La cosa più ovvia del mondo

Rimasero in silenzio, Caterina e il maestro Giuliani, senza dire una parola, per un tempo difficile da quantificare, incuranti della gente che li sfiorava, quasi oltrepassandoli, come se fossero due entità rarefatte, come certi sogni di cui puoi fare a meno.

Piero Giuliani fissava un punto oltre i vetri della porta d’ingresso, oltre la strada, oltre i tetti. E se ti capitava di domandargli cosa stesse guardando, lui rispondeva perentorio – Il mare aperto -. Lo diceva come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

Il maestro si tolse la giacca grigia in fresco lana, appoggiandola sul bordo destro del pianoforte a coda, un Fazioli nero, come se ne vedono pochi in giro. Linee morbide, suono leggermente graffiato, in altre parole un connubio perfetto di legno, corde, pelle e bestemmie. Lasciò cadere la giacca delicatamente, arrotolò le maniche della camicia appena sotto al gomito e si sgranchì le dita delle mani. Gesti, precisi, armoniosi e impeccabili, come un sacerdote di campagna prima di un esorcismo.

–          Lei è un uomo che non parla molto, anzi, non parla praticamente mai.

–          E’ nei silenzi che si nasconde la verità

Posò le dita sui tasti, senza affondare il colpo, chiuse gli occhi.

–          Raccontami i tuoi pensieri, ascolta la musica e vieni a vedere chi sei. – Lo diceva come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

Lei iniziò a parlare. Lui iniziò a suonare.

–          Un giorno sono morta, niente di che, una cosa come un’altra. In un giorno come un altro, di quelli che iniziano anonimi, un po’ così, che non promettono grandi clamori. Che alla fine più che viverli li guardi passare. Invece in quel quattordici maggio di sei anni fa sono morta.

Il maestro baciava con i polpastrelli quei tasti bianchi e neri, riempiendo l’aria di quella strada con un’armonia che assomigliava molto ad un inizio di tempesta.

–          Erano le ventitré e quaranta, stavo seduta al posto del passeggero, l’auto ferma sotto ad un lampione, lui al lato di guida faceva battute leggere e muoveva le mani e si capiva che era nervoso, di un’agitazione complicata da controllare. Di quelle che ti fanno sentire bellissima. E mi rovesciava parole e mi guardava, ma senza vedermi. Non era un parcheggio del centro, proprio no, ma era un posto speciale. Un posto appena fuori città, dove le persone vanno a pettinarsi la vita.

Un parcheggio, di quelli con un solo lampione che a malapena ti permette di vedere oltre il vetro dell’auto, è il posto di coloro che riescono ancora ad assaporare emozioni. Di quelli che hanno ancora bisogno di frugarsi nell’anima. Ogni città ne ha uno, è il posto adatto per liberare emozioni, che volano come libellule e si incontrano fra loro riconoscendosi fra mille. Ci sono auto con gli amanti che si baciano, auto con dentro due amici da una vita che ascoltano i Jetrho Tull con una birra sul cruscotto, auto gonfie di musica che si fermano a riprendere fiato, altre con qualcuno dentro che viene qui a dar cazzotti alla notte.

È il posto dei sogni interrotti, delle sigarette fumate guardando il carro dell’orsa maggiore, delle teste cariche di pianto appoggiate sul volante, degli “stavolta è davvero finita” e degli “è talmente bello che fa quasi male”, è il bicchiere di vino in una sera di luglio, il tempo passato a prendere a schiaffi i tormenti. È la terra consacrata degli amori impossibili, delle mareggiate emotive, degli spruzzi di allegria, dei baci rubati i respiri condivisi e le parole non dette. Che in quel posto lì le parole non servono veramente a un cazzo.

E’ il muro degli “Anna ama Luca” ma anche dei “Marco ama Andrea”, che lì i pregiudizi se ne vanno a fanculo, che tanto quel lampione non fa abbastanza luce per svelare le confessioni degli sguardi. È la nostra scatola nera, quella che si trova due dita oltre la parete del cuore, che non la vediamo, ma sappiamo che c’è.

Il maestro Piero Giuliani non smise neanche per un secondo di far volare le mani sulla tastiera. Alcuni passanti si fermavano ad ascoltare, cercando con lo sguardo il recipiente in cui lasciare una moneta. Ma non c’era niente, nessuna ciotola, nessun cappello, niente di niente. C’era solo un uomo seduto al pianoforte, con lo sguardo perso Dio solo sa dove e una donna che parlava, con un tono di voce che si allineava perfettamente a quella musica. Che quasi veniva da chiedersi se le parole non uscissero direttamente dalle corde irrequiete di quel pianoforte.

–          Capisce cosa sto dicendo?

Il maestro, ovviamente, non rispose, accennò appena l’inizio di un sorriso. Caterina lo prese per un “Sì”.

–          E poi è successo. Mentre tornavamo verso casa. Lui guidava tenendo la mano destra nella mia. Ha presente quando prende la mano di qualcuno o qualcuno le prende la mano e le dita si intrecciano? Ecco, eravamo esattamente così. In quel gesto che oltre alle dita ti intreccia l’esistenza e quasi hai paura a mollare la presa.

E poi è successo. L’auto che gira, la notte che cade, la strada impazzita, il fiato si perde, il cuore in soffitta, qualcosa si spezza. La vita che dà il suo colpo di coda.

Le mani del maestro per un istante impercettibile si fermarono e con loro si fermarono i passanti, i portici, la strada, i balconi, i tetti delle case. E il mare aperto.

–          Quando tutto tornò alla normale velocità lui era svanito ed io in un letto con la schiena divisa perfettamente a metà. Lui aveva semplicemente smesso di esistere, io di vivere. Io sono morta davvero.

Piero Giuliani piantò lo sguardo negli occhi di Caterina. Lui stava per aprire bocca e lei si sentì perduta.

–          Adesso ascolta la musica. E vieni a vedere chi sei. – Lo diceva come se fosse la cosa più ovvia del mondo-

Partì una melodia strana, fatta di toni alti, quasi dissonanti, per poi scendere alle ottave più basse, giù in picchiata, un ascensore senza freni.

Caterina chiuse gli occhi, come fosse abbagliata da troppa luce. Tutta insieme. Troppo improvvisa. Chiuse gli occhi e si distese su quella melodia.

Quell’immagine, vista dall’esterno, non regalava altro che un uomo seduto al pianoforte, con lo sguardo perso Dio solo sa dove e una donna che ascoltava. In realtà, là fuori, c’erano due persone, con le esistenze mescolate, perse in mare aperto. Ma questo nessuno avrebbe potuto immaginarlo.

–          Da quel giorno ho iniziato a chiedere scusa, per ogni cosa. Ho iniziato a sentirmi in difetto con il mondo, con le persone, anche quelle sconosciute. Come se il semplice fatto di esistere e respirare potesse essere un disturbo per qualcuno. Sempre con questo timore, fastidioso ed implacabile di togliere qualcosa alle persone, di avere privilegi che non mi spettano. Chiedo scusa per essere ancora viva. In realtà quel giorno non sono morta, ho semplicemente iniziato a morire.

Il maestro ascoltava, questo era palese, ascoltava quel fiume in piena e lo faceva suo, lo domava, ne studiava le correnti, i vortici e le cascate. E rispondeva, era palese, rispondeva con le mani, in quella danza fatta di rincorse, di pause, di sospiri. Lui rispondeva con la musica, che le parole non sono mai così precise. Le parole sono solo specchi che rimandano la tua immagine. La musica ti fa vedere chi sei.

Era esattamente ciò che stava per fare Caterina. Guardarsi, come non aveva mai fatto prima.

La verità è che mi sono rotta il cazzo di farmi vedere forte, di essere quella che non molla. Io ho mollato! Cristo santo! Ho mollato quella sera lì e tutte le stramaledette sere seguenti, ma come si fa a non vederlo? Me lo dica lei maestro, lei che è un uomo che ha studiato, me lo dica, come fanno le persone a non accorgersi che sto annegando?

Il maestro ovviamente non rispose, non a parole almeno, forse neanche con la musica. Forse certe domande una risposta non ce l’hanno neanche.

Si limitò a rallentare il movimento delle mani sulla tastiera, tirando per i capelli un Sol minore, allungandolo forse più del necessario. Quella era l’ultima nota della giornata. Poi si rivolse a Caterina, senza guardarla, ma si capiva che stava parlando con lei.

–          Può bastare. Per adesso. Ci vediamo domani. Ovviamente

–          Ovviamente.

Lo dicevano come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

(Lo so, lo so, è un racconto lungo, forse troppo, è diverso dal solito, forse troppo, ma avevo voglia di sperimentare. Così.)

Anna bellosguardo.

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Immagine presa dal web

Aria fitta di domenica, aria inutile di un giorno destinato a prendere polvere. Come tutti gli altri, come fanno i gesti incompiuti, le frasi lasciate a metà. Che in questa stanza neanche arriva un po’ di musica, che da questa finestra messa lì a respirare neanche arriva l’odore del mare.

 

In giornate come queste, già lo so, finisco per fare un po’ di conti, io che mi ci perdo facile nei calcoli della vita, mi metto a tirare un po’ le somme. Fosse un quadro, una città antica, una qualche strana e inutile forma d’arte, fosse una cosa del genere potrei pure provarci, ma con i calcoli dell’esistenza proprio sono negata. Con la mia poi, non ne parliamo neanche.

E quando proprio la vita non ti viene come la vorresti finisci per fare compromessi, che mica è un crimine, però un po’ ti senti in carcere, finisci per essere quello che si aspettano, che mica è una condanna, però ogni volta ci muoio un po’. Un po’ ti ci abitui a quella sensazione di essere sempre in difetto col destino, forse, un po’ ti convinci pure di esserlo, giusto un po’, che quasi ti viene naturale chiedere scusa, così, senza grossi motivi. Semplicemente perché non si sa mai.

Da questa porta a vetri che io chiamo finestra messa lì a respirare ogni tanto mi affaccio sulle vostre vite, Le ammiro, come si fa con il cielo sopra le colline, il cielo di quando non c’è bisogno di aggiungere niente. Un cielo che va bene così.

Ma io non sono fatta per ciò che va bene, questo ormai è evidente, nel mio cielo c’è sempre qualcosa fuori posto. C’è sempre un volo, una stella remissiva, un arcobaleno di troppo nel mio orizzonte imperfetto. Ormai è evidente.

Prendi quella cosa dell’essere amata. In quella cosa lì c’è sempre stato un accadimento andato di traverso, come se tutti quei sentimenti impiegati a dare l’anima fossero treni che hanno disatteso il normale percorso e anziché arrivare alla stazione successiva, ad un certo punto, avessero deviato per una campagna desolata. Senza preavviso, senza neanche avermi dato il tempo di intuirne le intenzioni. Così. Hanno deviato e basta. Che se ti metti a pensarci c’è da andarci al manicomio, su come deragliano certi treni, intendo, li vedi viaggiare, sicuri e inarrestabili, portandosi dentro valigie di meraviglie e promesse. Perfetti. Invincibili. Togli un attimo lo sguardo e, niente, spariti, fine del tragitto. Inghiottiti da un punto preciso della vita, dimenticato chissà dove e da chissà chi. Se ti metti a pensarci c’è da andarci al manicomio.

E io ci ho creduto davvero, in tutti quei treni, quei binari, in tutti quegli amori lì, ci ho creduto davvero, perché la passione si nutre di certezze e disdegna i dubbi. E quando tutto finiva, quando, in qualche modo, il sangue tornava a circolare alla sua naturale velocità, c’era sempre una domanda, una sola, che mi teneva compagnia, che mi assillava per giorni, incomprensibile, quasi fastidiosa. Se avessi creduto in un qualche dio mi sarei messa pure a pregare. Avrei perfino scambiato tutte quante le mie emozioni alternative per poter salire di nuovo su quel treno. Se avessi creduto in qualche dio lo avrei fatto veramente, come se poi lassù se ne facessero qualcosa di quel baratto. Quando tutto finiva e la luce del mattino mi trovava distesa a cercare i frammenti del respiro, c’era sempre una domanda. Una sola. Perché anche questa fine non mi ha uccisa?.

Da questa finestra messa lì a respirare ogni tanto mi affaccio sulle vostre vite, che gli sguardi non sono mai abbastanza per vedere davvero le insidie della vita. Io che di sguardi ne ho lasciati talmente tanti da non sapere neanche più chi sono veramente. E tutti a dirmi “Anna, alza gli occhi che sono belli. Alza gli occhi che i tuoi sguardi sembrano infiniti”. E forse lo erano davvero.

Sono le 17:40 e in quest’aria fitta di domenica, aria inutile di un giorno destinato a prendere polvere, come tutti gli altri, come fanno i gesti incompiuti, le frasi lasciate a metà, sto qui e aspetto. Lo faccio da giorni, mi avvicino alla finestra, guardo giù. E aspetto. Fra due minuti, tre al massimo, lui uscirà da quel portone. Neanche sa che esisto, neanche se lo immagina di essere amato.

Mi capita così, da anni ormai, non so dire il motivo, ma ogni tanto guardo giù, vedo qualcuno, lo seguo con lo sguardo, ne studio i movimenti, molti se ne vanno senza lasciare traccia, ma qualche volta accade qualcosa. Uno di loro si ferma, senza una spiegazione apparante, senza una motivazione logica, si ferma. E guarda verso questa finestra. Non c’è motivo di farlo, diamine, non c’è nessun motivo al mondo per guardare quassù. E invece, per chissà quale sortilegio, decide di staccarsi dalla vita per un attimo, come fa un tassello di un mosaico senza fine. Si stacca e resta lì, finché non viene qualcuno a rimetterlo nella giusta posizione, illudendolo che potrebbero accorgersi della sua assenza. Non importa quanto tempo passerà ad osservare questi vetri, di solito è giusto la frazione di un secondo, ma fosse anche un’esistenza intera non avrebbe importanza, perché nel mio tempo, che tempo non è, è sufficiente incrociare quegli occhi, mi basta solo quello, per innamorarmi davvero.

Ho scelto di amare così, senza gesti eclatanti, senza chiusure strazianti. Piccole dosi, come se volessi svuotare il cuore contando le gocce. Che forse fa meno male, è un po’ come morire al rallentatore, è un metodo meno sfacciato di andarsene.

Ma in fin dei conti l’amore non è altro che un gesto imprevedibile, una tagliola che scatta all’improvviso. La mia sono gli sguardi. Con il tempo ho capito che non è il mio sguardo ad essere infinito, sono gli occhi delle persone oltre questo vetro che hanno un disperato bisogno di crederlo. Perché se l’amore ha una forma, questa è l’unica che mi è concessa. E’ l’unica che mi voglio concedere.

Non mi stanco mai di farlo, ogni giorno, alla stessa ora, spengo le luci, spengo ogni rumore, con le mani guido la mia sedia a rotelle fino qui e da questa porta a vetri che chiamo finestra messa lì a respirare mi affaccio sulle vostre vite, Le ammiro, come si fa con il cielo sopra le colline, il cielo di quando non c’è bisogno di aggiungere niente. Un cielo che va bene così.