I BAMBINI VINCONO SEMPRE

Alcuni giorni fa mi sono ritrovato a parlare con un amico, padre di un bambino di quattro anni, sui vantaggi e le controindicazioni di far vincere i bambini quando giocano con gli adulti.

Ho realizzato che questo è un tema spinoso e può portare a conseguenze disastrose. Se lasci vincere deliberatamente un bambino rischi di farlo diventare un egocentrico, uno di quegli adulti boriosi, con manie di onnipotenza, convinti di essere sempre dalla parte del giusto, che spesso risultano insopportabili e grotteschi. Il padre di Salvini pare che lasciasse sempre vincere il piccolo Matteo a rubamazzo, per dire.

Dall’altra parte c’è il gruppo dei genitori incorruttibili, quelli che competono con i propri figli come Nadal alla finale di Wimbledon. Sposano la teoria che i bambini devono capire fin da subito come gira la giostra della vita, che nessuno ti lascerà primeggiare e che dovranno imparare subito a guadagnarsi il successo. Magari poi i figli diventeranno degli insicuri frustrati e voteranno a sinistra, ma questa è un’altra storia.

La verità è che ai bambini non gliene frega niente di vincere o perdere, a loro interessa solo partecipare. E poi, diciamocelo, i bambini vincono sempre.

I bambini vincono sempre perché sono degli inguaribili ottimisti, non importa se mezzo pieno o mezzo vuoto, l’importante è che ci sia un bicchiere.
I bambini vincono sempre perché si alleano fra di loro, si inventano le regole, se la cantano e se la suonano. vincono sempre perché sanno stare insieme.
I bambini vincono sempre perché…”il pallone è mio, ma se giochiamo in due è più divertente”
I bambini vincono sempre perché vedono i colori ma sono daltonici nei pregiudizi, perché fanno le squadre a seconda del colore della maglia e non della pelle.
I bambini vincono sempre perché anche se una battuta fa cagare loro ridono, non la capiscono ma ridono, perché hanno voglia di partecipare.
I bambini vincono sempre perché hanno ancora il senso della giustizia, perché se qualcuno fa un torto a un mio amico lo fa anche a me. Vincono sempre perché sono felici se qualcuno è felice e se provi a spiegare loro il concetta di ipocrisia ti guardano come Toninelli guarda una divisione a due cifre.

I bambini vincono sempre perché le regole del loro mondo le scelgono insieme, non hanno bisogno di scegliere qualcuno che decida per loro.
I bambini vincono sempre perché gli sbagli che fanno li rendono migliori.

I bambini vincono sempre perché si sforzano di ricordare, tutto, le gioie e i dolori. Perché è difficilissimo evitare di commettere gli stessi errori, ma se conserviamo un po’ di memoria, forse, ci salveremo. Eventualmente chiediamo ai bambini, che loro, in qualche modo, vincono sempre.

Egan il matto.

Maledizione, avrei voluto dormire ancora un po’. Invece eccomi qua, approdato in un’altra giornata con nessun impegno da affrontare. Niente di niente, solo stare qui ad osservare, controllare che tutto si svolga secondo i piani. Un giorno come gli altri, fotocopiato e messo lì ad occupare spazio. Con la solita pioggia leggera a battere contro i vetri della finestra in finto stile inglese.

Non resta che stare qui ad aspettare qualche persona nuova che sale su per la collina a soddisfare la propria curiosità. Con quella faccia da topo invadente, tutti uguali, hanno tutti lo stesso viso. Quelli che percorrono la Wild Atlantic way andrebbero sterminati con processi sommari. Tutti uguali. Curiosi in modo irritante. Tutti con la stessa identica domanda, tutti quanti. “Perché ha deciso di vivere qui?” E lo chiedono con lo stesso tono di quando si chiede “Come stai”, giusto per far prendere aria alla bocca, fregandosene palesemente della risposta. I più audaci aggiungono un “beato lei” nel mezzo di un sospiro. Tutti uguali. Strozzatevi con le vostre domande inutili. Riprendete quella maledetta strada e portate il vostro culo piatto come il Benn Gulbain a vedere qualche stronzata inglese, che quando sarete a casa sul vostro divano in alcantara di questo sputo d’Irlanda non vi ricorderete neanche il nome.

Vivo qui da quando persi la memoria. Egan il matto, così mi chiamano. Era il giorno di San Patrizio, così mi hanno detto. Probabilmente non è neanche vero che fosse quel giorno lì, semplicemente dovevano sceglierne uno e hanno scelto quello. Giusto per dare una data precisa ad un ricordo. Il giorno in cui Eveline si alzò in volo dimenticandosi di aprire le ali. Che la vidi, bella come un temporale, lasciarsi alle spalle Fanad Head e abbracciare l’Atlantico. Stringerlo forte, tutto quando. Ditemi voi come si fa a non perdere la ragione davanti ad una meraviglia come quella.

Da allora vivo qui, guardando tutti gli anni del mondo da una finestra in finto stile inglese, con un oceano sotto i piedi a custodire stupori. Sul bordo di questa baia ingannevole, che attirava navi, ammaliante e lasciva, con l’anima di serpente. Resto qui. E ascolto. E le sento le storie dei marinai, raccolti sottocoperta a sputare tabacco e bere vino. Sento le preghiere delle donne, pronte a scambiare un giuramento al Padreterno pur di vederli tornare senza troppi graffi nel destino. Sento le promesse degli amanti, quelle proclamate sotto un cielo di marzo, che durano una vita o una stagione. Quelle che quando ci ripensi si scaldano le mani e i respiri. Sento le bestemmie delle balere che si affacciano sul porto, le sottane delle donne che barattano spiccioli con effimeri piaceri, sento il profumo di tutte le città di mare, tutte quante, quell’odore rugginoso di speranze e boccaporti, di gasolio e letti sfatti.

Vivo qui, perché è come se ogni esistenza approdasse su questa scogliera. Vivo qui perché da qui si vede l’anima del mondo, ogni vostro sussulto di vita. E’ così che deve sentirsi Dio quando si ferma a prendere fiato.

Ogni giorno, un attimo prima della fine di un tramonto, scendo queste scale, faccio i trentaquattro passi che mi dividono dalla fine della terra, guardo tutta quell’immensità, apro le braccia come un crocifisso, chiudo gli occhi, il respiro rallentato e aspetto. Aspetto finché non sento il bacio di Eveline. Le sue mani intorno al viso e la sua voce come una ballata di fine settembre a dirmi “Non sei ancora pronto per volare. A domani amore mio”. Una voce così, bella come un temporale.

Ogni giorno, un attimo dopo la fine di un tramonto, apro gli occhi e resto così, con l’Atlantico sotto piedi e il faro di Fanad Head, con la sua finestra in stile finto inglese a vegliare sopra i sogni.

In punto.

Ogni domenica mattina, alle dieci e trentasette, in punto, Marco oltrepassa la soglia del Caffè de Vitis. Lo fa sempre, da almeno cinque anni. Solo la domenica.
Lo fa con una precisione impressionante, al punto che non si capisce se sia lui a rincorrere le lancette dell’orologio o siano loro che, attendono di vederlo entrare dalla porta a vetri. Come se rallentassero la corsa non per dargli modo di essere puntuale. I secondi non sono più secondi e basta, si trascinano dietro la zavorra di qualche centesimo in eccesso, che tanto nessuno ci fa caso. Il minuto che precede l’arrivo di Marco è sempre un soffio più lungo, millesimi di secondo, niente di preoccupante, ma sommandoli insieme il risultato è destabilizzante: in questi cinque anni, il mondo intero è stato derubato di quasi tre secondi. Un’eternità.

A pensarci bene lo scenario potrebbe risultare inquietante. Ogni giorno, mese, anno, Natale, capodanno, feste laiche e pagane, tutto ciò che è accaduto negli ultimi cinque anni, qualsiasi cosa, è iniziata e conclusa in ritardo. L’unico vero, indiscutibile, imperdonabile colpevole di questa catastrofe è Marco.

In realtà quasi nessuno ha percepito l’immane tragedia, le persone là fuori hanno continuato a scivolare sulla vita, come sempre. Quasi tutti, dicevo, il maestro Giuliani no.

Ogni domenica mattina, alle dieci e trentasette, in punto, o quasi, Marco oltrepassa la soglia del Caffè de Vitis. Ogni domenica mattina, alle dieci e trentasette e due millesimi, il maestro Piero Giuliani smette per una fazione di secondo di guardare Dio solo sa dove, si volta verso la porta d’ingresso, trattiene un attimo il respiro e a bassa voce pronuncia, sempre, queste testuali parole:

– Sciagurato, di questo passo la fine del mondo arriverà con mezzo minuto di ritardo. Incosciente

Diceva così. Sempre. Nonostante non avesse mai avuto un orologio, una clessidra o qualsiasi altro strumento capace di misurare lo scorrere del tempo. Lui il tempo lo percepiva guardando la vita. E non sbagliava mai, neanche di un millesimo di secondo. Mai.

Si conoscevano da diverso tempo, Marco e il maestro, o meglio, Piero Giuliani conosceva la vita di Marco, ne era custode di ogni singolo segreto, possedeva tutti i dettagli necessari per disegnarne il mosaico completo. Non si poteva dire altrettanto di Marco.

Lui si limitava a decodificare le espressioni del maestro, aveva imparato a distinguere i momenti di estasi da quelli di rabbia, la gioia dalla noia, la veglia dal sonno profondo. Ci riusciva perfettamente, non si sa come, visto che il maestro aveva sempre quell’unica espressione. Immobile, con lo sguardo perso Dio solo sa dove.

Marco e Piero Giuliani si incontravano tutti i giorni della settimana, feste comandate comprese, a casa del secondo, perché il maestro aveva un posto in cui passare la notte. Anche se si faceva fatica a crederlo. Non dormiva, lui faceva trascorrere la notte.

Quelle due giornate non avevano un canovaccio prestabilito, i protagonisti improvvisavano sul momento il loro spettacolo, non di rado quei pomeriggi trascorrevano senza che nessuno di quei due personaggi strampalati e magnifici aprisse bocca. Nessun suono, nessuna parola, nessun gesto, nessuna nota, niente di niente. Talvolta seduti uno di fronte all’altro, ai due estremi di un tavolo, ma se fossero stati ai due lati dell’universo conosciuto il risultato sarebbe stato identico. Come se avessero un sogno condiviso. Un sogno per entrambi incompleto. 

Altre volte invece allineavano le due sedie di legno verniciate di verde con la seduta impagliata e guardavano nella stessa identica direzione. Così, come statue di cera, quasi senza respirare. Marco osservava il Caffè de Vitis oltre la finestra, si perdeva ad immaginare la vita degli altri. Piero Giuliani continuava imperterrito a guardare con forza l’unico scenario che conosceva. Il mare aperto.

Alle diciotto e trentasette, in punto, il ragazzo si alzava, dava un’occhiata veloce a quella stanza priva di orologi o di qualsiasi altro strumento creato dal genere umano per misurare il tempo, giusto un giro con gli occhi, come a verificare che niente fosse svanito durante quelle ore lente. Poi, senza che gli balenasse nella mente l’idea di pronunciare una parola, se ne andava. Non importava cosa stesse facendo l’attimo prima, fosse stato anche sul punto di dimostrare scientificamente l’esistenza di Dio, come scattavano le diciotto e trentasette, smetteva di botto di parlare o di fare qualsiasi altra attività e se ne andava. Non un saluto, una scusa banale, niente di niente. Si alzava di scatto e usciva. Senza peraltro dare la certezza di un ritorno. Perché certi abbandoni devono essere solenni, hanno regole precise e orari precisi, che se sgarri anche solo di un secondo rischi davvero di non farli mai più.

Certi abbandoni sono così: hanno il dovere di essere netti.

Tutti hanno qualche segreto da raccontare, i più fortunati ne hanno a centinaia, per tutti gli altri il numero si riduce a poche unità. Marco ne aveva uno solo. E neanche lo sapeva.

In realtà non era neanche un vero e proprio segreto. Il segreto è qualcosa che sai solo tu ed è sconosciuto al resto del mondo. Nel caso di Marco era esattamente l’opposto. Il resto del mondo sapeva e l’ignaro era lui. Una sorta di segreto rovesciato, come se tutti conoscessero la soluzione di un quesito tranne colui che l’ha posto. Un paradosso, un assurdo cosmico, che peraltro si incastrava perfettamente nella vita improvvisata di Marco.

Un sonnambulo. Semplicemente questo. Ma non uno di quei sonnambuli che si alzano di notte dal letto e vanno in cucina ad aprire la porta del frigo. No, lui di notte dormiva sereno, niente stranezze e al suono della sveglia faceva la sua vita regolare. Tutto normale, solo si dimenticava di svegliarsi.

Ci sono persone che passano un’esistenza intera a rimpiangere i propri sogni, lui li viveva, in diretta. Ma non lo sapeva. Esiste maledizione più grande?

A guardarlo così non lo avresti mai detto che stesse dormendo, in effetti faceva le cose che facciamo tutti noi, molte addirittura meglio di noi. Dormiva, ma nonostante questo riusciva a misurare il tempo con invidiabile precisione. Ore sette e ventuno colazione, sette e quarantaquattro esce per andare in ufficio, quindici minuti dopo è seduto davanti al pc, nove e trentuno pausa, nove e trentasette oltrepassa la soglia del caffè de Vitis, nove e quarantasei rientra in ufficio, esce alle dodici e trentanove, sette minuti per raggiungere il divano di casa a piedi, mezz’ora di relax totale, non un minuto di più, alle tredici e sedici mette a bollire l’acqua per la pasta, otto minuti e si siede a tavola per il pranzo, in dodici minuti mangia, sparecchia e sistema le stoglie, poi un’ora e ventidue spalmato sul divano a guardare la televisione, due minuti per lavarsi i denti e darsi una sistemata e alle quindici in punto esce di casa per andare dal maestro Giuliani. Alle quindici. In punto. otto minuti a piedi per arrivare davanti al portone, suona il campanello, tre minuti per salire le scale ed alle quindici e undici minuti si materializza davanti a Piero Giuliani. Alle quindici e undici. In punto. Passa le tre ore e ventisette minuti seguenti in quell’appartamento, insieme a quell’uomo pieno di misteri e di tramonti. Alle diciotto e trentasette, in punto, il ragazzo si alza, dà un’occhiata veloce a quella stanza priva di orologi o di qualsiasi altro strumento creato dal genere umano per misurare il tempo, giusto un giro con gli occhi, come a verificare che niente fosse svanito durante quelle ore lente. Poi, senza che gli possa passare nella mente l’idea di pronunciare una parola, se ne va. Non ha importanza cosa stesse facendo l’attimo prima, fosse stato anche sul punto di dimostrare scientificamente l’esistenza di Dio, come scattano le diciotto e trentasette, smette di botto di parlare o di fare qualsiasi altra attività e se ne va. Non un saluto, una scusa banale, niente di niente. Si alza, di scatto, ed esce. Senza peraltro dare la certezza di un ritorno. Perché certi abbandoni devono essere solenni, hanno regole precise e orari precisi, che se sgarri anche solo di un secondo rischi davvero di non farli mai più.

Tre minuti per scendere le scale e undici per fare ritorno a casa, undici minuti, tre in più rispetto all’andata, perché a quell’ora la città ha qualcosa di sottile, un fremito quasi sfuggente, come se dovesse accadere qualcosa che cambierà il corso degli eventi. E allora vale la pena rallentare il passo, non si sa mai. Anche se non accadrà niente, rallenta il passo, perché vale la pena sperarci. Ne vale la pena davvero.

Alle diciotto e cinquantuno varca la soglia di casa, si siede sul divano, sintonizza il televisore sul quiz preserale e si fa prendere dal gioco, sfida i concorrenti, si incazza quando sbaglia le risposte, esulta quando vince la sfida finale. Alle venti e zero otto inizia a preparare la cena, a volte pollo, altre volte ordina una pizza, stasera passato di verdure, poi sistema la cucina, guarda un film o legge un libro o scrive o semplicemente si annoia, sono le ventidue e trentotto, in punto, quando decide che per oggi può bastare così ed entra nel letto. La domenica il rituale si ripete, soltanto traslato avanti di un’ora, nonostante l’azienda di informatica per la quale lavora sia chiusa, lui ha le chiavi e ne approfitta per lavorare un po’ al pc e portare a termine alcune pratiche lasciate in sospeso.

Ecco, questa è la settimana di Marco, niente di eclatante, conduce una vita normale, una delle tante vite lineari, precise, scandite. Fa cose, come tutti, solo che lui le fa dormendo. Da tutta una vita. In punto.

Ne aveva fatte di visite Marco, dall’età di sei anni, in giro da un ospedale all’altro, da un medico all’altro, sua madre lo amava anche così, suo padre non se ne faceva una ragione. Lei gli rimase accanto fino alla fine dei suoi giorni, suo padre scelse di vivere e un giorno svanì nel nulla.

“Cose che capitano”, si ripeteva, anche se in realtà non ne comprendeva il motivo, perché lui non aveva coscienza del suo stato. Voglio dire, era una vita che continuava a dormire ma non lo sapeva. Per Marco la vita era quella, faceva le stesse identiche cose di tutti gli altri, che ne sapeva di come ci si sente ad essere svegli, lui che non riusciva a staccarsi dai suoi sogni.

Solo una volta ebbe un barlume di risveglio, il giorno che stava per innamorarsi di una donna. Ecco, quello fu l’unico momento in cui rischiò veramente di fare il salto nel mondo reale. Durò un attimo soltanto, uno di quelli che si portano l’infinito dentro. Lui la sfiorò appena, lei si allontanò di qualche passo. Non si incontrarono mai più. Perché certi brividi hanno le pareti di vapore, se provi a toccarli ti rimane solo il fumo fra le dita.

C’erano dei vuoti nella memoria di Marco, d’altronde vivere perennemente in quello stato di coscienza apparente comportava inevitabili conseguenze. I vuoti di memoria erano una di queste.

Sapeva di essere nato in un’altra città, di averci vissuto per diversi anni, ma non aveva la minima idea di come fosse arrivato a Marcien. Nessun indizio di un viaggio, di saluti, di abbracci, niente di niente. L’attimo prima sul divano di casa, l’attimo dopo a Marcien. Così.

Vive così, sembra sempre altrove, come quando facciamo qualcosa ma pensiamo a tutt’altro, ecco, Marco è così, apparentemente distratto, in realtà è semplicemente alla ricerca di un tassello. Un particolare nascosto chissà dove che sia in grado di spiegare quella strana sensazione che gli infastidisce il respiro. E quando parla lo fa lentamente, come se scegliesse le parole, come se le sillabe da pronunciare provenissero da lontano costringendolo a prolungare la durata delle vocali per ingannare l’attesa.

Marco ti guarda, con quegli occhi velati, con addosso più vita di quanta tu ne vedrai mai. Guarda te, ma forse vede altro, verità diverse, forse irreali, forse giustissime. E allora chi sei tu per svegliarlo, che diritto hai di trascinarlo nella tua realtà. Gli prendi le mani e ti viene voglia di abbracciarlo, forte, perché come fai a non voler bene ad una persona così. Lui ti stringe i polsi, ti invita a chiudere gli occhi dicendo “vieni a sognare con me”. E tu lo fai, ti abbandoni, lo segui e ti assicuri che continui a dormire. Perché come fai a non voler bene ad una persona così.

 

Alla fine ho ceduto. 158509 Enzo Camerino

Mi ero ripromesso di non scrivere nessun post sulla giornata di oggi, dedicata ai diritti umani, la giornata della memoria, per ricordare le stragi naziste e i campi di sterminio.
Non mi andava proprio, non per insulse idee politiche, ma semplicemente perchè spesso queste sono occasioni per dar sfogo a tutte le ipocrisie possibili. Un pò come andare nei cimiteri il due novembre. E solo quel giorno li, perchè la tradizione ce lo impone.

Poi è accaduta una cosa che ancora non riesco a spiegarmi bene, o forse semplicemente non ha bisogno di essere spiegata.
Ho guardato, come spesso accade, distrattamente il telegiornale su La7, sentivo in sottofondo la voce picchiettante di Mentana ma non ascoltavo ciò che diceva. Fino a quando, alla fine ha presentato un ospite. Enzo Camerino. Onestamente non sapevo chi fosse quel signore anziano che mi guardava con gli occhi scintillanti, finchè Mentana non gli ha chiesto di mostrare il braccio.
In quel numero tatuato ho letto tutto l’orrore e l’umiliazione che un essere umano può provare per mano dei suoi simili.
Come ho detto all’inizio, è una cosa che non riesco a spiegarmi bene, ma mentre parlava ho percepito le sue sofferenze. Un’onda che mi è arrivata all’anima e l’ha presa a schiaffi. Non era un film o un documentario, era un uomo reale che mostrava al mondo il grado di abominio che può raggiungere l’animo umano.

Lo so benissimo che è difficile non cadere nella retorica parlando di questi argomenti, ma in quelle parole c’era racchiuso tutto. La paura, la sofferenza fisica e quella psicologica, la morte, l’odio, l’umiliazione profonda. Chi le pronunciava non cercava compassione, cercava solamente di fare in modo che ciò che aveva visto e vissuto non fosse stato vano, che non venisse perduto.

Ho iniziato a piangere per la rabbia e lo sdegno per i patimenti e per tutti gli Enzo Camerino che non ce l’hanno fatta. Per la più grande delle torture: la privazione della dignità.

Dopo ho spento il televisore perchè ascoltare illustri membri dell’attuale classe dirigente disquisire sulle disgrazie giudiziarie di un puttaniere ottantenne, mi pareva fuori luogo.