Ingredienti sparsi.

Sembra scientificamente provato che ogni sette anni il nostro corpo si rigenera completamente, ogni singola cellula sparisce per lasciare posto a una nuova.


Voglio dire, svaniscono le cellule ma noi, rimaniamo “noi”, se ci pensi c’è da perderci la ragione. E’ come se fossimo fatti di qualcos’altro, come se ciò che ci portiamo dentro sopravvivesse agli atomi e al ciclo naturale della vita. E’ come se una parte di noi fosse fatta di qualcos’altro. Già, e allora mi sono messo lì a pensare, che ultimamente non mi capita spesso di farlo, pensare, intendo, mi sono messo lì a cercare di capire di cosa sono fatto, cercando di trovare la composizione molecolare che è resistita a tutti questi anni e ha continuato ad essere me.


Sono fatto della Lambretta di mio padre, che ogni tanto prendevo di nascosto anche se non la sapevo guidare.


Sono fatto degli abbracci di madre, non troppi a dire il vero, ma dati sempre nel momento più giusto.


Sono fatto di sabbia, acqua, salmastro, libeccio, sole, burrasche e qualche tormento. In una parola, sono fatto di mare.


Sono fatto delle sere passate in macchina con due amici, ascoltando i Nirvana dicendoci che era ancora tutto possibile.


Sono fatto di una settimana passata a fare l’artista di strada a Copenaghen, con la mia Ibanez e una tastiera con dietro un compagno di sventura.


Sono fatto di un paio di piazze, che urlavano giustizia, e io là in mezzo, con una maglietta, senza capire bene cosa stessimo facendo, ma ci piaceva molto farlo. Ci stavamo illudendo, saremmo stati traditi, ma allora non potevamo saperlo.


Sono fatto di lettere, ma proprio tante, che non ho mai avuto il coraggio di spedire, ma va bene così, rinunciare a qualcosa ci rende più consapevoli. O più ingenui, chissà.


Sono fatto di Marco Tardelli e degli occhi commossi di mio padre, perché sì ok, il 2006, ma nell’82…


Sono fatto di lei, arrivata improvvisa e rimasta con me. Non è sempre facile ma continuiamo a sceglierci ogni giorno. Ogni tanto allungo la mano e lei c’è. Questo è quello che so dell’amore.


Sono fatto di Marco, Simone, Cristiano, Samuele, sono fatto di Federico, di Mirko, di Carlo, di Roberta, di Claudia, di Gemma e di pochi altri che mi hanno lasciato qualcosa di loro. Che non mi lascerò sfuggire.


Sono fatto di treni, di tutti quei treni che guardavo partire e arrivare e sono fatto di volti, di tutti quei volti che si incontravano o si lasciavano allontanare.


Sono fatto di chilometri e di tutte le aurore che continuo a fotografare, ma anche di tutti i tramonti su strade veloci mentre sto riportando tutto a casa.


Sono fatto di accordi e di tutti i concerti, di casse e rullanti, di muri scavalcati senza biglietto. Sono fatto di viaggi improvvisati a Pavana per bere qualcosa con Francesco Guccini.


Sono fatto di Camilla, la mia Cinquecento avuta in regalo, fuori tempo, fuori moda, caricata all’impossibile. E di tutte le doppiette venute male che terza marcia non c’era più.


Sono fatto di cicatrici, cicatrici vere eh, ginocchio, caviglia, occhio, naso, parti di me andate in frantumi che qualcuno ha rattoppato. Che se raccoglievo tutti quei punti di sutura un tostapane lo avrei preso di sicuro.


Sono fatto dei libri che ho letto e delle frasi che ho rubato per stupire, delle persone che ho conosciuto e dei luoghi in cui sono stato, senza mai andarci veramente.


Sono fatto di giorni sprecati, una serie lunghissima di giorni sprecati. E di cose non fatte, di parole non dette, di tutti quei momenti messi lì a prendere polvere e basta.


Sono fatto di lei, di lei che è fatta un po’ di me, che ha i miei occhi ma uno sguardo tutto suo, che ha cambiato la mia prospettiva e che, senza il minimo sforzo, ogni giorno mi rende migliore. Come solo i gesti inspiegabili riescono a fare.


Forse sono queste le particelle di me che sopravvivono al naturale corso della vita, qualcosa che faccio fatica a comprendere ma che, nel bene o nel male, porterò per sempre con me.

Il molo 41.

Paolo cammina leggero nella sua periferia grigia come la cenere dei suoi ricordi, in uno di quei giorni in cui il vento della sua solitudine urla più del solito. Ormai è uno di loro, uno di quelli che guardano i sogni da lontano.

Li scorgi tra la gente e quasi ti spaventi, sono gli immobili tra due ali di folla, guardano oltre gli incroci, oltre i palazzi e non importa quale sia la città, loro vedono il mare, sempre.

Vengono da lì e quelle tempeste se le portano dentro come un rumore sordo tra un battito e un respiro, forse è per questo che sono sempre da qualche parte fuori da qui. Forse è per questo che loro sono quelli che sognano davvero.

Quelli che guardano i sogni da lontano non fanno rumore, forse per questo prendono spintoni, ti vengono incontro e ci passi attraverso, come fossero una nebbia leggera, quella che avvolge e neanche la vedi. Quelli che sognano si siedono al finestrino e in mezzo al cielo ci vedono Fermina e Florentino. Quelli che sognano danno fastidio, come le auto parcheggiate di traverso, sono qualcosa che non ti aspetti, sono John Coltrane che sbaglia l’assolo.

Paolo ha lasciato il suo mare quindici anni fa, lo stesso giorno in cui la vita gli ha strappato Eleonora, così, senza preavviso, come quando guardi un riflesso nel vetro che l’attimo dopo non c’è più. Come quando guardi l’arcobaleno di un sorriso senza sapere che sarà l’ultimo. E’ partito esattamente lo stesso giorno, così, senza preavviso.

E’ partito con l’inutile speranza di dimenticare, ma certi mari non li dimentichi neanche se cambi pianeta, perché si fondono con la tua anima, perché sono troppe le emozioni condivise, troppi i giorni passati sul molo 41 aspettando la sorpresa di un abbraccio che arrivava da dietro, con la sua voce all’orecchio che diceva “Teniamoci stretti che ci salveremo”.

Certi mari ti portano al largo, con il vento di bonaccia e ti guardano pazienti mentre getti le reti. Ti accarezzano la fronte, ti scavano negli occhi e alla fine ti baciano, lasciandoti sul palato un sapore di gelsomino e salmastro.

Certi mari non puoi fare a meno di amarli, quando apri gli occhi al mattino e te li trovi di fianco, li ammiri in silenzio e sono perfetti e tu neanche ti chiedi se ti faranno annegare, perché ne vale la pena di restare a guardarli, vale davvero la pena nuotare con loro.

Questa è Eleonora, è il suo mare al tramonto, è le voci del porto alle sei di mattina, la nebbia che si dirada ad un miglio dalla riva, il sole in faccia mentre punti verso Gorgona. E’ il saluto ai gabbiani mentre tieni il timone. E’ il tuo sogno perfetto che non svanisce all’aurora.

Quelli come lui continuano a nuotare ma certi giorni le braccia fanno male davvero e vorresti solo andare alla deriva. Certi giorni il mare è davvero troppo lontano e non riesci a sentirne l’odore, anche il ricordo inizia a sbiadire e la disperazione ti sbrana i respiri.

Paolo è stanco, oggi è un giorno così, in cui ha in bocca una manciata di sabbia e spine, in cui ha un alveare nella testa che non gli lascia via di scampo. Oggi è il giorno peggiore di tutti, perfettamente devastante. Ha solo bisogno di sentire di nuovo l’acqua salata graffiargli la pelle, di una nuova carezza sul viso. Ha solo bisogno di ritrovare il suo mare e non lasciarlo mai più.

E’ in piedi, affacciato al terrazzo del suo appartamento al quinto piano, guarda davanti a sé, ma non vede i palazzi a mattoni e il cemento che soffoca l’orizzonte. Vede le navi salpare, vede un cielo astratto riflesso su onde di uragani. Quelli come lui non trovano posto in tutto questo mondo, sono troppo fuori tempo, hanno i nervi troppo scoperti, hanno una riserva infinita di dolore. Quelli come lui non chiudono gli occhi, vogliono guardarla in faccia la loro solitudine. Quelli come lui hanno l’esistenza interrotta, come fosse un romanzo lasciato a metà, vivendo gli altri giorni come fossero un inganno della sorte, ripetendo come un mantra “Adesso mi sveglio e tutto è normale”. Ma niente è normale e loro non si sveglieranno mai più.

Paolo allarga le braccia, come faceva quando stava sul molo 41, aspetta la sorpresa di un abbraccio che arriva da dietro, sente all’orecchio la voce di Eleonora che gli dice “Teniamoci stretti che ci salveremo”. Fa un passo oltre il parapetto e raggiunge il suo mare.

“Il mare crea una nostalgia impossibile da debellare. Il mare ti vive dentro” (Stephen Littleword).

Portaci lontano capitano, in acque calme e sicure, abbiamo preso posto vicino al finestrino, fai salpare la tua Downeaster “Alexa”

Il carro dell’Orsa Maggiore.

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C’è una distanza incolmabile, una misura infinita, un punto perso nel nulla, fra la disfatta e la vera gloria.
Sono i millimetri che ci separano da un bacio.

Quella è l’unità di misura dell’anima, il confine fra un sorriso e un sospiro, la chiave che serve ad aprire il carcere del cuore.
È lo spazio tra un pianeta e il suo satellite, lo squarcio di un’emozione messa a lutto, la distanza fra il vivere e il sopravvivere.
È il percorso che separa i respiri, il sogno allo specchio di un salto senza rete, il secondo più lungo di un giorno immortale.

Sono quelli, i millimetri che ci impediscono di mescolare le nostre esistenze, è la voglia che urla di non stare più soli, quel battito improvviso come nella notte un tuono, un passaggio di stelle fra l’anima e la pelle, il sentiero che ci lascia qui, liberi e servi.

È quel tempo meschino, che fa crescere una fame incessante al gusto di rivolta e rassegnazione, quel vento di uragani che ci sfiora le mani, è l’attimo eterno prima di staccarsi piano per salpare via da un molo, il nostro sguardo intatto di latitudini da esplorare, la realtà di marciapiedi che si scontra con le vertigini di un’illusione clandestina.

È quello spazio di cielo più sereno, dove tirare tardi fra sbuffi di incoscienza e di impaziente frenesia, è la buona compagnia dentro una cantina d’inferno, un’esistenza passata in attesa fino a scordarsi per quale motivo dover respirare.
Sono gli anni passati a guardare il nostro brivido di fronte, il percorso di un viaggio indeciso contro un richiamo ammaliante.

È quella, la distanza più difficile, quella che separa due labbra, che non sono due labbra, sono due vite, non sono due bocche, sono due costellazioni e se le guardi vedi il carro dell’orsa maggiore, non sono due corpi, sono due voci che vibrano insieme e se le ascolti senti Maria Callas in Casta Diva.

Quel bacio è lì, in attesa, aspetta solo un atto di coraggio.
Io di strada ne ho fatta e sono arrivato fin qui, di quel bacio ne sento il sapore, però ti prego, questi due millimetri adesso falli tu.

“Beato cioccolato, che dopo aver corso il mondo, attraverso il sorriso delle donne, trova la morte nel bacio saporito e fondente delle loro bocche.” (Anthelme Brillat-Savarin, Fisiologia del gusto).

Estemporaneo: perfettamente sbagliato.

Sono fuori dalla porta, con l’inquietudine che sale, non cercare alternative, apri e fammi entrare.

È il nostro momento perfettamente sbagliato, secondi scanditi dalla voglia di far saltare ideali e bottoni, frenesia di strappare certezze e camicie, incoscienza di decisioni prese contromano.
Bramosia di spalle contro un muro, di gambe nervose e odore di pelle più nuda.

È il bisogno assoluto di passioni sudate e soffi di grida, di echi remoti e cuscini selvaggi, nelle vene un veleno di passioni a cavallo, e dentro gli occhi più larghi veder cadere sospiri, sopra i fianchi impazziti un naufragio dei sensi.

È la voglia indecente di calze a rete e pianure, di occhi chiusi sul mondo e di lava nel mare.

Fammi entrare e guardiamo l’universo alla sfascio, rimaniamo aggrappati alla schiena che vibra e lasciarsi morire sopra i fianchi indifesi, torturiamoci a morte e affondiamo le unghie in piaceri al galoppo.

E ti giuro voglio solo darti un attimo di felicità imperfetta, che ci rimanga addosso come il fumo di Londra, un ricordo salato di lenzuola aggrinzite, come un’onda lontana che promette disfatte.
Ti lascio un lamento come un tuono d’agosto, un paio di mani sul collo che stringono aria e inquietudine e due piedi puntati a pareti e profumi.
Ti regalo incertezze di dolori e d’incenso, voglio darti fastidi come graffi sul muro, un amplesso furioso di anime in pena.

Sono fuori in attesa ma non voglio più entrare, volto le spalle e svanisco.
E rinuncio in eterno alla tua bocca aggressiva.
Perché sono da sempre perfettamente sbagliato.

P.s. Questo è un post anomalo, lo so, mi piaceva sperimentare. E poi…boh, è uscito così.

Sul filo tra le mosche e il Jackpot.

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Un po’ di tempo fa un’amica mi ha parlato della sua “strana” situazione sentimentale: é decisamente interessata (a dir poco) ad un uomo e, da quanto mi ha raccontato la cosa sembra essere corrisposta.

Ecco, ora vi chiederete cosa ci sia di strano. Niente, se non fosse per il fatto che entrambi non si decidono a parlare apertamente.

Certo, la situazione è più complicata di così, lui non è libero, ci sono amici comuni o comunque persone che hanno legami affettivi da entrambe le parti. Ok, tutto legittimo, non si discute, ma il punto sul quale ho riflettuto in questi giorni è che queste due persone non sono le uniche che conosco che vivono fra “color che son sospesi”. Esiste uno stuolo di “vorrei ma non posso” o addirittura di “e se mi dice no?”. Ecco, quest’ultima condizione mi colpisce ancora di più.

Si, perchè se nel primo caso posso capire che ci siano situazioni in ballo che fanno (giustamente) da deterrente, nel secondo caso è decisamente uno stato di limbo che in qualche modo è quasi rassicurante.

Sono i classici atteggiamenti di chi si accontenta del premio di consolazione piuttosto che puntare decisi al Jackpot. Ci basta vedere l’altra persona per un aperitivo, un caffè veloce o una cena informale (se siamo più audaci). E’ un rituale fatto di sguardi, parole non dette, sorrisi innocenti che coprono gli slanci di passione. E allora finiamo per abbrarciarci come buoni (finti) amici quando si avrebbe voglia di baci sul collo, mani nelle mani, bocche incollate. Si, quello sarebbe il montepremi finale, ma abbiamo paura di non meritarcelo, è molto più tranquillizzante galleggiare sulla nostra barchetta piuttosto che immergersi per ammirare i coralli dei fondali.

Ma quanto è faticoso, quanto autocontrollo dobbiamo usare e soprattutto, quanto è soddisfacente un rapporto in questi termini?

Ci sono tantissime persone che realmente preferiscono non avere una risposta, che non si dichiarano apertamente perchè non si troverebbero a loro agio con un “no” (ma a volte anche con un “si”) come risposta. Già, perchè avere un responso è cosa impegnativa, qualunque esso sia. Comporta responsabilità o comunque un cambiamento deciso nei nostri comportamenti futuri. Far capire in modo chiaro (e possibilmente inequivocabile) i nostri sentimenti è un rischio altissimo, perchè certe parole non hanno vie di fuga e una volta messe sul piatto non possiamo ritirare la mano. Ormai ci siamo esposti, il re è nudo e non ci resta che trattenere il fiato in attesa che la corte emetta la sua sentenza.

La consapevolezza che dopo non sarà più niente uguale, è questo che ci spaventa maggiormente, non tanto il risultato, che sia una grande disfatta o un’esaltante vittoria, avremmo irrimediabilmente cambiato la nostra situazione. Ciò non significa che dobbiamo per forza perdere l’altra persona, sarà semplicemente cambiato il modo di rapportarsi, ci saremo tolti la maschera, cosa non da poco intendiamoci, e possiamo dire di essere stati onesti con noi e con chi ci sta di fronte. Una cosa piuttosto rara, ve lo assicuro.

Personalmente sono un pessimo equilibrista e non riesco a vivere a lungo nell’incertezza, l’autoflagellazione non mi appartiene, preferisco un doloroso rifiuto ad un fastidioso “chissà”. Se provo interesse per un’altra persona lo si capisce quasi subito, certo, vado per gradi, piccoli passi per sondare il terreno, ma alla fine…salto. E come tutti, non è il volo a preoccuparmi maggiormente, ma le conseguenze dell’atterraggio.

Si, lo confesso, forse sono un maledetto egoista, me ne frego di essere sereno, io voglio essere felice. Il premio di consolazione non mi consola affatto, voglio il jackpot, a costo di tornare a casa con un pugno di mosche.

In alcuni casi storie d’amore bellissime non nasceranno mai e rimarrano incarcerate nel “preferisco così”. E poi venite a raccontarmi che chi si accontenta gode.

Forse è proprio questo il grande male che schiaccia l’umanità: non il dolore, ma la paura che le impedisce di essere felice.
Sándor Márai

Dalla ionosfera al grand canyon in un battere di mani.

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Oggi parliamo d’amore, vi va? Lo so, uomini all’ascolto, ci sono argomenti più accattivanti, tipo il derby di domenica scorsa o le tecniche di caccia al cinghiale, vi prometto che i prossimi post saranno su questi argomenti. Parola di Pinocchio.

È da poco passato San Valentino, la festa per eccellenza, il tripudio dei cuori, dei baci Perugina e degli orsacchiottoni. Ve lo dico subito: è una festa che non mi piace e forse anche per questo ne parlo con un voluto ritardo.
Non giudico coloro che la festeggiano, ci mancherebbe altro, però penso che quelli di noi che hanno la fortuna di aver trovato l’altra metà della mela (o che sentono di averla trovata) siano già miracolati così, senza bisogno di sbattere in faccia agli altri la loro felicità, insomma, senza il diritto di avere una festa tutta per loro, come a sottolineare che ce ne sono altri che semplicemente hanno avuto meno fortuna.
E già qui ne ho sparata una grossa, ma è niente rispetto a quella che sto per dire.
Sopporto ancora meno quelli che ostentano a tutti i costi il loro status di single, rivendicando il privilegio della libertà e dell’indipendenza, cercando di persuadere gli altri che vivere senza una persona vicino è meglio.

Siamo stati tutti delusi dall’amore, chi più chi meno, e tutti abbiamo sperimentato le due condizioni di “coppia” e di “single”, abbiamo sofferto da matti? Ci mancava la terra sotto i piedi?, siamo stati traditi, umiliati, usati? Ok, ci sta tutto, avete tutte le ragioni del mondo per essere incazzati con l’amore, tutte…tranne una: non siamo fatti per stare da soli, ognuno di noi ha bisogno di donare qualcosa di sè e di ricevere qualcosa dagli altri. È il mettersi in gioco, il rischiare di uscirne a pezzi, il provare emozioni che le parole non potranno mai descrivere. Parlo di questo, di aspettare ore chiuso in macchina davanti al portone di casa sua solo per vederla/o un attimo, prima che svanisca fra la gente, parlo di sospiri e pianti e promesse e insulti, parlo di Oberon e Titania, de “Il bacio” di Klimt, di un Marco e Piero (qualunque) o di una Martina e Veronica. Qualunque.

Nessuno di noi nasce con il desiderio di stare da solo, è una condizione che ci scegliamo, o nella peggiore delle ipotesi, che siamo costretti a scegliere per essere più forti e meno vulnerabili, per metterci al riparo da sofferenze e ci convinciamo che stiamo bene così. Lo capisco e se facciamo un bilancio probabilmente i dolori superano di gran lunga gli attimi di felicità, o quantomeno fanno un male insopportabile, però…oh…quant’era bello quando era bello?
Di solito la mente umana tende a cancellare i brutti ricordi e a mantenere quelli belli, in amore non è così. Basta un attimo solo, un soffio leggero per spazzare via tutte le promesse che ci siamo fatti e le gioie che abbiamo condiviso e a distanza di tempo le ferite continuano a bruciare e gli attimi di felicità a svanire.
Perchè i sentimenti sono bastardi, un momento ti portano nella ionosfera e il momento dopo ti scaraventano nel grand canyon. E in entrambi i casi fai fatica a capire ciò che ti sta succedendo.

Detto questo, ognuno è libero di vivere i suoi sentimenti come meglio crede, perciò lunga vita agli orsacchiottoni cucciolosi e ai single battaglieri, perchè siamo tutti comunque innamorati di qualcosa, un libro, un film, un animale, una qualsiasi cosa che faccia battere il cuore.
Quindi festeggiamo ciò che ci fa innamorare davvero, fregandocene se è San Valentino, San Faustino o San Siro, strizziamo gli occhi e battiamo le mani per diventare invisibili fra la folla e lasciamoci trasportare dai sentimenti.

Adesso largo ai festeggiamenti, qualunque giorno sia.