Una bandiera sulla luna.

Questa è una storia d’amore, sì senza dubbio, è una storia d’amore. Di quelle che se ti metti a raccontarle, ecco, se mai ti venisse in mente di raccontarle, le persone non capirebbero. A pensarci bene, proprio non ne coglierebbero il senso. E invece è una storia d’amore.

Marco non crede al destino, o comunque, si ostina a ripeterlo, quando gli capita di parlarne, intendo, o magari anche solo di pensarci. La sola idea che la sua strada possa essere già tracciata e che i suoi passi debbano seguire un percorso ineluttabile, ecco, quell’idea lì, quella di non essere libero, lo fa rabbrividire. Non crede al destino, perché i percorsi stabiliti sono inconcepibili, perché la vita stessa è inconcepibile, figuriamoci se riesci a domarla, la vita. Sarebbe come trovare una formula matematica per le emozioni, come stabilire il momento esatto in cui crepare di dolore o il giorno preciso in cui decidere di essere uomo. Sarebbe come calcolare l’attimo indiscutibile in cui ti innamorerai di qualcuno. E’ assolutamente inconcepibile pensare di domarla, la vita.

Eppure ci sono istanti che sembra siano lì da sempre, che ti stiano aspettando, da sempre, qualunque cosa tu faccia, loro stanno lì. E ti aspettano. Da sempre.

E così Marco si ritrova in una festa di paese, una di quelle che proprio non hanno senso. Quelle con la gente che ride, che si accalca per uno spettacolo di equilibristi e saltimbanchi. Tutta quella folla di persone che si muove quasi a tempo, come fanno le maree, che un attimo ti lasciano in pace e l’attimo dopo arrivano ad incatenarti i piedi. E alla fine un po’ ti diverti a farti trascinare.
Marco che non corre mai veloce, anzi, ogni tanto, per un motivo che neanche lui conosce, si ferma, così, di botto, si ferma e osserva, come fosse stato colto da chissà quale folgorazione divina. Come se qualcosa si inceppasse, come se prendesse nota di un fotogramma preciso. E alla fine li archivia, li cataloga con maniacale precisione, tutti quei fotogrammi. Come se avesse un archivio nella testa. E’ il suo modo di tenere il segnalibro dei ricordi. Stamparsi nella mente un istante preciso, come fosse un riassunto di un’emozione più articolata e complicata da descrivere.

Marco si ritrova in mezzo a tutta quella gente che guarda chissà dove, forse verso uno spettacolo di magia o più semplicemente, verso l’infinito, che alla fine, comunque, non è che cambi granché. Sta lì, immobile, a guardare una barriera di schiene, immobili. Ad immaginare tutti quei volti rapiti da chissà quale meraviglia. Tutti, tranne il suo. Lui adesso è nel bel mezzo della sua folgorazione, sta scattando il suo fotogramma, sta aggiornando l’archivio nella testa. Guarda la spalla della ragazza che è di fronte a lui. Un punto preciso, quello che si incurva verso il collo. Ci potresti passare un’esistenza intera in un posto come quello, nella curva del collo. Lei neanche immagina, che qualcuno da dietro la stia osservando. Neanche sospetta che qualcuno si stia perdendo.

Marco neanche respira, quella curva lì sembra fatta su misura per distenderci i pensieri, è il profilo perfetto di ogni forma di vita. Ci sono istanti che sembra siano lì da sempre, che ti stiano aspettando, da sempre, qualunque cosa tu faccia, loro stanno lì. E ti aspettano. Da sempre. Ecco, quella curva, lo stava aspettando, come un appuntamento fissato da un tempo indefinito, come fosse stato qualcosa di inevitabile. Avrebbe potuto rimandare qualsiasi cosa, avrebbe potuto rimandare perfino l’incontro con la morte, ma non avrebbe mai potuto evitare di incontrare quella curva lì. Che a una curva così non c’è modo di sfuggire, non c’è modo di salvarsi da una curva come quella. Quella è la curva di Dio. La curva fra il collo e la spalla.

E in quel punto preciso Marco ci vede una storia d’amore. Un filo sottile che unisce le risate e le corse a perdifiato, i litigi che sembra che il diavolo che hai in corpo non la smetta di soffiare veleno, le sconfitte, le gioie che sembra che il cuore non regga. I pianti, che sembra che ti scorra un fiume dentro, i viaggi con il cofano che fuma in mezzo alla campagna. Le mani fra i capelli che quel bacio ha l’aurora nei sospiri.

Marco vorrebbe avvicinarsi di più, per vederlo meglio quel punto lì, per stringere più forte quel filo sottile. Che se guardi la vita da lontano ti perdi i dettagli, se guardi la vita da lontano le vedi i confini, ma ti perdi l’infinito.
Lui restava lì, a fissare la schiena di una donna senza nome, e questo era un pensiero che gli piaceva. Perché le persone tendono a dare un nome perentorio a ciò che le spaventa e una lunga descrizione a ciò che le rende felici.

Marco, come sempre, vorrebbe fuggire, gli capita ogni volta che vede qualcosa che lo affascina e allo stesso tempo, lo terrorizza. Si blocca, ma in realtà vorrebbe fuggire via, come se il cervello e i muscoli fossero scollegati. Come se qualcosa si rompesse dentro e arrivassero informazioni incomplete ai centri nervosi. E in quel groviglio di neuroni vai a trovarlo quello che si è perso per strada. Non se lo spiega, ma vorrebbe fuggire, senza neanche saperne il motivo.

Ecco, se il destino esistesse veramente adesso lei si volterebbe d’improvviso, come fosse stata punta da un insetto, probabilmente da uno sguardo. Si volterebbe  d’improvviso, piantandogli gli occhi addosso. Come una bandiera sulla luna.

-Ehi, che stai facendo?-
-Niente, volevo solo chiederti…stai guardando lo spettacolo di magia? –
-Certo, perché tu no?-
-No, io sono venuto qui per cercare una persona-
-Ah sì?, e chi?-
-Te.

Ma il destino è un’illusione, la vita è tutta un’altra storia. La vita, quella vera, prende traiettorie alternative. Lei non si volta, rimarrà un mistero anche il suo nome perentorio come uno spavento. Non resta altro che farne una lunga descrizione, come si fa con le cose che ci rendono felici.

Marco la guarda e, come sempre, vorrebbe fuggire, senza neanche saperne il motivo, ma adesso ha la certezza che lo capirà, giorno per giorno, lo capirà perché alcune persone continuano a fuggire, per poi fermarsi, di botto, per un motivo che neanche loro conoscono, si fermano. Come se qualcosa si inceppasse, come se prendessero nota di un fotogramma preciso. Si fermano e osservano qualcosa d’infinito. Si fermano e osservano la vita.

Marco non crede nel destino, nei percorsi ineluttabili, ma stavolta è diverso e non potrebbe essere altrimenti. Perché questa è una storia d’amore, sì senza dubbio, è una storia d’amore. Di quelle che se ti metti a raccontarle, ecco, se mai ti venisse in mente di raccontarle, le persone non capirebbero. A pensarci bene, proprio non ne coglierebbero il senso. E invece è una storia d’amore.

Quando mi fermo a guardare la vita qualcosa si rompe dentro. (Dave Matthews Band – Crash into me)

“Una dichiarazione d’amore è il passaggio dal caso al destino, ed è per questo che è così pericolosa.” (Alain Badiou)

Se sei sveglio conti le pecore, se sei in ritardo…i semafori

Immagine

Le persone cambiano, le abitudini anche, putroppo non sempre in meglio.

Il caso specifico che voglio andare a sviscerare è stata la mia metamorfosi nella gestione del tempo. Secoli fa, ero giovane, bello (?) e…puntuale, ma gli anni e le esperienze della vita mi hanno fatto perdere questo mio, chiamiamolo, pregio che mi ha portato solo sofferenze (dai su, lasciatemi fare un po’ il melodrammatico).

Solo le persone puntuali hanno un’idea delle difficoltà di gestire l’affollamento dei demoni quando si aspetta qualcuno che ritarda. So, diciamo, per esperienza diretta, che i nevrotici preferiscono arrivare un’ora prima che dieci minuti dopo. Per questo mi ha molto stupito leggere nei sui “Diari” che Kafka non riusciva ad essere puntuale. (ok, battuta articolata più adatta a frequentatori di circoli letterari di sinistra che raggiungono l’apice del piacere durante la visione di film in polacco con sottotitoli in ucraino). Arrivare in orario è una condanna, sei costretto a trovare dei diversivi per ingannare l’attesa, mettere le dita nel naso è uno dei più gettonati. Capita così di veder arrivare una persona trafelata e con la faccia colpevole e chiedere “è tanto che aspetti?” e l’altro “no no, tranquillo, sono arrivato da poco” e nel dire questo si gira fra le mani una sfera artigianale grande come un pallone da beach volley. (questa è decisamente più greve, da bar sport dopo un paio di birre medie).

Altra pratica molto in voga fra chi attende è il passeggiare avanti e indietro, passi così in rassegna nell’ordine: le vetrine di una libreria, un negozio di abbigliamento equestre, un’impresa di pompe funebri. Certo, il tuo aggiamento insospettisce i commessi, quello della libreria telefona a quello delle selle “oh, fai tutti gli scontrini che fuori c’è un finanziere nuovo…ha una faccia da coglione…” e il cassamortaro esce sulla porta chiedendoti “buongiorno, ha bisogno?”…”no grazie…” e lui “si certo…dicono tutti così”, ti tocchi le palle e comunque, ti riprometti di andare dal medico il prima possibile per farti un ciclo di analisi. Comunque sia, dopo un po’, presi dal timore, tutti tirano giù le saracinesche.

I puntuali, poi, non sono amati: chi arriva in orario accoglie sempre l’altro con una accusa sulla faccia. Non c’è scusa che tenga, sei in ritardo e questa è una cosa che non potrai cambiare mai più e lo odierai per un periodo infinito di tempo. I puntuali passano per perfettini e grandissimi rompicoglioni. Hai un appuntamento a casa di amici, ti presenti in perfetto orario, suoni alla porta e senti lei che dice “Cazzo, è già arrivato…boia che palle, devo ancora finire di sistemare tutto, ma a che ora gli avevi detto???”, una volta sono arrivato con un leggero anticipo, lui è venuto ad aprirmi tirando su la zip dei pantaloni e lei ha percorso il tratto camera da letto-bagno in sette secondi netti coperta da un lenzuolo, tipo Casper.

Insomma, mentre sei li, abbarbicato all’angolo della cantonata, giungi al punto di ebollizione dell’attesa e si produce il fenomeno per cui quasi speri che l’altro non arrivi più, per avere ragione di odiarlo definitivamente. E invece quello arriva. Quasi sempre.

Ma è davvero così importante che l’altro arrivi in tempo, o che, semplicemente, arrivi? Avresti voglia di andartene dopo dieci minuti, una volta tenuto conto che la persona che stai aspettando non è Kafka.

Ma come dicevo all’inizio, le persone cambiano e io sono passato dalla parte del nemico. Arrivo sistematicamente con almeno quindici minuti di ritardo.

In realtà impiego quel lasso di tempo che mi farà odiare in cose futili che potrei sicuramente rimandare, tipo rispondere ad un commento su facebook, scaricare la posta o giocare la finale di Champions League a PES. Si, perchè al contrario di ciò che possano pensare coloro che attendono, chi è in ritardo, nella maggior parte dei casi, non sta facendo un emerito cazzo. Vuole semplicemente dare di se l’impressione di una persona piena di impegni.

Ma ormai il ritardo per me è una malattia conclamata, ho cercato di curarmi con rimedi omeopatici, tipo mettere l’orologio avanti di dieci minuti, ma la consapevolezza di tale gesto mi fa guardare le lancette e dire “ma si…è ancora presto”. Durante il tragitto che mi separa all’appuntamento conto tutti i semafori che incontro, i ciclisti che non vanno in fila indiana e gli ometti col cappello, in modo da accampare scuse false ma plausibili. Il problema mi nasce quando il luogo dell’appuntamento è a trecento metri da casa mia, in quel caso, molto probabilmente, arrivo col fiatone giurando sul cane del vicino (che di solito alza la gambetta posteriore destra a ridosso dell’anteriore sinistra della mia auto), che ero fuori città per lavoro, che c’era la coda in austrada a causa del controesodo (anche se siamo al ventuno ottobre) e che il casellante non aveva gli spiccioli per farmi il resto (anche se la scatoletta del telepass fa bella mostra di se sul vetro). Tra i miei amici, mi sono guadagnato il soprannome di “la sposa” il commento più colorito è stato questo: “attento, non sottovalutare questi ritardi, l’ultima volta che la mi’ moglie ne ha avuto uno…è nato Nicola”

Comunque dai, datecene atto, noi ritardatari siamo fantasiosi per necessità, siamo costretti a trovare sempre nuove scuse, le persone ci odiano, ma alla fine ci perdonano, quando arriviamo facciamo gli occhioni dolci da gatto (spesso in calore), diciamo la prima cazzata che ci viene in mente e ci sediamo tutti a tavola a mangiare la pizza ormai semi congelata e la Peroni in ebollizione. E poi da quando ho letto su ilmiopsicologo.it che l’essere in ritardo è una patologia, cerco di condividere il peso di questa mia malattia con le altre persone, perchè come diceva Pascoli “il dolore è più dolor se tace”.

A Berlino, il 7 ottobre del 1989, Gorbaciov disse a Honecker che “la vita avrebbe punito i ritardatari”. Un mese dopo crollò il Muro.