In punto.

Ogni domenica mattina, alle dieci e trentasette, in punto, Marco oltrepassa la soglia del Caffè de Vitis. Lo fa sempre, da almeno cinque anni. Solo la domenica.
Lo fa con una precisione impressionante, al punto che non si capisce se sia lui a rincorrere le lancette dell’orologio o siano loro che, attendono di vederlo entrare dalla porta a vetri. Come se rallentassero la corsa non per dargli modo di essere puntuale. I secondi non sono più secondi e basta, si trascinano dietro la zavorra di qualche centesimo in eccesso, che tanto nessuno ci fa caso. Il minuto che precede l’arrivo di Marco è sempre un soffio più lungo, millesimi di secondo, niente di preoccupante, ma sommandoli insieme il risultato è destabilizzante: in questi cinque anni, il mondo intero è stato derubato di quasi tre secondi. Un’eternità.

A pensarci bene lo scenario potrebbe risultare inquietante. Ogni giorno, mese, anno, Natale, capodanno, feste laiche e pagane, tutto ciò che è accaduto negli ultimi cinque anni, qualsiasi cosa, è iniziata e conclusa in ritardo. L’unico vero, indiscutibile, imperdonabile colpevole di questa catastrofe è Marco.

In realtà quasi nessuno ha percepito l’immane tragedia, le persone là fuori hanno continuato a scivolare sulla vita, come sempre. Quasi tutti, dicevo, il maestro Giuliani no.

Ogni domenica mattina, alle dieci e trentasette, in punto, o quasi, Marco oltrepassa la soglia del Caffè de Vitis. Ogni domenica mattina, alle dieci e trentasette e due millesimi, il maestro Piero Giuliani smette per una fazione di secondo di guardare Dio solo sa dove, si volta verso la porta d’ingresso, trattiene un attimo il respiro e a bassa voce pronuncia, sempre, queste testuali parole:

– Sciagurato, di questo passo la fine del mondo arriverà con mezzo minuto di ritardo. Incosciente

Diceva così. Sempre. Nonostante non avesse mai avuto un orologio, una clessidra o qualsiasi altro strumento capace di misurare lo scorrere del tempo. Lui il tempo lo percepiva guardando la vita. E non sbagliava mai, neanche di un millesimo di secondo. Mai.

Si conoscevano da diverso tempo, Marco e il maestro, o meglio, Piero Giuliani conosceva la vita di Marco, ne era custode di ogni singolo segreto, possedeva tutti i dettagli necessari per disegnarne il mosaico completo. Non si poteva dire altrettanto di Marco.

Lui si limitava a decodificare le espressioni del maestro, aveva imparato a distinguere i momenti di estasi da quelli di rabbia, la gioia dalla noia, la veglia dal sonno profondo. Ci riusciva perfettamente, non si sa come, visto che il maestro aveva sempre quell’unica espressione. Immobile, con lo sguardo perso Dio solo sa dove.

Marco e Piero Giuliani si incontravano tutti i giorni della settimana, feste comandate comprese, a casa del secondo, perché il maestro aveva un posto in cui passare la notte. Anche se si faceva fatica a crederlo. Non dormiva, lui faceva trascorrere la notte.

Quelle due giornate non avevano un canovaccio prestabilito, i protagonisti improvvisavano sul momento il loro spettacolo, non di rado quei pomeriggi trascorrevano senza che nessuno di quei due personaggi strampalati e magnifici aprisse bocca. Nessun suono, nessuna parola, nessun gesto, nessuna nota, niente di niente. Talvolta seduti uno di fronte all’altro, ai due estremi di un tavolo, ma se fossero stati ai due lati dell’universo conosciuto il risultato sarebbe stato identico. Come se avessero un sogno condiviso. Un sogno per entrambi incompleto. 

Altre volte invece allineavano le due sedie di legno verniciate di verde con la seduta impagliata e guardavano nella stessa identica direzione. Così, come statue di cera, quasi senza respirare. Marco osservava il Caffè de Vitis oltre la finestra, si perdeva ad immaginare la vita degli altri. Piero Giuliani continuava imperterrito a guardare con forza l’unico scenario che conosceva. Il mare aperto.

Alle diciotto e trentasette, in punto, il ragazzo si alzava, dava un’occhiata veloce a quella stanza priva di orologi o di qualsiasi altro strumento creato dal genere umano per misurare il tempo, giusto un giro con gli occhi, come a verificare che niente fosse svanito durante quelle ore lente. Poi, senza che gli balenasse nella mente l’idea di pronunciare una parola, se ne andava. Non importava cosa stesse facendo l’attimo prima, fosse stato anche sul punto di dimostrare scientificamente l’esistenza di Dio, come scattavano le diciotto e trentasette, smetteva di botto di parlare o di fare qualsiasi altra attività e se ne andava. Non un saluto, una scusa banale, niente di niente. Si alzava di scatto e usciva. Senza peraltro dare la certezza di un ritorno. Perché certi abbandoni devono essere solenni, hanno regole precise e orari precisi, che se sgarri anche solo di un secondo rischi davvero di non farli mai più.

Certi abbandoni sono così: hanno il dovere di essere netti.

Tutti hanno qualche segreto da raccontare, i più fortunati ne hanno a centinaia, per tutti gli altri il numero si riduce a poche unità. Marco ne aveva uno solo. E neanche lo sapeva.

In realtà non era neanche un vero e proprio segreto. Il segreto è qualcosa che sai solo tu ed è sconosciuto al resto del mondo. Nel caso di Marco era esattamente l’opposto. Il resto del mondo sapeva e l’ignaro era lui. Una sorta di segreto rovesciato, come se tutti conoscessero la soluzione di un quesito tranne colui che l’ha posto. Un paradosso, un assurdo cosmico, che peraltro si incastrava perfettamente nella vita improvvisata di Marco.

Un sonnambulo. Semplicemente questo. Ma non uno di quei sonnambuli che si alzano di notte dal letto e vanno in cucina ad aprire la porta del frigo. No, lui di notte dormiva sereno, niente stranezze e al suono della sveglia faceva la sua vita regolare. Tutto normale, solo si dimenticava di svegliarsi.

Ci sono persone che passano un’esistenza intera a rimpiangere i propri sogni, lui li viveva, in diretta. Ma non lo sapeva. Esiste maledizione più grande?

A guardarlo così non lo avresti mai detto che stesse dormendo, in effetti faceva le cose che facciamo tutti noi, molte addirittura meglio di noi. Dormiva, ma nonostante questo riusciva a misurare il tempo con invidiabile precisione. Ore sette e ventuno colazione, sette e quarantaquattro esce per andare in ufficio, quindici minuti dopo è seduto davanti al pc, nove e trentuno pausa, nove e trentasette oltrepassa la soglia del caffè de Vitis, nove e quarantasei rientra in ufficio, esce alle dodici e trentanove, sette minuti per raggiungere il divano di casa a piedi, mezz’ora di relax totale, non un minuto di più, alle tredici e sedici mette a bollire l’acqua per la pasta, otto minuti e si siede a tavola per il pranzo, in dodici minuti mangia, sparecchia e sistema le stoglie, poi un’ora e ventidue spalmato sul divano a guardare la televisione, due minuti per lavarsi i denti e darsi una sistemata e alle quindici in punto esce di casa per andare dal maestro Giuliani. Alle quindici. In punto. otto minuti a piedi per arrivare davanti al portone, suona il campanello, tre minuti per salire le scale ed alle quindici e undici minuti si materializza davanti a Piero Giuliani. Alle quindici e undici. In punto. Passa le tre ore e ventisette minuti seguenti in quell’appartamento, insieme a quell’uomo pieno di misteri e di tramonti. Alle diciotto e trentasette, in punto, il ragazzo si alza, dà un’occhiata veloce a quella stanza priva di orologi o di qualsiasi altro strumento creato dal genere umano per misurare il tempo, giusto un giro con gli occhi, come a verificare che niente fosse svanito durante quelle ore lente. Poi, senza che gli possa passare nella mente l’idea di pronunciare una parola, se ne va. Non ha importanza cosa stesse facendo l’attimo prima, fosse stato anche sul punto di dimostrare scientificamente l’esistenza di Dio, come scattano le diciotto e trentasette, smette di botto di parlare o di fare qualsiasi altra attività e se ne va. Non un saluto, una scusa banale, niente di niente. Si alza, di scatto, ed esce. Senza peraltro dare la certezza di un ritorno. Perché certi abbandoni devono essere solenni, hanno regole precise e orari precisi, che se sgarri anche solo di un secondo rischi davvero di non farli mai più.

Tre minuti per scendere le scale e undici per fare ritorno a casa, undici minuti, tre in più rispetto all’andata, perché a quell’ora la città ha qualcosa di sottile, un fremito quasi sfuggente, come se dovesse accadere qualcosa che cambierà il corso degli eventi. E allora vale la pena rallentare il passo, non si sa mai. Anche se non accadrà niente, rallenta il passo, perché vale la pena sperarci. Ne vale la pena davvero.

Alle diciotto e cinquantuno varca la soglia di casa, si siede sul divano, sintonizza il televisore sul quiz preserale e si fa prendere dal gioco, sfida i concorrenti, si incazza quando sbaglia le risposte, esulta quando vince la sfida finale. Alle venti e zero otto inizia a preparare la cena, a volte pollo, altre volte ordina una pizza, stasera passato di verdure, poi sistema la cucina, guarda un film o legge un libro o scrive o semplicemente si annoia, sono le ventidue e trentotto, in punto, quando decide che per oggi può bastare così ed entra nel letto. La domenica il rituale si ripete, soltanto traslato avanti di un’ora, nonostante l’azienda di informatica per la quale lavora sia chiusa, lui ha le chiavi e ne approfitta per lavorare un po’ al pc e portare a termine alcune pratiche lasciate in sospeso.

Ecco, questa è la settimana di Marco, niente di eclatante, conduce una vita normale, una delle tante vite lineari, precise, scandite. Fa cose, come tutti, solo che lui le fa dormendo. Da tutta una vita. In punto.

Ne aveva fatte di visite Marco, dall’età di sei anni, in giro da un ospedale all’altro, da un medico all’altro, sua madre lo amava anche così, suo padre non se ne faceva una ragione. Lei gli rimase accanto fino alla fine dei suoi giorni, suo padre scelse di vivere e un giorno svanì nel nulla.

“Cose che capitano”, si ripeteva, anche se in realtà non ne comprendeva il motivo, perché lui non aveva coscienza del suo stato. Voglio dire, era una vita che continuava a dormire ma non lo sapeva. Per Marco la vita era quella, faceva le stesse identiche cose di tutti gli altri, che ne sapeva di come ci si sente ad essere svegli, lui che non riusciva a staccarsi dai suoi sogni.

Solo una volta ebbe un barlume di risveglio, il giorno che stava per innamorarsi di una donna. Ecco, quello fu l’unico momento in cui rischiò veramente di fare il salto nel mondo reale. Durò un attimo soltanto, uno di quelli che si portano l’infinito dentro. Lui la sfiorò appena, lei si allontanò di qualche passo. Non si incontrarono mai più. Perché certi brividi hanno le pareti di vapore, se provi a toccarli ti rimane solo il fumo fra le dita.

C’erano dei vuoti nella memoria di Marco, d’altronde vivere perennemente in quello stato di coscienza apparente comportava inevitabili conseguenze. I vuoti di memoria erano una di queste.

Sapeva di essere nato in un’altra città, di averci vissuto per diversi anni, ma non aveva la minima idea di come fosse arrivato a Marcien. Nessun indizio di un viaggio, di saluti, di abbracci, niente di niente. L’attimo prima sul divano di casa, l’attimo dopo a Marcien. Così.

Vive così, sembra sempre altrove, come quando facciamo qualcosa ma pensiamo a tutt’altro, ecco, Marco è così, apparentemente distratto, in realtà è semplicemente alla ricerca di un tassello. Un particolare nascosto chissà dove che sia in grado di spiegare quella strana sensazione che gli infastidisce il respiro. E quando parla lo fa lentamente, come se scegliesse le parole, come se le sillabe da pronunciare provenissero da lontano costringendolo a prolungare la durata delle vocali per ingannare l’attesa.

Marco ti guarda, con quegli occhi velati, con addosso più vita di quanta tu ne vedrai mai. Guarda te, ma forse vede altro, verità diverse, forse irreali, forse giustissime. E allora chi sei tu per svegliarlo, che diritto hai di trascinarlo nella tua realtà. Gli prendi le mani e ti viene voglia di abbracciarlo, forte, perché come fai a non voler bene ad una persona così. Lui ti stringe i polsi, ti invita a chiudere gli occhi dicendo “vieni a sognare con me”. E tu lo fai, ti abbandoni, lo segui e ti assicuri che continui a dormire. Perché come fai a non voler bene ad una persona così.

 

Valentina in attesa della neve.

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Valentina tiene gli occhi dietro un vetro, da lì vede la vita e le si appannano i respiri. Lei guarda verso il cielo. Potrebbe nevicare.

Ma non succede mai che nevichi sul mare, sarebbe qualcosa di imperfetto, sono incompatibili il mare con la neve, come il sole e la sua ombra, come quando dici che va tutto bene mentre ti sembra di morire. Lei lo sa che non nevica sul mare, ma ha imparato ad illudersi con poco e allora prende un passo più leggero, che non si può mai sapere e continua ad aspettarla, come faceva da ragazzina, quando aspettava “quella” telefonata, aveva la certezza che non sarebbe mai arrivata, ma non si rassegnava e fissava la cornetta, che non c’era cosa più bella al mondo che stare lì in attesa, che il solo pensiero che potesse succedere davvero la scaldava come un abbraccio di madre. E questo era un buon motivo, sì, decisamente un buon motivo, per non smettere di illudersi.

Valentina aveva quindici anni quando capì di esser sola, quando iniziò la sua vita in parallelo, fatta di strade prese contromano, come quando ti dicono di arrenderti e senti il freddo della canna di pistola sulla tempia e chiudi gli occhi e pensi sia finita e aspetti un ultimo rumore. E quasi un po’ ci speri che si muova il dito sul grilletto, che finalmente tutto sarebbe compiuto e tu potresti smettere di rincorrere i tuoi giorni. E magari, per la prima volta, sederti e tirare il fiato. Aveva quindici anni, un giubbotto di pelle nero, una maglietta con la scritta “I am mine”, i jeans strappati non certo per essere alla moda e un paio di anfibi, presi in prestito al banco del mercato e mai restituiti. E quasi un po’ le dispiaceva di non essere elegante, non poteva immaginare che sarebbe stato il primo giorno della sua nuova vita, che poi, a pensarci, non sarebbe cambiato molto, non sarebbe stato comunque un granché, questo giorno. E neanche la sua vita.

Avrebbe voluto qualcuno a cui appoggiarsi e invece ha dovuto cavarsela da sola, si potrebbe dire che ci è proprio cresciuta, da sola. Tutte le persone che ha incontrato erano sbagliate, sempre e comunque sbagliate, come se continuasse a mangiare chicchi d’uva da un grappolo infettato dal male di vivere. “Persone sbagliate”, ti dice con un gesto delle labbra che somiglia ad un sorriso, persone e decisioni, come fossero complementari, che una cosa quasi non esisterebbe senza l’altra. Sbagliate, una dopo l’altra fino a convincersi di essere lei ad essere sbagliata.

E allora Valentina è cresciuta troppo in fretta, che non poteva permettersi il lusso di aspettare, è cresciuta senza percorsi da seguire, senza nessuno a dirle come si fa, senza un paio di braccia sicure per cacciare via la notte, e lei davvero non sapeva come fare. Non lo poteva sapere. Poteva solo improvvisare. Come fanno gli artisti di strada, che se lasci una moneta, ti regalano un inchino.

Ma alla fine si è convinta, che certe esistenze non puoi mica decidere di sceglierle, come certe giornate uggiose di fine Ottobre, che arrivano anche se non le aspettavi, non le scegli, puoi solo decidere di cambiarle, o almeno, ci puoi provare. Se ti rimane un misero sussulto di vita, ci puoi provare. Ha imparato che avere una vita difficile non è una colpa, ma neanche un alibi, Ha imparato che a quelle come lei nessuno farà sconti e piangersi addosso serve solo a far crescere il senso di pena e la fame di carezze.

Valentina cammina senza fretta, lancia un sorriso a Cisco il matto, che aspetta appeso ad un angolo di finire la sua birra, oltrepassa il bar “quattro mori”, dove un giorno chiese due spiccioli ad un passante per regalarsi un pranzo, arriva sotto i portici al numero quaranta, guarda verso il cielo e sente il calore di un abbraccio e pensa che quello è stato l’ultimo regalo che le ha fatto sua madre. E da quel giorno sta solo cercando di meritarselo, quel regalo.

Adesso è quasi buio, forse è meglio rientrare, che per stasera non c’è più niente da salvare, ma domani sarà un giorno nuovo di zecca. E potrebbe nevicare.

“Ogni esperienza vissuta, ogni realtà con la quale siamo venuti a contatto nella vita, è uno scalpello che ha creato la statua della nostra esistenza modellandola, plasmandola, modificandola. Noi siamo parte di tutto quanto ci è accaduto” (Orison Swett Marden)

In quelle giornate uggiose Valentina chiude gli occhi e ascolta il suono del primo giorno della sua vita (Bright Eyes – First day of my life)

In attesa di Atlantide.

Foto presa dal web, che l'ha presa...chissà dove.
Foto presa dal web, che l’ha presa…chissà dove.

Da qualche tempo a questa parte i miei post nascono di notte, o almeno, si affaccia qualche idea che metto in un cassetto sperando di ritrovarla la mattina successiva. non sempre è li ad aspettarmi, a volte c’è ma ha cambiato pelle.

Non sono sicuro che la notte porti consiglio, spesso porta qualche preoccupazione in più, ansie che durante il giorno riesci a mascherare perchè nascoste sotto la coperta degli impegni, del “va tutto bene” o dei “ci penserò domani”.
Ma di notte i pensieri escono allo scoperto, così come le nostre emozioni e si prendono gioco di noi togliendoci con forza le mani dagli occhi per costringerci a prendere coscienza del loro peso.
Si, di giorno ci trasformiamo in fuggiaschi, capaci di eludere qualsiasi forma di sorveglianza, ma al buio i posti di blocco non sono visibili e la nostra evasione termina nel commissariato delle decisioni non prese con una bella lampada da cento watt puntata negli occhi.

Ma pensandoci bene di notte siamo tutti un po’ meno bugiardi, forse perchè si ha l’illusione che sia tutto un sogno e allora ci lasciamo andare un po’ di più, convinti che il peso delle nostre parole possa dissolversi con il suono della sveglia. E ci viene più facile confidarsi, perchè la notte ha il potere di forzare un po’ di più la serratura dell’animo umano e ci esponiamo, ma raccogliamo anche pezzi di vita altrui, della persona che ci sta ascoltando, che prova magari le nostre stesse sensazioni e si sente altrettanto libera di raccontarci un po’ del proprio universo.
Quel buio è nostro complice rendendoci allo stesso tempo confessati e confessori. Come quando da ragazzo facevo il gioco della verità e quando era il mio turno chiudevo gli occhi, perchè se non vedo chi mi sta di fronte, forse neanche lui vede me e allora, per tre minuti netti, non esisto e posso mostrarmi per quello che sono, che appena li riapro è tutto superato ed è già il turno di quello a fianco.

Le mie amicizie più forti sono nate di notte, i miei amori più travolgenti si sono consolidati dentro gli abbracci dell’oscurità, i miei pianti più disperati sono esplosi con gli schiaffi del buio. Non credo siano semplici casualità.

Le persone di notte sono più trasparenti, si incontrano senza pregiudizi, si parlano, si raccontano, si perdonano i vizi. Da qualche parte ho letto che “la notte è una tasca rivoltata”, ed è vero. Non c’è bisogno di fingere, perchè nessuno ci giudica, ognuno porta in piazza le proprie emozioni, un pò sgualcite, rammendate, tutte quelle fragilità che di giorno rimangono sommerse. E non ha importanza se “la piazza” è un bar, una spiaggia, un’auto, una chat, vale tutto, si, di notte vale (quasi) tutto. Parli con qualcuno e te ne freghi se è un ladro, una puttana, un impiegato di banca o l’infermiera di un matto; di notte il conto in banca non serve ad un cazzo, siamo tutti sott’acqua, esploratori alla ricerca di Atlandide, e la troviamo, incredibilmente la troviamo, nella pazienza di qualcuno che ha voglia di ascoltarci. Protetti dall’oscurità entriamo nel “Bar della rabbia” e lì scopriamo che ce ne sono altri, e sono tutti in attesa, e aspettavano noi. Perchè di notte qualcuno che aspetta lo trovi sempre e per stabilire un contatto non serve granchè, basta un fischio, un gesto con la mano, un sorriso, un click su “invia”.

Noi uomini di notte siamo più veri, più sinceri, più liberi di manifestarci per quello che siamo, senza la fatica di doversi mostrare forti a tutti i costi.
Perciò che siate nostre amiche, amanti, fidanzate o impiegate dell’agenzia delle entrate, fateci parlare, approfittate del nostro momento di tregua dalla battaglia e, se potete , fate in modo che ciò che ascolate nel miglio verde rimanga nel miglio. Noi lo faremo, statene certe.

E adesso….”click”.

“Di notte si ascolta molto meglio il mondo, perché il sapore del mondo se n’esce forte, acre, profondo. Di notte le cose parlano. Di notte gli uomini ascoltano e le cose parlano. La notte è il tempo dell’impercettibile. Ci sono colori nella notte. Ci sono tutti i colori del buio. Ci sono incontri nella notte. Ombre che diventano giganti, così grandi che ci sembra di non avere le braccia abbastanza lunghe per poterle abbracciare.” Mario Pollo.

Ma “L’infinito” di Leopardi è leopardare?

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Cercando disperatamente un suggerimento per un nuovo post, mi sono imbattuto in un vecchio compagno di scuola che mi ha pagato il biglietto per fare un giro sulla giostra dei ricordi, perciò se questo post dovesse fare particolarmente schifo, la colpa è solo e soltanto sua.

La prima confessione doverosa è quella di ammettere che la scuola mi piaceva tantissimo, per questo motivo ho cercato di prolungare la mia permanenza in quella fucina di neo classe dirigenziale, il più al lungo possibile. così i canonici cinque anni per me sono diventati sette/otto.

Praticamente sono andato a dare l’esame di maturità lo stesso giorno in cui ho compilato il modulo per andare in pensione.

Come nei migliori romanzi d’appendice che si rispettino, il bravo scolaretto ha sempre come socio di studi un lucignolo di turno che lo fa desistere dalle sue buone intenzioni.
Le mie di solito terminavano alla fermata dell’autobus. Dilaniato fra il salire e farmi massacrare dalla prof. di matematica o optare per un estenuante turno di sei ore al mitico Bar Luna diviso fra tornei di tressette e gironi infernali di calcio balilla (in tutte le sue varianti: calcino, calcetto, biliardino…paese che vai nome proprio che trovi).

Sinceramente l’opzione “matematica” mi allettava un casino, ma la evitavo per non dare un dispiacere alla prof., ci teneva poverina e quando esordivo dicendo che “l’angolo retto bolle a novanta gradi”, una nuova ruga di dolore compariva sul suo volto già provato. Mi metteva un secco tre, ma dalla sua espressione costernata si capiva che dispiaceva molto più a lei che a me.
Quindi il mio saltare la scuola era solamente un gesto di umana carità.
Ancora oggi non riesco a spiegarmi come tale palese atto di bontà, fosse invece interpretato dal corpo docente e dai miei stessi genitori, come sintomo di scarsa voglia di studiare.

Comunque sia, mi assumevo le mie fottute responsabilità e prendevo la decisione più difficile….Bar Luna.

Otto e trentacinque. Si aprivano le danze.
Appena si arrivava, l’odore dei cornetti alla crema e del caffè corretto al Sassolino si impadroniva delle nostre misere cellule cerebrali trascinandoci, privi di ogni volontà al bancone.
Una volta espletate le funzioni vitali minime (bombolone, cappuccino e caffè di rimorchio), ci rendevamo conto che oltre a noi due, ci saranno stati almeno una quarantina di altri puri d’animo che avevano preferito il martirio del biliardo all’italiana piuttosto che minare la salute psico-fisica dei propri insegnanti. No, no, non vogliamo sentirci dire grazie, le buone azioni vanno fatte senza aspettarsi niente in cambio, almeno secondo Frate Indovino.

La mattinata trascorreva veloce, fra gruppi di maschi che si sfidavano a colpi di primiera e settebello e gruppi di studio femminili che ripassavano filosofia, in preda a laceranti sensi di colpa e che giuravano col sangue che quella sarebbe stata l’ultima volta che saltavano la scuola.
Un po’ come quando tornavi dalla discoteca, camminando sui gomiti e miagolando, promettevi sul poster di Roberto Baggio, che non saresti più uscito, ma poi ti ricordavi che fra tre giorni sarebbe stato il compleanno del “pasticca” (e lui non prendeva quella per il colesterolo) così i tuoi buoni propositi si incendiavano e il “Divin Codino” quella domenica avrebbe lasciato il menisco a San Siro.

Insomma mi capitava sempre di tornare a casa in una giubbata di sudore, ma con la soddisfazione di aver reso incandescenti le manopole del calcio balilla, mia madre mi guardava con un punto interrogativo stampato in fronte e prima che potesse aprire bocca dicevo “Ciao Ma’, mi fiondo sotto la doccia che stamani c’era il compito di educazione fisica a sorpresa”.
Lei faceva finta di crederci e la vita continuava.

Certo, le scuse andavano studiate bene.
Ricordo che una volta il bar chiuse per malattia, noi in preda alla disperazione andammo sulla spiaggia a meditare e come atto estremo di protesta contro la malasorte, ci fermammo dal primo barbiere a tagliarci i capelli a spazzola.
Praticamente i nostri genitori videro uscire alle otto il Tenente Colombo e si ritrovaro alle tredici e trenta con il bagnino di Bay Watch.

Ma sono solo periodi della vita, siamo cresciuti, siamo gente seria, abbiamo preso il diploma, il bar Luna ha chiuso e al suo posto c’è un’agenzia immobiliare, ma io, ogni tanto, un caffè corretto al Sassolino me lo bevo ancora.

Ciao Ma’, ora posso dirtelo, quella volta lì non era vero che ci avevano sequestrato i narcotrafficanti colombiani. Ciao. Bacio.