Anna bellosguardo.

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Immagine presa dal web

Aria fitta di domenica, aria inutile di un giorno destinato a prendere polvere. Come tutti gli altri, come fanno i gesti incompiuti, le frasi lasciate a metà. Che in questa stanza neanche arriva un po’ di musica, che da questa finestra messa lì a respirare neanche arriva l’odore del mare.

 

In giornate come queste, già lo so, finisco per fare un po’ di conti, io che mi ci perdo facile nei calcoli della vita, mi metto a tirare un po’ le somme. Fosse un quadro, una città antica, una qualche strana e inutile forma d’arte, fosse una cosa del genere potrei pure provarci, ma con i calcoli dell’esistenza proprio sono negata. Con la mia poi, non ne parliamo neanche.

E quando proprio la vita non ti viene come la vorresti finisci per fare compromessi, che mica è un crimine, però un po’ ti senti in carcere, finisci per essere quello che si aspettano, che mica è una condanna, però ogni volta ci muoio un po’. Un po’ ti ci abitui a quella sensazione di essere sempre in difetto col destino, forse, un po’ ti convinci pure di esserlo, giusto un po’, che quasi ti viene naturale chiedere scusa, così, senza grossi motivi. Semplicemente perché non si sa mai.

Da questa porta a vetri che io chiamo finestra messa lì a respirare ogni tanto mi affaccio sulle vostre vite, Le ammiro, come si fa con il cielo sopra le colline, il cielo di quando non c’è bisogno di aggiungere niente. Un cielo che va bene così.

Ma io non sono fatta per ciò che va bene, questo ormai è evidente, nel mio cielo c’è sempre qualcosa fuori posto. C’è sempre un volo, una stella remissiva, un arcobaleno di troppo nel mio orizzonte imperfetto. Ormai è evidente.

Prendi quella cosa dell’essere amata. In quella cosa lì c’è sempre stato un accadimento andato di traverso, come se tutti quei sentimenti impiegati a dare l’anima fossero treni che hanno disatteso il normale percorso e anziché arrivare alla stazione successiva, ad un certo punto, avessero deviato per una campagna desolata. Senza preavviso, senza neanche avermi dato il tempo di intuirne le intenzioni. Così. Hanno deviato e basta. Che se ti metti a pensarci c’è da andarci al manicomio, su come deragliano certi treni, intendo, li vedi viaggiare, sicuri e inarrestabili, portandosi dentro valigie di meraviglie e promesse. Perfetti. Invincibili. Togli un attimo lo sguardo e, niente, spariti, fine del tragitto. Inghiottiti da un punto preciso della vita, dimenticato chissà dove e da chissà chi. Se ti metti a pensarci c’è da andarci al manicomio.

E io ci ho creduto davvero, in tutti quei treni, quei binari, in tutti quegli amori lì, ci ho creduto davvero, perché la passione si nutre di certezze e disdegna i dubbi. E quando tutto finiva, quando, in qualche modo, il sangue tornava a circolare alla sua naturale velocità, c’era sempre una domanda, una sola, che mi teneva compagnia, che mi assillava per giorni, incomprensibile, quasi fastidiosa. Se avessi creduto in un qualche dio mi sarei messa pure a pregare. Avrei perfino scambiato tutte quante le mie emozioni alternative per poter salire di nuovo su quel treno. Se avessi creduto in qualche dio lo avrei fatto veramente, come se poi lassù se ne facessero qualcosa di quel baratto. Quando tutto finiva e la luce del mattino mi trovava distesa a cercare i frammenti del respiro, c’era sempre una domanda. Una sola. Perché anche questa fine non mi ha uccisa?.

Da questa finestra messa lì a respirare ogni tanto mi affaccio sulle vostre vite, che gli sguardi non sono mai abbastanza per vedere davvero le insidie della vita. Io che di sguardi ne ho lasciati talmente tanti da non sapere neanche più chi sono veramente. E tutti a dirmi “Anna, alza gli occhi che sono belli. Alza gli occhi che i tuoi sguardi sembrano infiniti”. E forse lo erano davvero.

Sono le 17:40 e in quest’aria fitta di domenica, aria inutile di un giorno destinato a prendere polvere, come tutti gli altri, come fanno i gesti incompiuti, le frasi lasciate a metà, sto qui e aspetto. Lo faccio da giorni, mi avvicino alla finestra, guardo giù. E aspetto. Fra due minuti, tre al massimo, lui uscirà da quel portone. Neanche sa che esisto, neanche se lo immagina di essere amato.

Mi capita così, da anni ormai, non so dire il motivo, ma ogni tanto guardo giù, vedo qualcuno, lo seguo con lo sguardo, ne studio i movimenti, molti se ne vanno senza lasciare traccia, ma qualche volta accade qualcosa. Uno di loro si ferma, senza una spiegazione apparante, senza una motivazione logica, si ferma. E guarda verso questa finestra. Non c’è motivo di farlo, diamine, non c’è nessun motivo al mondo per guardare quassù. E invece, per chissà quale sortilegio, decide di staccarsi dalla vita per un attimo, come fa un tassello di un mosaico senza fine. Si stacca e resta lì, finché non viene qualcuno a rimetterlo nella giusta posizione, illudendolo che potrebbero accorgersi della sua assenza. Non importa quanto tempo passerà ad osservare questi vetri, di solito è giusto la frazione di un secondo, ma fosse anche un’esistenza intera non avrebbe importanza, perché nel mio tempo, che tempo non è, è sufficiente incrociare quegli occhi, mi basta solo quello, per innamorarmi davvero.

Ho scelto di amare così, senza gesti eclatanti, senza chiusure strazianti. Piccole dosi, come se volessi svuotare il cuore contando le gocce. Che forse fa meno male, è un po’ come morire al rallentatore, è un metodo meno sfacciato di andarsene.

Ma in fin dei conti l’amore non è altro che un gesto imprevedibile, una tagliola che scatta all’improvviso. La mia sono gli sguardi. Con il tempo ho capito che non è il mio sguardo ad essere infinito, sono gli occhi delle persone oltre questo vetro che hanno un disperato bisogno di crederlo. Perché se l’amore ha una forma, questa è l’unica che mi è concessa. E’ l’unica che mi voglio concedere.

Non mi stanco mai di farlo, ogni giorno, alla stessa ora, spengo le luci, spengo ogni rumore, con le mani guido la mia sedia a rotelle fino qui e da questa porta a vetri che chiamo finestra messa lì a respirare mi affaccio sulle vostre vite, Le ammiro, come si fa con il cielo sopra le colline, il cielo di quando non c’è bisogno di aggiungere niente. Un cielo che va bene così.

Sono Salvo in mezzo al mare.

Marco-DAnna-©

Non sanno neanche il mio nome, qui tutti mi chiamano Salvo lo scemo. Ridono prima ancora che inizi a parlare, qualunque cosa riuscirò a dire non la prenderanno sul serio. E allora, tanto vale, continuare ad illuderli, che si fa meno fatica ad assecondare le aspettative della gente, sono tutti più sereni se ascoltano ciò che si aspettano di sentire, vanno a dormire più sicuri se non mettono in discussione le loro convinzioni. Perciò, chiamate altro pubblico a battere le mani, lucidatevi il sorriso e la coscienza che anche stasera tirerete un sospiro di sollievo scoprendo di essere normali. Salvo lo scemo è appena entrato nel locale.

Non sanno neanche il mio nome, ma hanno la certezza che le mie storie strampalate siano solo una capriola della mia mente. Quando racconto di aver visto serpenti e draghi alati, vulcani e cacciatori di tesori, le risate si spandono nell’aria, come fanno gli incensi per le strade dei mercati d’oriente. Ridono di me. E io di loro.
Non immaginano neanche che i serpenti siano le cime delle navi da crociera e i draghi alati le vele di un vascello lungo le coste dell’Egitto. I vulcani sono le ciminiere dei battelli a vapore e i cacciatori di tesori i marinai dei pescherecci di marlin. Mi fanno bere vino rosso, annebbiano la mia mente. E io la loro.

Non sanno neanche il mio nome e neppure il mio vero paese, sono arrivato dal niente e dal niente ogni sera svanisco. Io sono la loro immaginazione, il loro bisogno di sentirsi al sicuro.
Nessuno saprà mai quanti mari ho attraversato, su barconi che sembravano casse di legno gettate fra le onde, casse di legno piene di lettere mai spedite. Buste sgualcite e immacolate con dentro una storia assurda e tremenda da raccontare, con sogni e speranze che non vedranno mai la luce.
Storie di amori in fuga da guerre non volute, da tormenti immeritati. Nessuna di quelle persone che ridono di me ha la forza di immaginare quanta gente ho visto farsi inghiottire da quelle acque, calme e crudeli. Quando galleggi a un secolo e tremila miglia dalla costa, dove tutto il tuo passato è un inutile fardello, serve solo a far affondare la tua barca un po’ più giù. Tutti quegli attimi di vita vera vengono spazzati via da quella brezza, che pare sospinta da un’orchestra di fiati. E fra un assolo di clarinetto e uno di sax, vedi persone con gli occhi identici ai tuoi, quegli occhi che si ostinano a cavalcare un ultimo barlume di vita. Quegli occhi che non si arrendono mentre continuano a scivolare verso le profondità dell’inferno.
Tu sei lì, immobile, non hai la forza di far entrare aria nei polmoni. Puoi solo tenerti aggrappato alla speranza di non essere tu il prossimo.

Sono pensieri che non mi abbandonano, quel mare caldo e spietato non mi abbandona.
Mi chiamano Salvo, ma da certi viaggi non ti salverai mai. Non sopravvivi a certi sguardi, certi sguardi ti tagliano la mente. E quell’odore, l’odore dei barconi, l’odore della paura, delle grida soffocate. Come se il terrore di morire sprigionasse l’aroma dell’anima. Come se tutte le emozioni che hai provato avessero un profumo inconfondibile, quasi eterno, quasi insopportabile.
In mezzo a tutte quelle onde disperate toccare terra è solo un inutile diversivo.

Da quei viaggi non fai più ritorno e anche se continui a fingere di sopravvivere, non puoi fare a meno di pensare che ne sai più della morte che della vita. E questo è un pensiero che non ti lascerà mai andare via. Non mi sento un sopravvissuto, non c’è niente a cui dover sopravvivere, quella è stata la fine di tutto. Quello era il buio e la luce, il tutto ed il niente, quella era la fine del mondo, di tutto quel mondo che avevo conosciuto fino a quel momento. Poi mi sono ritrovato sulla riva, in qualche modo c’ero arrivato, quasi che la morte mi avesse masticato e poi sputato via la buccia. Perché, in effetti, è rimasta giusto quella, giusto la pelle, senza polpa, senza nient’altro.

E allora racconto storie assurde di serpenti e draghi alati, che è l’unico modo che mi resta per parlare con la gente, Perché non esiste una strada alternativa, perché come faccio a raccontare tutto quello che ho vissuto, perché quelli come me li chiamano clandestini e disperati. E come glielo dici a tutta quella gente che non siamo clandestini, almeno non più di quanto lo siano loro con la vita. Non siamo disperati, non siamo più niente. Passiamo i nostri giorni, uno dopo l’altro, come lupi esiliati dal branco.

Non sanno neanche il mio nome, come potrebbero saperlo, a momenti faccio fatica anch’io a ricordarlo. Ogni tanto affiorano ricordi come palloncini sfuggiti al carretto del luna park.
Ricordo la partenza da Zuara, ricordo una barca alla deriva, ricordo una terra nuova e sconosciuta con persone che parlavano una strana lingua, antica. E sconosciuta.
Ricordo la fuga, da un recinto che puzzava di disinfettante e coscienze da lavare, come se quel posto servisse più a chi l’aveva costruito che a noi chiusi lì dentro. La fuga in una notte che dio la mandava giù a dirotto e che mi ha portato qui. Il resto è tutto confuso, il resto è solo acqua.

Mi chiamo Antonio, forse. Sono ancora in mezzo al mare e non ce la faccio a ritornare, ci resterò per sempre, che per attraversare certi mari non conta quanta forza metti nelle braccia, conta solo la volontà di volerlo fare. Io quella volontà non la voglio più trovare. Ma voi non ci fate caso, continuate a farmi bere vino e a ridere di me. Io continuerò a farlo di voi. Che questo è tutto quello che mi resta. Questo è l’unico modo per fingere ancora di essere Salvo.

Se le onde si mettessero a riflettere, crederebbero di avanzare, di avere uno scopo, di progredire, di lavorare per il bene del Mare, e finirebbero coll’elaborare una filosofia sciocca quanto il loro zelo”. (Emil Ciora).

Certe onde non ti abbandoneranno mai. (Onde – Ludovico Einaudi)