I HAVE A DREAM.

“Cosa vuoi fare da grande?” quante volte ce lo siamo sentiti dire. Io avevo l’ansia di questa domanda, perché ero un bambino timido, decisamente, troppo timido e vivevo nel timore costante di essere inopportuno. La verità è che non lo sapevo cosa volevo fare da grande, ma mi affasciavano i mestieri alternativi, tipo lo spazzacamino, lo zampognaro, l’arrotino, cose così. E ogni volta che provavo a rispondere si creava sempre un imbarazzo palpabile fra i parenti. Perché diciamocelo, nessuno vuole un figlio o un nipote zampognaro.

Ero terrorizzato da quella domanda, incrociavo le dita e supplicavo il cielo che nessuno me la facesse, un po’ come faceva mia zia quando le chiedevano del fidanzato, lei che aveva trentadue anni ed era ancora zitella. Che essere zitella a trentadue annii negli anni settanta era peggio che essere mignotta.

E allora, per non deludere nessuno, i miei sogni li inventavo, lì sul momento. Dicevo di voler fare il cantante, il pilota, senza specificare di cosa, così, un pilota generico. Poi il calciatore, il medico, il rigattiere, cioè, che cazzo fa un rigattiere? Non si sa, ma io volevo farlo.

Poi sono cresciuto e anche i desideri della vita sono cambiati, sognavo l’amore, il divertimento, la frattura di tibia e perone della prof di latino. Sognavo il motorino, o almeno una bicicletta decente, sognavo….sognavo di andare allo stadio con mio padre e di tirare un rigore a Stefano Tacconi. E poi sono cresciuto ancora e man mano che crescevo il livello dei sogni si abbassava. Sognavo di pagare le rate del muto, della macchina, della bicicletta che finalmente era decente. Sognavo di andare in centro e trovare parcheggio, per dire. Anche a pagamento. Che lo vedi da lontano quel rettangolo dal perimetro blu, è vuoto, lo punti come Salvini punta le navi delle ONG, deve essere tuo, è un po’ stretto ma pazienza, fai settecento manovre, non ci pensi neanche per il cazzo di cercarne uno più largo, vuoi quello. Alla fine hai due braccia come Ivan Drago in Rocky IV, scendi e tutto sudato ti dirigi al parcometro che si trova più o meno a un chilometro e mezzo di distanza. Servono monete, trovi venti centesi per caso, puoi restare ventisette secondi, accetti, premi invio ma….per avere il tagliando devi inserire la targa. Ma non hai tempo di tornare alla macchina e leggerla e allora ti sforzi di ricordarla…”aspetta com’erà?…ah sì, gli anni di Cristo, seguiti dalla data di nascita del cane, poi…Genova Rosignano…no aspe’ forse era un’altra autostrada…ah sì, la Milano Bologna…no…” Puoi dimenticarti tutto, ma se parcheggi e dimentichi la targa è finita la vita!

Poi ho iniziato a sognare di avere ciò che vedevo in tv, ciò che sentivo alla radio, tutta una miriade di oggetti di cui ignoravo l’esistenza e soprattutto, di cui ignoravo la necessità di volere. E così ora sogno caldaie a condensazione, zanzariere oscuranti, pancere contenitive e assorbenti discreti per le perdite urinarie. Sogno tutto, copro tutti i target, dai prodotti per famiglia a quelli per anziani, dagli shampoo per la calvizie a quelli per la forfora. Sogno il montascale del vecchietto sorridente, a volte sogno di avere anche il vecchietto, poi però mi passa. Mi sono fatto crescere la barba solo per potere avere rasoi elettrici precisi e performanti, dopobarba rinfrescanti e lenitivi, uso talmente tanti prodotti che ho la barba cromata come i pomelli della porta del battistero, che poi ancora mi ci devo abituare e ogni tanto la mattina mi guardo allo specchio dicendo “e tu chi cazzo sei?”

Sogno cose che non avrò mai, la casa sulla spiaggia, la Tesla elettrica. Sogno di andare da Poltrone&Sofà e comprare un divano a prezzo pieno.

Sogno cose che non userò mai, gli attrezzi per fare ginnastica, il telefono che fa i video che neanche Tarantino per girare Kill Bill, lo sogno quel telefono, anche se quando mi faccio un selfie prendo mezza faccia. Sogno di avere la Manzotin che mi salta sul piatto dal frigo, anche se a me la carne in scatola fa vomitare, Sogno di avere sette decoder e vedere tutte le trasmissioni del mondo, anche se poi guardo solo Netflix. Sogno la visiera delle consolle, quella che ti fa vedere le immagini in 3D, il mio amico ce l’ha, una volta me la fece provare, nel frattempo entrò sua suocera e io le saltai al collo come un mastino napoletano perché ero convinto che fosse un fottuto alieno.

Sogno tutte queste cose, si chiamano “bisogni indotti”, cioè, ti convincono di aver bisogno di qualcosa e quel “qualcosa” ce l’hanno loro. – Loro chi? – Non lo so, loro, qualcuno che non sei tu, o io.

Con me questa tecnica funziona alla grande, riesco a desiderare tutto ciò che loro vogliono che io desideri. Ma non so più distinguere quali sono i sogni miei. Perché, a pensarci bene, di tutte queste cose posso farne tranquillamente a meno, ma non posso fare a meno dei sogni che avevo da ragazzo. Per questo ogni tanto sogno di stare su un palco con un microfono in mano, oppure seduto al posto di guida mentre corro in pista.
Da ragazzo le cose che sognavo davvero erano scrivere un libro e creare una famiglia felice, ma non in quest’ordine. Il libro alla fine l’ho scritto, l’altro sogno sto cercando di realizzarlo giorno per giorno, io ce la metto tutta, speriamo bene.

Il sabato viene sempre prima della domenica.

I giorni della settimana vanno via lisci. Sveglia alle sei, quaranta minuti per passare dalla tazza della colazione a quella del cesso, un’ora per arrivare sul posto di lavoro, rientro a casa per cena. Un saluto a mia figlia, che nel frattempo è cresciuta di due millimetri e mezzo, uno a mia moglie, che non è cresciuta in altezza ma in luminosità e l’ultimo saluto al cane, secondo componente di sesso maschile della famiglia, adottato con il chiaro scopo, mio, di pareggiare i conti e non essere più in minoranza. Dopo due mesi il tenero cucciolino aveva già capito come girava il mondo e mi ha trascinato dal veterinario sotto casa per farsi castrare.

Tutto questo si ripete in loop e mi sembra di essere Drew Barrymore in Cinquanta volte il primo bacio se non fosse che lei ha le tette. No, quelle le ho anch’io. Se non fosse che lei non ha la barb… no, neanche. Se non fosse che lei ha i capelli. Ecco.

Sembra tutto abbastanza ripetitivo ma poi arriva il sabato. E lì le sicure abitudini vengono sbaragliate. Il sabato mattina mia figlia va a scuola ma io non lavoro, quindi posso dormire di più. Cioè, potrei. Alle sette in punto suona la sveglia, teoricamente è per la fanciulla e la mamma, ma mi sveglio io. Qui iniziano i dilemmi. Se mi alzo per andare in bagno scatta la tagliola del «dato che sei in piedi la accompagni tu?». Non sono in piedi!, mi sto trascinando verso il bagno perché ho la vescica come una zampogna, ma il piano era di rimettermi a dormire. Di solito la mia coscienza mi morde forte e rispondo con un «certo tesoro, mi sono alzato per quello». Accompagnando la frase con un cazzotto virtuale allo spigolo della porta per sfogare l’amarezza, che tanto è buio e nessuno mi vede.

Oppure c’è il piano B: fingere spudoratamente di dormire. Qui apro una piccola parentesi.

Ogni tanto mi capita di andare a letto quando lei sta già dormendo. Sì bambini, dopo aver sfatato il mito di Babbo Natale è giunto il momento di darvi un’altra delusione: le mamme dormono! E se le svegliate si incazzano pure e nella loro semi incoscienza sono capaci di dire cose che a confronto Jack lo squartatore è il nonno di Heidi. Se vuoi sapere cosa pensa una donna di te falla ubriacare? È una stronzata pazzesca. Se vuoi sapere cosa pensa una donna di te svegliala nella fase rem. Quindi quando entro in camera, al buio, cerco di fare meno rumore possibile. Perché la verità mi farebbe male, lo so. In poche parole mi trasformo in un ibrido fra un ninja e un anticristo. Cammino in punta di piedi, livello di rumore tendente allo zero decibel, al secondo passo pesto la presa multipla del televisore, rumore esterno zero decibel, rumore dell’intima imprecazione diecimila decibel; poi è la volta di un classico, il mignolo contro lo spigolo del letto. Qui il rumore blasfemico deve essere un po’ più alto perché vibra leggermente la porta a vetri, faccio per entrare nel letto e do una testata al manubrio della cyclette. Ancora nessun suono esterno, stavolta non parte neanche l’imprecazione al divino perché perdo conoscenza. Ci addormentiamo così, io e il mio trauma cranico.

La situazione cambia quando il sabato mattina io fingo di dormire e loro si alzano. Sembra di stare al mercato rionale del pesce azzurro mentre passa la banda di paese con gli sbandieratori di Siena. Luci che si accendono e si spengono creando un mix tra San Siro e il Cocoricò, porte che sbattono, frasi lanciate per il corridoio tipo «hai preso la merendaaa?», «mamma che scarpe mi devo mettereee?», «uomo in mareeee». In mezzo a tutto questo ci sono io che ormai ho affinato la tecnica dell’opossum: mi fingo morto.

Il sabato mattina va via così, con me che giro per casa come se avessi l’hangover cronico fino all’ora in cui esco per andare a prendere mia figlia a scuola. Perché, i maschi alfa me ne daranno atto, il sabato mattina i padri vanno a prendere i figli a scuola. Senza se e senza ma.

E in quei quaranta metri quadri di cortile che ti separano dal sangue del tuo sangue le differenze fra uomini e donne emergono in tutta la loro magnificenza.

Le donne fanno gruppo, si scambiano opinioni, stringono alleanze. Nei cortili della scuola le donne decidono chi mandare al governo. E ci riescono.

Gli uomini no, noi ci salutiamo a malapena, abbiamo cose molto più importanti a cui pensare. Noi mandiamo culi nei gruppi whatsapp, ascoltiamo messaggi vocali a tutto volume perché ancora non abbiamo scoperto che se metti l’iphone all’orecchio puoi sentirlo solo tu senza rompere i coglioni a nessuno. Noi uomini interagiamo con altri simili, ma a distanza, come se guardare in faccia qualcuno mentre si parla ci inibisse. E allora rimaniamo lì con il nostro surrogato di vita in mano ad aspettare di essere risvegliati da una voce familiare che ci dice:

«Ciao babbo».

«Ciao tesoro, com’è andata a scuola?», diciamo, senza alzare lo sguardo dal telefono.

«Bene».

Perché va sempre bene. Cazzo, quando andavo a scuola io mi facevano un mazzo come un portaombrelli.

Arriviamo all’auto, i padri più compassionevoli portano lo zaino dei figli ma continuano a mandare messaggi whatsapp. Guidiamo fino a casa concentrati sulla strada, parcheggiamo, riprendiamo lo zaino, perché siamo persone di cuore e terminiamo la conversazione “culi n’aria”. Arriviamo in casa e nostra moglie ci guarda strano ma non ne capiamo il motivo. Poi vediamo nostra figlia che si manifesta nell’angolo buio della cucina. Qualcosa non torna, ci voltiamo verso la persona che ci ha accompagnato nel tragitto scuola-casa guardandola in faccia per la prima volta e tutto si fa chiaro. Ho varcato la porta d’ingresso tenendo per mano un dodicenne rumeno.

Ma tutto è bene quel che finisce bene, il pomeriggio del sabato fila via senza troppi sobbalzi, l’adolescente rumeno è stato riconsegnato ai legittimi genitori che in cambio mi hanno dato due forme di kashkaval, il nostro caciocavallo, ma rumeno. La domenica finisce prima di riuscire a dire apericena e in un attimo sono pronto a rientrare nei panni di Drew Barrymore, con qualche capello in meno.

Ogni tanto però mi sveglio in piena notte, mi siedo sul letto e sento i respiri della casa, quello di mia moglie vicino a me, di mia figlia nella stanza accanto, quello dell’eunuco quadrupede, non so neanche che giorno della settimana sia, non ha importanza, noi continueremo ad affrontare all’infinito il sabato mattina. Come se fosse il primo.

Tutta colpa della corteccia parietale.

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Parliamo di luoghi comuni. Wow che argomento originale. Tranquilli, non voglio assolutamente sfatarli, anche perchè sono quasi tutti veri, ma da uomo ci tenevo a sviscerarne alcuni che ci riguardano da vicino. Inizio a parlare al plurale perchè, se le amiche si vedono nel momento del bisogno (e infatti vanno al bagno in coppia), la solidarietà maschile serve a confortarci e a darci ragione l’un l’altro.

Noi uomini amiamo il calcio, le auto, le moto, la lotta, le costruzioni della Lego e i film di azione, si ok, anche film di “altro” genere, basta che ci sia movimento.

L’aspetto che ci differenzia maggiormente dalle donne è: il modo di comunicare!
Le donne comunicano tramite la parola, eh lo so, bella scoperta, raccontano cosa stanno vivendo, chiedendo consiglio, piangendo o sorridendo.
Noi uomini no. O almeno, non così tanto.
Non è che non proviamo emozioni e sentimenti, solo che non ci piace raccontarli. La maggior parte delle volte ci fan sentire esposti, indifesi, attaccabili.
La nostra corteccia parietale prende possesso del pensiero e noi non ci sentiamo a nostro agio a raccontarvi il nostro animo.
È allora che entra in ballo il calcio, l’auto e la Lego creator.
Noi ci esprimiamo così, è così che vi raccontiamo come stiamo. Può sembrare qualcosa di animale, forse anche sciocco, ma saremo così sempre, e si può solo accettare.

Se avremo voglia di stare con voi, di sentirvi parte di noi, non verremo a sederci sul divano raccontandovi quanto sia gioia per noi la vostra presenza, ma vi abbracceremo da dietro, o vi terremo la mano in strada.
A volte si pensa che noi uomini siamo chiusi, che abbiamo paura di esporci, che non abbiamo cuore.
Ricredetevi.
Ricredetevi perché, se imparerete a conoscerci, capirete che uomini e donne fanno la stessa cosa, solo si esprimono con linguaggi diversi. E mentre voi chiederete scusa noi laveremo magari i piatti a casa, o porteremo dei fiori, forse solo vi baceremo.
Mentre voi nella rabbia piangerete o urlerete noi prenderemo l’iphone e lo scaglieremo per terra mandandolo in frantumi, o saliremo in macchina guidando a centonovanta all’ora o a giocare a pallone con gli amici.

E se davanti ad un problema voi chiederete consigli alle amiche, noi andremo davanti alla nostra auto e ci sporcheremo le mani con l’olio del motore.
Certo, alcuni uomini parlano a parole più di altri, a seconda della sicurezza che hanno, ma se starete attente vi accorgerete che nei piatti lavati in silenzio, in quel calcio al pallone troppo forte perché entri in rete, quelle ore spese davanti ad un motore perfettamente funzionante armeggiando solo per sistemare ciò che è già sistemato, ci saranno le nostre scuse più sincere, tutta la foga della nostra rabbia, e l’ansia dei nostri problemi.
Vi svelo però un segreto.
Non chiedeteci mai come stiamo.
Non forzateci a raccontarvi nel dettaglio i tormenti della nostra anima e nei nostri pensieri.
Volete capirci?
Guardateci in quella partita di pallone, anche se magari il calcio non v’interessa. Asciugate i piatti che laveremo, e sapremo che avrete compreso le nostre scuse, chiedeteci come va il motore, e sapremo che ci siete accanto.
Alcune donne dicono che vorrebbero che i propri uomini le parlassero di più, raccontassero loro tutto ciò che sentono.
State attente a quello che desiderate, perché non lo volete davvero.
Sinceramente non volete davvero che il vostro amico, fratello, ragazzo o marito vi racconti qual è il suo tormento, cosa lo genera e come vorrà risolverlo. Non volete perché vi piace essere ascoltate, e noi uomini, se ci impegniamo, siamo anche bravi a farlo. Se fossimo noi quelli da ascoltare, se fossimo noi quelli che a volte han bisogno di piangere, i ruoli sarebbero invertiti, e a voi toccherebbe il calcio, la macchina e tutto il resto, e non lo volete davvero.

A volte serve un uomo per capire un uomo, non c’è altro da fare.
Voi stateci accanto, osservateci senza farci sentire sotto esame, e imparerete a comprenderci, a risponderci secondo il nostro linguaggio, noi ci impegneremo ad assumere il vostro e pian piano i linguaggi si mescoleranno, ma con calma.
Ogni cosa ha i suoi tempi.

A voi il compito di farci un solo, semplicissimo favore: accettare le nostre scuse come reali. Sappiamo, voi e noi, che non son vere, ma fingete di sì.
Vogliamo essere il principe, nella storia, nessuno spera di diventare il re.

Il mondo ai tempi dell’iphone

Non ce l’hai?, ma come?. ma ce l’hanno tutti…
Oggi se non hai Iphone sembri uno che va a giocare a rugby con le infradito, sei fuori dai giochi, additato come preistorico, non saprai mai il significato di termini tipo Whatsapp o viber, tiri fuori il tuo cellulare da 30 euro ed è come se in tasca avessi il telefono grigio a ruota della Sip, non condividi le foto non sei aggiornato sullo status sentimentale del tuo idraulico niente di niente, puoi solo chiamare e, se al massimo hai il modello paleolitico plus, mandare un messaggio di 5 caratteri.

Sei al supermercato, senti un segnale acustico e noti 47 persone che mettono la mano in tasca facendoti sentire come attore non protagonista di Gangster of New York e temi profondamente che che una chiamata vagante possa colpirti alla schiena. Solo dopo circa 25 minuti tutti i presenti realizzano che il jungle che si era udito era solo l’antitaccheggio.

Ma come facevamo 2 anni fa senza quest’arma di distruzione di massa…cerebrale, era una vita grigia e soprattutto silenziosa, ora suona, suona se ti arriva una mail, suona se la farfalla di Belen prende il raffreddore, suona se l’emiro del Kwait passa col rosso.
Poi incontri tua madre per strada e ti dice “ma che succede?, è 3 giorni che ti chiamo e non rispondi” e tu a le “si l’ho visto ma ero in chat con il maggiordomo di Obama che mi consigliava come sbloccare la coltivazione delle piante del cotone su Farmville”

Insomma, un tempo ormai lontano se non volevi rotture di scatole bastava spengnerlo, ora ti trovano anche se vai su Alfa Centauri.

Secondo me la soluzione ideale è…caxxo ve lo dico dopo mi è arrivata la notifica del compleanno dell’elfo maggiore di Babbo Natale, corro immediatamente a fargli gli auguri.