Vent’anni in mezzo al temporale.

Senti scusa…scusa eh, non sai mica quando passa il prossimo? Di treno, intendo, Sì, insomma, un treno qualunque, non importa la direzione…non importa. A sud…a nord…non importa. Devo prenderne uno, uno qualunque e scorrerlo tutto, vagone per vagone, posto per posto. Faccia per faccia. Devo scorrerlo tutto perché…perché lei non scende mai dal treno e se lo fa…sì insomma…se lo fa è solo per salire su un altro. Lo so che sembra assurdo ma saranno passati vent’anni, sì, più o meno e non ho smesso di cercarla. Ogni giorno, tutti i giorni, uno dopo l’altro, fino a diventare vent’anni, più o meno. E fra vent’anni sarò ancora qui a cercarla…Me ne stavo lì, no? Me ne stavo lì seduto accanto a finestrino a guardare ogni cosa là fuori, ogni cosa che correva via. Buffo no?, buffo come le cose corrono via e ci sfuggono dalle mani quando siamo là fuori. Sul treno invece…sul treno invece è tutto più lento. Tutto decisamente più lento. Me ne stavo lì a pensare alle cose veloci della vita quando sento qualcosa di strano nell’orecchio e dentro Cat Stevens che cantava “Sad Lisa”. E io mi volto di scatto, no? Mi volto e la vedo seduta accanto a me con l’altro auricolare nell’orecchio. Così, senza dire niente, se ne stava lì a occhi chiusi. “ti chiami Lisa?”, le ho detto, “che importanza ha?, che te ne fai di un nome nel bel mezzo di un viaggio?”, così mi ha risposto. E io non ho detto niente, no?, non ho detto più niente, però le ho preso la mano, già…le ho preso la mano…perché certi viaggi è giusto farli in due, è giusto così, no? Poi la canzone è finita. E lei si è alzata. “Come ti ritrovo?” le chiesto, “sul treno, uno qualunque. Niente stazioni, le stazioni sono per chi arriva, o per chi parte. Io sto già facendo il mio viaggio”. Così ha detto. Mi ha lasciato una foto, C’è lei, con un sorriso croccante, nel bel mezzo di un temporale, Ma un temporale vero, con i fulmini e tutto il resto, che quando mi capita di farla vedere c’è sempre qualcuno che dice “guarda che meraviglia di temporale”. Nessuno fa caso a lei, come se non ci fosse neanche in quella foto. E invece c’è. Mi ha lasciato la foto. E poi è andata via. L’ho vista dal finestrino che saliva su un altro treno e andare nella direzione opposta. Io l’ho cercata, ogni giorno, tutti i giorni, sono passati vent’anni, più o meno. Sono salito e sceso da ogni treno, li scorrevo tutti, vagone per vagone, posto per posto, faccia per faccia. Sono salito sull’ultimo vagone, ho passato tutto il treno, tutti i treni, dall’inizio alla fine, ho guardato centinaia di facce, una per una, mentre cantavo Sad Lisa. Erano tutti impazienti di arrivare, nessuno che facesse caso all’istante che stavano vivendo. Erano tutti attesi, o in attesa. E’ questo che facciamo, no? Passiamo il tempo ad aspettare o a essere aspettati da qualcuno. Ma nel bel mezzo del viaggio siamo soli e questo ci spaventa. E allora ci illudiamo un po’, no? se non abbiamo nessuno in attesa o da attendere e magari prendiamo un treno, così, tanto per vedere il mondo fuori che si muove. Ma io no, io salgo sul treno, su ogni treno che riesco a prendere e inizio a cercarla, scorrendo tutti quei visi, in ogni vagone. La cerco più che posso, come un coglione, ogni giorno, uno dopo l’altro, fino a diventare vent’anni. E non importa se nessuno riesce a vederla in quella cazzo di foto, Io non smetterò di cercarla. Perché ho ognuno ha il diritto di rivederla almeno una volta la forma della propria solitudine nel bel mezzo di una meraviglia di temporale. – Senti..scusa eh, scusami se ti ho annoiato, ti lascio qui ad aspettare, io ora devo salire sul treno.

In punto.

Ogni domenica mattina, alle dieci e trentasette, in punto, Marco oltrepassa la soglia del Caffè de Vitis. Lo fa sempre, da almeno cinque anni. Solo la domenica.
Lo fa con una precisione impressionante, al punto che non si capisce se sia lui a rincorrere le lancette dell’orologio o siano loro che, attendono di vederlo entrare dalla porta a vetri. Come se rallentassero la corsa non per dargli modo di essere puntuale. I secondi non sono più secondi e basta, si trascinano dietro la zavorra di qualche centesimo in eccesso, che tanto nessuno ci fa caso. Il minuto che precede l’arrivo di Marco è sempre un soffio più lungo, millesimi di secondo, niente di preoccupante, ma sommandoli insieme il risultato è destabilizzante: in questi cinque anni, il mondo intero è stato derubato di quasi tre secondi. Un’eternità.

A pensarci bene lo scenario potrebbe risultare inquietante. Ogni giorno, mese, anno, Natale, capodanno, feste laiche e pagane, tutto ciò che è accaduto negli ultimi cinque anni, qualsiasi cosa, è iniziata e conclusa in ritardo. L’unico vero, indiscutibile, imperdonabile colpevole di questa catastrofe è Marco.

In realtà quasi nessuno ha percepito l’immane tragedia, le persone là fuori hanno continuato a scivolare sulla vita, come sempre. Quasi tutti, dicevo, il maestro Giuliani no.

Ogni domenica mattina, alle dieci e trentasette, in punto, o quasi, Marco oltrepassa la soglia del Caffè de Vitis. Ogni domenica mattina, alle dieci e trentasette e due millesimi, il maestro Piero Giuliani smette per una fazione di secondo di guardare Dio solo sa dove, si volta verso la porta d’ingresso, trattiene un attimo il respiro e a bassa voce pronuncia, sempre, queste testuali parole:

– Sciagurato, di questo passo la fine del mondo arriverà con mezzo minuto di ritardo. Incosciente

Diceva così. Sempre. Nonostante non avesse mai avuto un orologio, una clessidra o qualsiasi altro strumento capace di misurare lo scorrere del tempo. Lui il tempo lo percepiva guardando la vita. E non sbagliava mai, neanche di un millesimo di secondo. Mai.

Si conoscevano da diverso tempo, Marco e il maestro, o meglio, Piero Giuliani conosceva la vita di Marco, ne era custode di ogni singolo segreto, possedeva tutti i dettagli necessari per disegnarne il mosaico completo. Non si poteva dire altrettanto di Marco.

Lui si limitava a decodificare le espressioni del maestro, aveva imparato a distinguere i momenti di estasi da quelli di rabbia, la gioia dalla noia, la veglia dal sonno profondo. Ci riusciva perfettamente, non si sa come, visto che il maestro aveva sempre quell’unica espressione. Immobile, con lo sguardo perso Dio solo sa dove.

Marco e Piero Giuliani si incontravano tutti i giorni della settimana, feste comandate comprese, a casa del secondo, perché il maestro aveva un posto in cui passare la notte. Anche se si faceva fatica a crederlo. Non dormiva, lui faceva trascorrere la notte.

Quelle due giornate non avevano un canovaccio prestabilito, i protagonisti improvvisavano sul momento il loro spettacolo, non di rado quei pomeriggi trascorrevano senza che nessuno di quei due personaggi strampalati e magnifici aprisse bocca. Nessun suono, nessuna parola, nessun gesto, nessuna nota, niente di niente. Talvolta seduti uno di fronte all’altro, ai due estremi di un tavolo, ma se fossero stati ai due lati dell’universo conosciuto il risultato sarebbe stato identico. Come se avessero un sogno condiviso. Un sogno per entrambi incompleto. 

Altre volte invece allineavano le due sedie di legno verniciate di verde con la seduta impagliata e guardavano nella stessa identica direzione. Così, come statue di cera, quasi senza respirare. Marco osservava il Caffè de Vitis oltre la finestra, si perdeva ad immaginare la vita degli altri. Piero Giuliani continuava imperterrito a guardare con forza l’unico scenario che conosceva. Il mare aperto.

Alle diciotto e trentasette, in punto, il ragazzo si alzava, dava un’occhiata veloce a quella stanza priva di orologi o di qualsiasi altro strumento creato dal genere umano per misurare il tempo, giusto un giro con gli occhi, come a verificare che niente fosse svanito durante quelle ore lente. Poi, senza che gli balenasse nella mente l’idea di pronunciare una parola, se ne andava. Non importava cosa stesse facendo l’attimo prima, fosse stato anche sul punto di dimostrare scientificamente l’esistenza di Dio, come scattavano le diciotto e trentasette, smetteva di botto di parlare o di fare qualsiasi altra attività e se ne andava. Non un saluto, una scusa banale, niente di niente. Si alzava di scatto e usciva. Senza peraltro dare la certezza di un ritorno. Perché certi abbandoni devono essere solenni, hanno regole precise e orari precisi, che se sgarri anche solo di un secondo rischi davvero di non farli mai più.

Certi abbandoni sono così: hanno il dovere di essere netti.

Tutti hanno qualche segreto da raccontare, i più fortunati ne hanno a centinaia, per tutti gli altri il numero si riduce a poche unità. Marco ne aveva uno solo. E neanche lo sapeva.

In realtà non era neanche un vero e proprio segreto. Il segreto è qualcosa che sai solo tu ed è sconosciuto al resto del mondo. Nel caso di Marco era esattamente l’opposto. Il resto del mondo sapeva e l’ignaro era lui. Una sorta di segreto rovesciato, come se tutti conoscessero la soluzione di un quesito tranne colui che l’ha posto. Un paradosso, un assurdo cosmico, che peraltro si incastrava perfettamente nella vita improvvisata di Marco.

Un sonnambulo. Semplicemente questo. Ma non uno di quei sonnambuli che si alzano di notte dal letto e vanno in cucina ad aprire la porta del frigo. No, lui di notte dormiva sereno, niente stranezze e al suono della sveglia faceva la sua vita regolare. Tutto normale, solo si dimenticava di svegliarsi.

Ci sono persone che passano un’esistenza intera a rimpiangere i propri sogni, lui li viveva, in diretta. Ma non lo sapeva. Esiste maledizione più grande?

A guardarlo così non lo avresti mai detto che stesse dormendo, in effetti faceva le cose che facciamo tutti noi, molte addirittura meglio di noi. Dormiva, ma nonostante questo riusciva a misurare il tempo con invidiabile precisione. Ore sette e ventuno colazione, sette e quarantaquattro esce per andare in ufficio, quindici minuti dopo è seduto davanti al pc, nove e trentuno pausa, nove e trentasette oltrepassa la soglia del caffè de Vitis, nove e quarantasei rientra in ufficio, esce alle dodici e trentanove, sette minuti per raggiungere il divano di casa a piedi, mezz’ora di relax totale, non un minuto di più, alle tredici e sedici mette a bollire l’acqua per la pasta, otto minuti e si siede a tavola per il pranzo, in dodici minuti mangia, sparecchia e sistema le stoglie, poi un’ora e ventidue spalmato sul divano a guardare la televisione, due minuti per lavarsi i denti e darsi una sistemata e alle quindici in punto esce di casa per andare dal maestro Giuliani. Alle quindici. In punto. otto minuti a piedi per arrivare davanti al portone, suona il campanello, tre minuti per salire le scale ed alle quindici e undici minuti si materializza davanti a Piero Giuliani. Alle quindici e undici. In punto. Passa le tre ore e ventisette minuti seguenti in quell’appartamento, insieme a quell’uomo pieno di misteri e di tramonti. Alle diciotto e trentasette, in punto, il ragazzo si alza, dà un’occhiata veloce a quella stanza priva di orologi o di qualsiasi altro strumento creato dal genere umano per misurare il tempo, giusto un giro con gli occhi, come a verificare che niente fosse svanito durante quelle ore lente. Poi, senza che gli possa passare nella mente l’idea di pronunciare una parola, se ne va. Non ha importanza cosa stesse facendo l’attimo prima, fosse stato anche sul punto di dimostrare scientificamente l’esistenza di Dio, come scattano le diciotto e trentasette, smette di botto di parlare o di fare qualsiasi altra attività e se ne va. Non un saluto, una scusa banale, niente di niente. Si alza, di scatto, ed esce. Senza peraltro dare la certezza di un ritorno. Perché certi abbandoni devono essere solenni, hanno regole precise e orari precisi, che se sgarri anche solo di un secondo rischi davvero di non farli mai più.

Tre minuti per scendere le scale e undici per fare ritorno a casa, undici minuti, tre in più rispetto all’andata, perché a quell’ora la città ha qualcosa di sottile, un fremito quasi sfuggente, come se dovesse accadere qualcosa che cambierà il corso degli eventi. E allora vale la pena rallentare il passo, non si sa mai. Anche se non accadrà niente, rallenta il passo, perché vale la pena sperarci. Ne vale la pena davvero.

Alle diciotto e cinquantuno varca la soglia di casa, si siede sul divano, sintonizza il televisore sul quiz preserale e si fa prendere dal gioco, sfida i concorrenti, si incazza quando sbaglia le risposte, esulta quando vince la sfida finale. Alle venti e zero otto inizia a preparare la cena, a volte pollo, altre volte ordina una pizza, stasera passato di verdure, poi sistema la cucina, guarda un film o legge un libro o scrive o semplicemente si annoia, sono le ventidue e trentotto, in punto, quando decide che per oggi può bastare così ed entra nel letto. La domenica il rituale si ripete, soltanto traslato avanti di un’ora, nonostante l’azienda di informatica per la quale lavora sia chiusa, lui ha le chiavi e ne approfitta per lavorare un po’ al pc e portare a termine alcune pratiche lasciate in sospeso.

Ecco, questa è la settimana di Marco, niente di eclatante, conduce una vita normale, una delle tante vite lineari, precise, scandite. Fa cose, come tutti, solo che lui le fa dormendo. Da tutta una vita. In punto.

Ne aveva fatte di visite Marco, dall’età di sei anni, in giro da un ospedale all’altro, da un medico all’altro, sua madre lo amava anche così, suo padre non se ne faceva una ragione. Lei gli rimase accanto fino alla fine dei suoi giorni, suo padre scelse di vivere e un giorno svanì nel nulla.

“Cose che capitano”, si ripeteva, anche se in realtà non ne comprendeva il motivo, perché lui non aveva coscienza del suo stato. Voglio dire, era una vita che continuava a dormire ma non lo sapeva. Per Marco la vita era quella, faceva le stesse identiche cose di tutti gli altri, che ne sapeva di come ci si sente ad essere svegli, lui che non riusciva a staccarsi dai suoi sogni.

Solo una volta ebbe un barlume di risveglio, il giorno che stava per innamorarsi di una donna. Ecco, quello fu l’unico momento in cui rischiò veramente di fare il salto nel mondo reale. Durò un attimo soltanto, uno di quelli che si portano l’infinito dentro. Lui la sfiorò appena, lei si allontanò di qualche passo. Non si incontrarono mai più. Perché certi brividi hanno le pareti di vapore, se provi a toccarli ti rimane solo il fumo fra le dita.

C’erano dei vuoti nella memoria di Marco, d’altronde vivere perennemente in quello stato di coscienza apparente comportava inevitabili conseguenze. I vuoti di memoria erano una di queste.

Sapeva di essere nato in un’altra città, di averci vissuto per diversi anni, ma non aveva la minima idea di come fosse arrivato a Marcien. Nessun indizio di un viaggio, di saluti, di abbracci, niente di niente. L’attimo prima sul divano di casa, l’attimo dopo a Marcien. Così.

Vive così, sembra sempre altrove, come quando facciamo qualcosa ma pensiamo a tutt’altro, ecco, Marco è così, apparentemente distratto, in realtà è semplicemente alla ricerca di un tassello. Un particolare nascosto chissà dove che sia in grado di spiegare quella strana sensazione che gli infastidisce il respiro. E quando parla lo fa lentamente, come se scegliesse le parole, come se le sillabe da pronunciare provenissero da lontano costringendolo a prolungare la durata delle vocali per ingannare l’attesa.

Marco ti guarda, con quegli occhi velati, con addosso più vita di quanta tu ne vedrai mai. Guarda te, ma forse vede altro, verità diverse, forse irreali, forse giustissime. E allora chi sei tu per svegliarlo, che diritto hai di trascinarlo nella tua realtà. Gli prendi le mani e ti viene voglia di abbracciarlo, forte, perché come fai a non voler bene ad una persona così. Lui ti stringe i polsi, ti invita a chiudere gli occhi dicendo “vieni a sognare con me”. E tu lo fai, ti abbandoni, lo segui e ti assicuri che continui a dormire. Perché come fai a non voler bene ad una persona così.

 

Tutti i sogni di Barbara.

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Era il 1982, la sera del 5 luglio. Tra qualche mese nei negozi sarebbero usciti i primi cd, l’Argentina avrebbe invaso le Falkland e il mondo avrebbe perso Grace Kelly. Anche se nelle favole a lieto fine le principesse non svaniscono mai.

Il brigadiere se ne stava sulla sua sedia preferita, quella di legno chiaro con l’imbottitura rossa sulla seduta, sulla scrivania una macchina da scrivere d’ordinanza, con la carta d’ordinanza e lui se ne stava lì a buttare giù alcune frasi in rima, amava scrivere poesie, si vedeva che aveva talento, almeno così dicevano i suoi colleghi. Se ne stava lì, raccogliendo i suoi pensieri. D’ordinanza.

Barbara entrò guardandosi intorno, sicura ma sospettosa, come se qualcuno potesse scorgere tutta quanta la sua vita attraverso la maglietta bianca leggera e i pantaloni grigi della tuta da ginnastica. I capelli raccolti in una coda improvvisata. Entrò e si diresse verso la scrivania del brigadiere, con passi lievi, cercando di spostare meno aria possibile.

– Mi hanno derubata – , esordì, quasi senza rendersene conto, quasi senza volerlo, – mi hanno derubata mentre ero in  casa -. Gli occhi si muovevavo veloci, come a cercare una via di fuga in caso di catastrofe naturale.

Il brigadiere guardò fuori dalla finestra, era sera e la città si stava illuminando distrattamente, come solo le città di mare sanno  fare, come se lo facessero per abitudine. Accendono le luci senza togliere lo sguardo dall’acqua in movimento, che non si sa mai cosa potrebbe uscire da là sotto, meglio non distrarsi. L’uomo si passò una mano fra i capelli, forse per mettere da un lato tutte le parole che gli occupavano la mente. Metterle da un lato per fare spazio. E ascoltare.

– Mi dica signorina, che cosa le hanno rubato? – e intanto inseriva un foglio nuovo dentro la macchina da scrivere. Ogni volta era una pagina da riempire, uno spazio bianco e immacolato dove raccogliere le disgrazie di qualcuno, una sorta di confessionale senza una grata per nascondere i segreti e le espressioni.

– Mi hanno rubato tutti i miei sogni -,
– Tutti i miei sogni – ripeté a voce alta il brigadiere, senza fare nessuna espressione di stupore, mentre iniziava a battere le dita sui tasti, in modo quasi ritmato, come se stesse suonando una melodia sentita chissà dove.

– E, di preciso, quanti erano questi sogni? –
Barbara rispose senza avere il bisogno di pensarci, conosceva il numero esatto, li aveva contati uno ad uno mentre sparivano sotto i suoi occhi. – Erano tantissimi, tutti quelli che una ragazza di ventidue anni può avere. Me li hanno rubati tutti quanti -.
Il brigadiere annuiva e continuava a suonare il suo pianoforte. – E quando sarebbe avvenuto questo furto?, è importante, cerchi di ricordare almeno l’ora indicativa – .
Barbara iniziò a tormentarsi il labbro inferiore con i denti, si sforzava di ricordare, di essere precisa, perché era importante, perché lei c’era, era lì, ma che vuoi, in quei momenti mica ti metti a guardare l’orologio, no? cerchi di capire cosa ti stia succedendo, cerchi qualcosa, magari per difenderti. Cerchi aiuto. Magari.
Ma il brigadiere teneva lo sguardo fisso su di lei, attendeva una risposta. – Vede, non ricordo il momento preciso, ma direi che all’incirca il furto è iniziato, sì, più o meno, è iniziato dieci anni fa -.
L’uomo restò immobile, alzò solo gli occhi al cielo. E si mise a contare a ritroso, tenendo il conto con le dita.  Poi riprese a scrivere e a scandire le parole a voce alta – la signorina dichiara che il furto è iniziato nel 1972 –.

– E cosa contenevano questi sogni signorina?, perché i sogni contengono sempre qualcosa, vede, il valore reale non è dato dal sogno in sè per sè, ma da ciò che ha al suo interno –
– C’erano tante cose dentro, non saprei neanche dirle quante, un’infinità di cose sparse, messe un po’ a casaccio, un po’ come veniva. Non sono mai stata brava a mettere ordine fra le cose mie. Ah sì, però una la ricordo bene. C’era l’amore. Ne sono certa. Un amore grande così, forse anche un po’ più grande, fatto di cose piccole così, forse anche un po’ più piccole, erano sorrisi, sguardi, progetti, sospiri, pianti, corse, abbracci, cose così, che prese da sole possono sembrare senza valore, ma tutte insieme hanno un senso infinito. Sì, sicuramente c’era l’amore. Ne sono certa.-

Faceva caldo quella sera, ogni tanto il brigadiere si voltava a guardare il ventilatore sul lato destro della scrivania, per essere sicuro che fosse acceso. Lo era. Ma faceva caldo ugualmente.

– E il desiderio di fidarmi di qualcuno. E forse anche di me stessa. Lo scriva per favore. E poi anche certi piccoli gesti, che so, il dorso di una mano sul viso, un bacio sulla spalla, un paio di gambe intrecciate alle mie, due occhi che ti danno coraggio. Ecco, cose di questo tipo. Scriva anche queste per favore -.
L’uomo adesso teneva gli occhi fissi sul foglio, vedeva le lettere che lentamente lo coloravano di scuro, lettere precise, una di fianco all’altra. Guardava il foglio e un po’ si compiaceva del fatto di non aver sbagliato a premere neanche un tasto.

– E la musica, brigadiere, anche la musica. Quella che metti in sottofondo, quella che non disturba, quella che incolla insieme tutti i dettagli di un solo istante. Quell’istante che diventa ricordo, che quando senti quella musica lì, riaffiora alla mente e magari sorridi e te ne freghi di essere su un tram affollato in mezzo a gente sconosciuta, in una chiesa, o in un negozio del centro. Te ne freghi. E sorridi. Quella musica non ce l’ho più e dubito davvero di riuscire a trovarla di nuovo -.

Certo, la musica, anche lui la teneva in sottofondo mentre scriveva le sue poesie, un po’ lo distraeva e un po’ lo ispirava, a volte faceva male altre volte alleviava i dolori. Il veleno e l’antidoto. Ma non gli sembrò il caso di esprimere a voce alta questi pensieri.

– Signorina, ma lei ha dato l’allarme? Ha chiesto aiuto?, non aveva un telefono vicino per chiamare qui in caserma e avvertirci che era in atto un furto? –

– Vede signor brigadiere, non è così semplice, mi è servito molto tempo per realizzare che mi stavano derubando, che lo stavano facendo dal profondo, che lo stavano facendo davvero intendo. E mi sentivo in colpa. E poi ho provato a chiedere aiuto, ma in certi casi gridare al ladro non serve a niente, rischi solo di peggiorare le cose. Ci ho provato, ma forse non gridavo abbastanza forte o forse non riuscivo a farmi capire bene, neanche mia madre mi sentiva, no, non sentiva, o forse non voleva sentire, no, ho bisogno di pensare che non sentisse. Ho bisogno di pensarlo. Sbagliavo, sì, sicuramente sbagliavo qualcosa, ne ero certa, ma giuro, non saprei dire che cosa. Giuro. E poi in quel momento riuscivo a fidarmi ancora delle persone, magari qualcuno si sarebbe insospettito e sarebbe corso ad aiutarmi. Ma non è arrivato mai nessuno. Mai. E io mi sentivo in colpa.
Sono stata un’ingenua, lo so, ma che ne sapevo io, che ne sapevo che mi avrebbero rubato tutto, specialmente l’amore. Che ne potevo sapere dell’amore, ti dicono tutti che è bello, che è prezioso, che sei fortunata ad averlo. E io signor brigadiere ci credevo davvero, lo tenevo stretto, che neanche sapevo quale fosse il modo giusto di conservarlo, non c’è un’etichetta sopra con le istruzioni, non ci sono procedure scritte da seguire, per me l’amore era quello e anche il modo di conservarlo. Era quello. E ci credevo davvero. E invece una mattina mi sono alzata e mi sono resa conto che non c’era più, non c’era più niente, non avevo più niente. Il vuoto. Mi avevano derubata. Di tutti i miei sogni. Io mi sono sentita svuotata. E in colpa -.

– Ma ha sospetti su qualcuno?, riesce a darmi qualche particolare in più?, io capisco il suo stato d’animo, ma se vuole davvero ritrovare i suoi sogni, ogni dettaglio è importante, lo capisce questo? potremmo almeno catturare il ladro. E sarebbe già un buon inizio. –

– Ho detto tutto quello che potevo dire, non posso spiegare come siano andate esattamente le cose, cerchi di capire, non posso farlo. E’ successo quello che le ho raccontantato: una mattina mi sono svegliata e ho scoperto – sospiro profondo, uno di quei sospiri che ha percorso migliaia di chilometri per arrivare fin lì, fino alle soglie del coraggio. – ho scoperto di essere stata derubata. Di tutti i miei sogni. Non posso dirle di più. –

– Bene signorina, abbiamo quasi finito, un attimo di pazienza e le consegno la deposizione da firmare -.

Il brigadiere cambiò il foglio nella macchina da scrivere, probabilmente conteneva cose non corrette, lui era un tipo preciso, non poteva rischiare di fare brutte figure. Scrisse tutto da capo, senza guardare il primo foglio, senza copiare, si ricordava  perfettamente ogni singola parola. Sorrise e lo fece leggere a Barbara. Lei lo studiò attentamente, molto attentamente, guardò l’uomo davanti a sè, posò nuovamente gli occhi sul foglio che stava tremando fra le sue mani, lo fissò per un istante interminabile, imprimendosi a fuoco nella mente quelle righe scritte con parole ordinate e precise. Tolse con due dita una lacrima che le scendeva sulla guancia. Prese la penna e lo firmò.

Era la notte del 5 luglio 1982 quando Barbara uscì dalla caserma, tra qualche mese nei negozi sarebbero usciti i primi cd, l’Argentina avrebbe invaso le Falkland e quella sera l’Italia aveva vinto la coppa del mondo.

Nella caserma di una città di mare c’era un brigadiere seduto sopra la sua sedia preferita, sulla scrivania di fronte a lui un ventilatore cigolava inutilmente, tra la macchina da scrivere e il posacenere c’era un foglio, scritto senza errori, con le lettere ordinate e precise. Sopra si potevano leggere queste parole:

“Livorno, 5 Luglio 1982,

in data odierna, la qui presente Bonsignori Barbara, nata a Livorno il 19/03/1960 dichiara di aver subito in maniera reiterata, atti carnali a scopo di libidine dal di lei padre. Dichiara inoltre di esserne stata profondamente danneggiata, nel fisico e nel morale”

Da lì a poco il mondo avrebbe perso Grace Kelly. Anche se nelle favole a lieto fine le principesse non svaniscono mai.

“Strappa all’uomo comune le illusioni e con lo stesso colpo gli strappi anche la felicità” (Henrik Ibsen).

Direi che è il momento di scomodare gli INXS e la loro bellissima ragazza.

*Questo testo è ispirato ad una scena di un video, visto di sfuggita e del quale non conosco il titolo. I fatti e i nomi dei personaggi sono assolutamente frutto di fantasia.

La bottega delle occasioni perdute.

Immagine presa da internet (come sempre)
Immagine presa da internet (come sempre)

Come alcuni di voi sapranno, sono reduce da due settimane di corso di formazione aziendale. Detto così potrebbe sembrare una cosa di una noia mortale, forse a tratti è vero. Ma alcuni argomenti che i formatori si sono prodigati ad inculcarci forzatamente mi hanno colpito.

Uno su tutti è il concetto di “zona di comfort”. La zona in cui ognuno di noi si sente fuori pericolo, dove il nostro istinto si sente al sicuro. Al suo interno non ci sono insidie, niente trucchi, musica giusta, sfumature giuste e soprattutto…ci fai entrare solo chi vuoi tu.
Un paradiso costruito su misura. Già…e rimanerne intrappolato è un attimo.

Perchè essere sotto l’effetto della morfina è piacevole, ma crea dipendenza.
E allora tendiamo a stare il più a lungo possibile nella nostra gabbia dorata,
E magari tendiamo a farci entrare sempre meno persone, e quando escono ci sentiamo sollevati. È la nostra coperta di Linus, la nostra zona consacrata, il nostro “fido, rinforzi” di Risiko.

Lì dentro siamo inattaccabili, invincibili, condottieri indiscussi del nostro tempo. Sarebbe da folli uscire allo scoperto, mettersi in discussione, confrontarsi e magari uscirne pure sconfitti. Si, da scellerati proprio.
E allora a volte ci capita di sprofondarci dentro, di cadere in una specie di depressione mentale dalla quale non abbiamo voglia di uscire. Non ce ne frega niente se fuori c’è “tutto un mondo da scoprire”, noi stiamo bene nel nostro mondo, nella nostra “zona rossa”. E senza rendercene conto rimaniamo lì, magari a scaldare i motori, senza riuscire ad alzarsi in volo, come lucciole dentro un bicchiere, come promesse mai mantenute.

I nostri rituali possono diventare la nostra condanna. Percorrere sempre le stesse strade, sedersi sempre sulla stessa poltroncina, guardare sempre lo stesso cielo. In questi giorni mi sono reso conto che se magari prendo il coraggio a due mani e sposto la mia reflex, la foto potrebbe essere migliore, o magari no, ma se non provo non lo saprò mai. Ho provato un paio di volte a mettere il naso al di là del mio cerchio rosso, e sapete…non è poi così male come pensavo, certo, le tigri pronte a sbranarti ci sono, ma poi impari ad evitarle. Come diceva William Shed “Le barche nel porto sono al sicuro, ma non per questo sono state costruite”. Capisci che forse la tua zona di comfort potrebbe espandersi un pò, magari potrebbe pure incontrare quella di qualcun altro, della tipa seduta al tavolo a fianco a te, per esempio. Potresti alzare lo sguardo, un passo oltre, potresti abbozzare un sorriso, un passo oltre, potresti dirle ciao e capire che sei lontano mille miglia dalla tua zona di comfort, ma non te ne frega niente, perchè lei ti ha risposto e non hai bisogno di chiedere i rinforzi come a Risiko. (Liberamente ispirato ad uno scambio di commenti con Vetrocolato)

Inutile fare gli ipocriti, non è facile stare la fuori, e sicuramente avere la nostra free zone è indispensabile, ma sarebbe un peccato rendersi conto un giorno che la nostra bottega delle occasioni perdute è colma all’inverosimile, perchè è frustrante vivere di rimpianti, avere sul tavolo un cumulo enorme di “se avessi” imprigiona lo sguardo e ci impedisce di vedere oltre. Sbriciamo oltre il confine, al di là del muro non ci sono solo avversari, ma anche un numero infinito di compagni di viaggio. Come ho già detto in altri post, siamo tutti animali sociali, creati per stare insieme a qualcuno, per contaminare i nostri confini.

Diamo pure a qualcuno quelle dannate chiavi per entrare nella nostra zona quando vuole. Perchè magari non ce ne siamo resi conto, qualcun altro lo ha fatto con noi.

E allora alziamo lo sguardo e abbozziamo un sorriso, che forse la ragazza del tavolo accanto non aspetta che questo.

“I nostri dubbi sono dei traditori che ci fanno spesso perdere quei beni che pur potremmo ottenere, soltanto perchè non abbiamo il coraggio di tentare.” William Shakespeare.