere la vita che la gente di quaggiù si porta addosso. E’ stato bello vedere il mondo attraverso i tuoi occhi, averti amato mi ha reso una donna migliore. Continua a sognare, uomo degli abissi, inventa storie che fanno bene al mondo. Hai ragione tu: certi amori non capitano mica tutti i giorni. Nella maggior parte delle vite che conosco non sono capitati proprio mai.
Pensami soltanto mentre guardo il mare.
Tua Giulietta”.

Perché “dall’altra parte” c’è una donna seduta al tavolo di un bar che racconta alla persona che ha di fronte il suo segreto di cartone. (James Blunt – Miss America)

(Questo racconto è stato ispirato da un capitolo del libro “Castelli di rabbia”, Mi sono divertito a filtrarlo un po’ e ad aggiungerci qualcosa di mio. Niente di più.)

L’isola all’orizzonte.

 

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Ai viandanti senza méta, ai fuggiaschi dei respiri, ai sognatori in controluce. A tutti quelli che continuano a cercarla senza sosta.

Non dubitate, esiste davvero, un po’ come Atlantide, un po’ come “Il bacio” di Klimt, come le ossessioni, come le tempeste improvvise, i concerti all’aperto.
Lei è reale, come gli amori nei sonetti di Shakespeare, il senso di vuoto fra le dita, il sapore del vento sulla lingua. Come il mare. Dentro. Che allaga il torace.

Lei si lascia toccare, come un’anima tiepida in un letto disfatto, come un’amante in armatura e calze a rete, come una voglia insoddisfatta, un diamante dietro a un vetro, un odore di ricordi

Tutti la stiamo cercando, anche chi si ostina a non ammetterlo, ognuno a suo modo, anche chi si è arreso, la cerca di nascosto, magari al buio per non farsi vedere, magari protetto da un “io me ne frego”.

La parte più difficile non è trovarla, ma saperla riconoscere. Perché lei è sfuggente, come le idee più segrete, è quasi trasparente, come un bambino che scrive su un vetro.
Lei è devastante, come una vedova di trent’anni che vuol capire, un mercenario senza più nome che vuole amare, un condannato pieno di sogni senza catene.

È intrigante, come un sospiro sul collo scoperto, come infilarsi le mani addosso in mezzo alla gente, come trovarsi in una stazione alle due di notte.

Lei è rabbiosa, ammaliante, testarda, indifesa, capricciosa, leggera, esaltante, sincera, spiazzante, vogliosa. Lei è viva.

Tutti l’abbiamo cercata, molti lo stanno facendo ancora, altri l’hanno lasciata fuggire. In pochi, pochissimi l’hanno trovata sul serio. Sono quelli che si ostinano a dire che esiste davvero.

E allora non importa se siamo viandanti, fuggiaschi, sognatori o magari solo dei poveri illusi, no, non importa, andiamo avanti, che forse da qualche parte esiste davvero la nostra isola all’orizzonte. La nostra forma di America.

“Allora si inchiodava, lì dov’era, gli partiva il cuore a mille, e, sempre, tutte le maledette volte, giuro, sempre, si girava verso di noi, verso la nave, verso tutti, e gridava (piano e lentamente): l’America. “ (Alessandro Baricco)

In qualunque direzione stiate andando, fate attenzione, che qui non è Hollywwod.

Alla corte di Madame Sitrì.

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C’è l’anima di un gatto ammaliante dentro ognuno di noi.

Ne senti la presenza, si aggira sinuoso fra un ideale tradito e un principio venduto al mercato rionale, rimane in agguato e non sai mai quando uscirà allo scoperto, in realtà preghiamo sempre che resti al suo posto, ma non sarà così. ci cammina dentro silenzioso, si muove furtivo attorno ai nostri ideali, ci tenta, ci seduce, ci rende instabili, ci rassicura, come un bacio lento che vorresti non finisse mai

È il nostro mistero, il nostro lato in penombra, ci graffia con i ricordi e ci ammalia con gli entusiasmi.
È il nostro riflesso imprevedibile, seducente e profumato come le prostitute del bordello di Madame Sitrì, ci illude, ci regala l’impressione di poterlo controllare, si sdraia docile ai nostri piedi, per poi sbranarci nei momenti meno opporuni.

Si impossessa di noi mentre discutiamo animatamente, mentre tiriamo sassi contro un dolore fuori controllo, mentre guardiamo la nostra America allontanarsi asciugandosi il viso. Pilota le nostre parole, quando le frantumiamo contro i muri di due occhi indifesi, esce fuori sfoderando artigli affilati e straccia le vesti di quell’anima che ci aspetta da sempre, si accanisce sulla carne di chi ci ascolta morendo in silenzio.

Nessun rumore, si lascia accarezzare e poi con un balzo improvviso si prende gioco di noi, è la nostra lingua impulsiva che sputa sentenze, la nostra voce alterata che sbandiera rancori, le nostre mani agitate che spostano aria rabbiosa.
Si muove con grazia il nostro gatto lascivo, si strofina indecente come un’amante vogliosa, con il sul manto lucido di una bellezza inquietante, poi svanisce ammiccante dietro la tenda della finta normalità, ci sfida a seguirlo alzando la coda, invita a duello il nostro volere insicuro.
È il nostro sabato ozioso, il nostro istinto più vero, il desiderio straziante di affondare le mani dentro una voglia indecente.

Dà la caccia in eterno al nostro autocontrollo, lo trova, lo sbrana, lo nasconde in soffitta, ogni tanto lo libera per torturarlo di nuovo.
È il nostro grido ovattato, che trova uno sfogo improvviso, è il fuggiasco in attesa di un carcere nuovo, è lo sparo mortale ad un sogno in affitto.
È come quando ti manca talmente qualcuno che ti senti un teatrante senza il suo boccascena.

E allora nel silenzio più totale la sento che si muove con passo felpato, finalmente la guardo e la lascio graffiarmi, mi spaventa e mi cura. L’ anima errante del mio gatto randagio.

“Ognuno di noi è una luna: ha un lato oscuro che non mostra mai a nessun altro.”
Mark Twain, Seguendo l’equatore

Se l’anima del mio gatto avesse una forma, mi piacerebbe che fosse così: Cats In The Cradle