La venticinquesima foto.

La guardava, seduto al solito tavolo, del solito bar, di una piazza che quasi non si ricordava che esistesse. O forse, non si era mai preoccupato di ricordarlo.

La guardava, come si guarda un panorama in mezzo alla nebbia, cercando di intuirne il perimetro, avanzando con cautela, per evitare impatti, o quantomeno, per limitarne i danni. Ciò che vedeva non lo stupiva più di tanto, come fosse una festa a sorpresa il giorno del tuo compleanno, che si ripete, sempre lo stesso giorno. Alla fine non ti meravigli più, ma ci speri che succeda ancora.

La guardava, e un po’ la conosceva già, solo un po’, forse semplicemente, riconosceva l’impressione che si era fatto di lei. E questo, in parte lo rassicurava. Continuare ad osservala era come parlare con uno sconosciuto con la sensazione di conoscerlo da sempre. Sì, un sentimento decisamente rassicurante.

Sabrina, ecco, se avesse potuto chiamarla per nome sarebbe stato Sabrina. Certi nomi scivolano leggeri, ti vestono come abiti di seta, si modellano sul tuo corpo, perfetti. Ti cadono sulla vita, senza fare nessuna piega. Che alla fine ti viene da chiederti se quel nome ti sia capitato per caso o qualcuno te l’abbia confezionato, magari prendendo le misure delle tue infelicità, delle tue gioie, dei giorni andati e di quelli da prendere contromano. Degli sbagli, di tutti gli sbagli che hai fatto, che non riesci a dimenticare, che poi finiscono quasi per farti compagnia. Di tutti quegli sbagli per i quali proprio non riesci a perdonarti. Per quegli sbagli lì, è inutile illudersi, un nome preciso non c’è. E allora, te ne scegli uno qualunque, che tanto non fa differenza. E passi le giornate a guardare la gente, ti metti seduto, tagli, cuci, misuri e alla fine le vesti con il loro nome nuovo di zecca.

Sabrina era una di loro, una di quelle con il nome che cade sulla vita senza fare nessuna piega.

La guardava e fra i suoi capelli neri ci vedeva la notte, una di quelle notti in cui fai fatica a prendere sonno, ma non sei agitato. Semplicemente certe notti non sono nate per essere vissute ad occhi chiusi. Ecco, quel nero lì. Sabrina lo portava in giro con sfacciata noncuranza, ma se ci passavi in mezzo facevi fatica a prendere sonno.

Gli occhi, non avevano un colore. Avevano riflessi, avevano proiezioni, come se versassero vita nel mondo. Trasfusione di rabbia ed estasi, un eccesso di immagini ed emozioni che l’anima non riesce a contenere. Come se avesse raggiunto il livello massimo e il suo corpo esile fosse costretto a far traboccare qualche bicchiere di vita. Giusto un paio di bicchieri di vita passata. Per fare spazio a sensazioni nuove.Gli occhi di Sabrina erano così, con un brivido dentro. Gli occhi di qualcuno scampato ad una tragedia, un abbandono direi, sì, forse è stato un abbandono. O comunque una tragedia molto simile. Probabilmente la vita.

Il resto era annebbiato, quasi trasparente. La bocca, le mani, tutto, sembravano disegnati a matita, con tratto leggero, impercettibile. Uno di quei disegni che esistono solo quando passi le dita sul foglio e ne senti i contorni. Erano la venticinquesima foto sul rullino, quella che neanche sapevi di avere. Quella scattata per caso, sovrapposta a quella precedente, che ad una prima occhiata risulta difettosa, quasi sgradevole, ma poi osservi. E allora ci vedi il movimento esatto del tempo. Un po’ come certe vite, che se guardate di sfuggita ti appaiono indecifrabili, quasi inconcepibili. Quasi sprecate. E invece sono semplicemente vissute con un tempo sovrapposto, sono semplicemente da osservare meglio. Sono la venticinquesima foto. Semplicemente.

La guardava, seduto al solito tavolo, del solito bar, di una piazza che quasi non si ricordava che esistesse e la mente correva ad un giorno di Maggio. Il giorno in cui lui decise di svanire. Lo fece senza dare spiegazioni, che comunque sarebbero state verità inutili, cosparse di infinita ipocrisia. Come certe torte, che rimangono a cuocere troppo a lungo e ti ostini a metterci sopra lo zucchero a velo, sperando di coprirne i difetti. Puoi migliorarne l’aspetto, ma lasceranno comunque un sapore forte sul palato.

Quel giorno di Maggio fu così, camminava lungo il corridoio che conduceva alla porta di uscita. Si lasciava alle spalle una corsia d’ospedale, una moglie ancora sotto anestesia e una bambina venuta al mondo da almeno dieci minuti. Una bambina arrivata all’improvviso, come uno spavento, che puoi preparati una vita, ma quando arriva il momento proprio non te l’aspetti. Certe persone, proprio non ci riescono a superare quella paura. Certe persone proprio non ce la fanno a riprendere fiato.

Una bambina con due occhi da riempire di vita. La stessa bambina che adesso era seduta ad un tavolo, davanti ad un caffè macchiato di latte e mancanza d’amore. Stava lì, ignara, a cinque passi e trent’anni da lui, con il suo nome nuovo di zecca, lo stesso di sempre. L’unico dono lasciato da suo padre, era quel nome, nascosto tra le pieghe di un foglietto messo ai bordi del suo lettino. “Se potessi sentirmi ti chiamerei Sabrina”. Lo nascose lì, un attimo prima di svanire.

Lei era così, un disegno a matita con il tratto impercettibile, lei era la venticinquesima foto. Lei era Sabrina e nonostante tutto, era riuscita a non svanire.

“Ci sono presenze che finiscono per essere più dolorose di certi abbandoni.” (Jérôme Touzalin – Il passeggero clandestino)

Anche la venticinquesima foto puo’ raccontare molte storie. (The Cure – Picture of you)

Cesare perduto nella pioggia.

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Cesare è seduto in veranda e fuori piove, Il sigaro cubano sta morendo nel posacenere insieme ai suoi pensieri.

Cesare che suona il pianoforte in una stanza chiusa, dedica canzoni improvvisate ad un’amante di vent’anni fa, perduta tra gli incroci della vita. E sorride quasi assente delle immagini che si affacciano alla mente, mentre corrono le dita fra le note in bianco e nero.
Lui scorre con le mani e torna al primo giorno, in un vento di novembre che pioveva a perdifiato, la intravide lì sul molo la sua donna dei sospiri, sarebbe stata per dieci anni la sua “sposa del vento”.

Furono anni senza sosta, di un amore per cui lottare e quei giorni come artigli li ritrova tatuati sulla schiena della sua anima irrequieta.
Furono istanti da succhiare, da lasciarsi trasportare, di rugiade sulla lingua.
E ricorda Cesare, le parole dette piano, le carezze a mezzanotte, le risate su in terrazza, alle soglie di una notte da baciare. E ricorda e sorride e suona perso nei pensieri. Quei tasti sfiorati lievemente regalano arpeggi di emozioni.

E tornano alla mente i passi leggeri e trasognanti fra i giardini di Granada, lo stupore e il cuore in gola per le strade di Lisbona, i profumi e gli acquazzoni di una chiesa a Barcellona. Sempre tenendosi per mano.
E ricorda la sua fine senza addii, senza poterla salutare, senza dirle “resta ancora, giusto il tempo di una vita”. Lei svanì senza un motivo, lasciò solo due righe scritte a mano fra il centrotavola e il caffè “le storie d’amore devono finire finché ci amiamo davvero, perché solo così continueremo ad amarci per sempre”.

Cesare respira nella pioggia di Novembre, il sigaro cubano ormai è solo cenere, l’odore delle note al pianoforte si ostina a complicare l’aria del tramonto. Lui sorride con lo sguardo alla vallata, vede squarci di giornate ormai lontane, ma in fin dei conti, gli anni sono solo dei momenti. Tu sei sempre stata qui davanti.

Inizia a fare freddo lì in veranda, adesso è tempo di rientrare.

“Non piangere perché qualcosa si è conclusa, sorridi perché è successa” Gabriel G. Marquez.

Perchè ognuno ha la sua storia ed un ricordo suo soltanto. The Story – Brandi Carlile

Il fastidio e la speranza.

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Non amo molto le categorie, anzi non le amo per niente, ma a pensarci bene di una ne faccio parte. Quella dei rimasti.

Siamo strani, leggermente indecifrabili, altamente incompatibili con la realtà e per cercare di sopravvivere, quelli come noi, sono rimasti. Ad un certo punto ci siamo fermati, senza accorgercene siamo rimasti un passo indietro, magari è stata solo una frazione di secondo, magari è stata colpa di un sorriso avuto gratis, abbiamo iniziato a rallentare e alla fine siamo rimasti fermi. Mentre tutto il resto andava avanti senza di noi. Noi guardiamo in disparte quelli che cavalcano l’onda, con una frenesia che non ci appartiene.

Siamo quelli che vivono nei ricordi, li spolveriamo, li guardiamo rapiti, come se fossero le nostre opere d’arte, non li tocchiamo, ma li veneriamo come dèi pagani.
Sono quel tipo di ricordi che quando ci pensi senti di nuovo l’odore della pineta dopo un temporale, e sorridi, inspiri ancora e senti sui polpastrelli la pelle nuda della tua prima volta, ma non ti basta, dai, un altro respiro, ed ecco sul palato quella lingua che sapeva di Winston e caffè, dai, dai, ancora uno, l’ultimo, lo giuro, ancora uno e poi basta, respira, e arrivano le luci di una periferia che ti ha rubato trent’anni di vita, oltre al portafogli.

Lo so, adesso vorresti respirare ancora, ne hai bisogno come un tossico della sua dose, ma non è così che funziona, no, adesso è tempo di smettere di inalare aria e di aprire gli occhi. E non ti illudere, questa non è la parte più difficile, no, il difficile è rendersi conto che non c’è più nessuna pineta, nessun bacio, nessuna periferia. Ci sei solo tu, che ti sei fermato a ricordare, che sei rimasto indietro, che sei rimasto lì.
Come ti senti adesso? Ti senti imbrogliato, incazzato, fottuto, arrabbiato. Ed è adesso che devi decidere come fare la prossima mossa e non farti illusioni, non avrai possibilità di rimediare, sbaglia adesso e la partita è chiusa. Puoi trascinarti fino al giorno dopo sperando di avere un ricordo in più, così, succube, alla ricerca della tua dose di coca, o almeno di un po’ di metadone, lasciandoti vivere senza una cazzo di battaglia in cui farti valere. Oppure proiettarti verso il futuro, anche quando il pronostico di un sorriso sembra quasi impossibile.

Perchè è dura restare indietro, ma è ancora più dura muovere un passo. E noi che siamo rimasti lo sappiamo bene, conosciamo perfettamente quella sensazione di speranza e fastidio che ci assale quando qualcuno viene a prenderci a calci nel culo per farci muovere, si, speranza e fastidio, è sempre così, il fastidio di chi ci vuol far capire la differenza fra vivere e lasciarsi vivere. E la speranza che qualcuno noti la nostra assenza, che torni indietro e ci costringa a dimenticare qualcosa, che ogni tanto per muovere un passo è necessario dimenticare qualcosa. Anche se non ne abbiamo voglia.

Tutti quelli della mia categoria sono rimasti. Di solito è proprio un attimo preciso.
Il mio no, io mi sono fermato un giorno qualunque, di un anno qualunque, in un parco qualunque, alle 14:37, quando qualcuno mi disse “voglio solo che tu sia felice”.

È vero, c’è il fastidio, ma voi che siete avanti non ci fate caso, venite a prenderci, noi siamo lì, sempre lì, aggrappati alla sicurezza effimera dei nostri ricordi. Siamo ancora lì, sempre lì. Noi siamo quelli che sono rimasti.

“I ricordi veramente belli continuano a vivere e a splendere per sempre, pulsando dolorosamente insieme al tempo che passa.
Banana Yoshimoto

Per tutti quelli che ci aiutano a raggiungere il centro del labirinto.