La musica di Matilde.

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Erano le 23:30 e il regionale 11740 arrivava distratto al binario 6, distratto e leggero, con rumori e fischi conosciuti, talmente conosciuti che passavano inosservati. Silenziosi direi.
Matilde guardò fuori dal finestrino del vagone, il cartello appeso al soffitto diceva “Firenze S.M.N.”. Se ne stava lì, immobile, il cartello, come un’altalena sopra i visi della gente, con quel nome freddo e tassativo, avvisandola che era giunto il momento di scendere. Dal vagone, dal libro che teneva fra le mani e dalla sua vita. Anche se ancora non lo sapeva.

Le stazioni, alla fine, sono tutte uguali, un po’ deserte, un po’ distanti dal mondo, le persone parlano sottovoce come se fossero in chiesa, o almeno, così le immaginava Matilde. Tutte quelle persone che camminano sicure, come se stessero attraversando un incrocio con il verde al semaforo, si sfiorano senza toccarsi, si vedono senza guardarsi. Ma in tutte le stazioni, qualunque sia la stagione, in tutte, sempre, soffia uno strano vento freddo.

Matilde controlla le lettere che corrono veloci sul tabellone degli orari, il treno per Bologna è stato cancellato, soppresso, svanito nel nulla. Il prossimo parte alle 4:35.
Vorrebbe chiedere informazioni, ma non può e comunque, non servirebbe. Tira fuori un blocchetto dalla borsa e una penna dalla tasca dei jeans, sta per scrivere qualcosa, poi ci ripensa, alza gli occhi al cielo e decide di uscire da quella dimensione  di finta realtà, tiene la penna fra le dita, è il suo ago per far scoppiare la sua bolla e riprendere contatto con la vita.

Matilde cammina verso l’uscita leggendo i messaggi dei cartelli appesi al muro, Andrea verso l’entrata leggendo i messaggi di un addio appeso al telefono. Si scontrano. Un impatto frontale, uno scontro devastante e senza sangue, l’incidente di un risveglio. Non c’era nessun incrocio, nessun semaforo da rispettare, nessuna direzione precisa da inseguire, forse è per questo che si sono sfiorati e toccati, visti e guardati.

“Perdonami ero distratto, ti sei fatta male?” Matilde sorride e dice no con la testa,
“Per farmi perdonare posso offrirti da bere?” lei sorride, non risponde ma sorride. Ancora,
“Ma non sei italiana? Capisci la mia lingua?” lei annuisce e Andrea prende il “Sì” come risposta, lo prende per entrambe le domande.
“Ok, facciamo così, parlo solo io, tu ascolti e basta, ci stai?”. Lei sorride e quello è il “Sì” più bello che potesse pronunciare.

Camminano vicini, lui parla dei suoi progetti, di un amore finito all’improvviso, dell’estate che sta per arrivare, che dicono sarà una delle più calde del secolo.
Parla di un viaggio a Copenaghen, della gente di lassù che sorride con un suono di monete cadute in un piatto di vetro, parla della musica, di come l’ha amato e tradito e poi amato ancora e poi tradito. Ancora. Tira fuori l’ipod dalla tasca della giacca, dicendo “ascolta e se ti piace, fammelo capire. Se ti piace sorridi.”. Lei non sorride, ma si mette a ballare, su un tempo tutto suo, fregandosene della cassa e del rullante della batteria, balla anche se la musica è finita da un pezzo, balla perché ha bisogno di farlo, perché è il suo modo di andare oltre le parole della gente, oltre i pensieri, oltre i pregiudizi. Ad occhi chiusi balla, come se il tempo si fosse dilatato,balla perché questa notte sta per finire e chissà quando ce ne sarà un’altra così, balla tenendo le mani di Andrea che non dice niente. E sorride.

Sono le 4:30 del mattino, il treno per Bologna sta arrivando, Matilde lascia la mano di Andrea, tira fuori un blocchetto dalla borsa e una penna dalla tasca dei jeans, la usa come un ago per far esplodere la bolla che la tiene prigioniera, scrive qualcosa, si avvicina ad Andrea, gli mette la mano destra sul petto, all’altezza del cuore, con la sinistra  gli lascia un foglio fra le dita, lo guarda negli occhi, lo bacia sulle labbra. Sorride.

4.40, il treno è stato inghiottito dalle luci del mattino, Andrea legge le parole disegnate sopra il foglio “Mi chiamo Matilde, almeno credo, non sono straniera, almeno credo, non ho mai udito nessun suono in tutta la mia vita, ma se l’amore è una musica, allora stanotte ti ho amato”.

Perché a certe notti, come a certi amori, non servono parole da pronunciare, cadono così, come cade l’umidità sopra i panni stesi al tramonto. Perché certe emozioni non hanno bisogno di essere tradotte, non vanno spiegate, sarebbe riduttivo, devono essere così: perfette e indefinite. Perché capirsi senza parole è come baciarsi al buio dei portoni, è prendersi le mani incrociando le dita in un un’unica esistenza, è avere qualcuno che arriva alle spalle mettendoti le braccia intorno alla vita. Intorno a tutta la tua vita.

Sono le 7 del mattino, Firenze si è svegliata, Andrea cammina distratto per le vie del centro, ha gli auricolari nelle orecchie, un foglietto nel taschino della giacca, sfiora le persone che camminano veloci, le sfiora senza toccarle, le guarda senza vederle.

E sorride..

“E ricordati, io ci sarò. Ci sarò su nell’aria. Allora ogni tanto, se mi vuoi parlare, mettiti da una parte, chiudi gli occhi e cercami. Ci si parla. Ma non nel linguaggio delle parole. Nel silenzio” (Tiziano Terzani).

Matilde stanotte ha ballato su questa canzone (Tonight, Tonight – The Smashing Pumpkins)

Transennatemi !

coda

 

Io sono da sempre un amante delle file, ma non di quelle da dieci minuti alla posta, che ti sembrano diecimila ore, no, mi riferisco a quelle che durano mezza giornata. Le adoro proprio.

Ecco, detta così, qualcuno potrebbe allarmarsi e chiamare il reparto psichiatrico del più vicino ospedale e forse non avrebbe neanche tutti i torti, ma la mia, chiamamola, passione ha un suo fondamento: si, perchè quello delle file è un microcosmo a parte, è uno spicchio di mondo immobile mentre tutto intorno va veloce, e allora, fra persone immobili ci si conosce meglio, possiamo sbirciare un po’ la vita degli altri e sbuffare insieme per il tempo dell’attesa che non passa.

Di solito mi fermo sempre a studiarli un po’ “quelli” in fila, mi viene sempre la tentazione di accodarmi, così, senza un motivo vero, per il solo gusto di assaporare il “tempo fermo”.  E’ un ambiguo fenomeno sociale che possiede tutte le molteplici caratteristiche delle umane debolezze, comprese quelle più grottesche, ma non per questo, negative. E’ un bacino di raccolta di insoddisfazioni e dietrologie. Ok, ora la smetto di sparare minchiate e inizio a “parlare come mangio”

La fila è (quasi) democratica, non conta la tua estrazione sociale, il tuo vissuto, il ruolo che ricopri in questa società, spesso dei magnaccioni. Devi startene lì, insieme alla massaia che odora di soffritto e al pensionato con la prostata come una mongolfiera, con il tuo numeretto che continui a guardare ad intervalli regolari, nell’incoffessabile speranza che la cifra stampata sopra possa cambiare.

E più l’attesa è lunga, più la vera natura delle persone si manifesta in tutta la sua potenza distruttiva. Infatti se all’inizio i componenti sono tutti degli austeri soldatini disciplinati, impettiti, con lo sguardo fiero e la mascella volitiva, pian piano lo scenario cambia e il livello di sbraco è direttamente proporzionale alla rottura di balle. Gradualmente la tensione si scioglie e i rapporti umani aumentano. Iniziamo a scambiarci confidenze, a darsi ragione l’un l’altro, a spettegolare sulla moglie dell’assessore e a inviare qualche insulto gratuito a Silvio, così, a fiducia, che sul momento potrebbero anche risultare avventati, ma prima o poi torneranno utili. Un po’ come quando la nonna ci faceva le calze di lana lavorate a maglia in pieno luglio.

Puo’ sembrare incredibile ma il tempo che trascorriamo in fila è una manna dal cielo, non facciamo gli ipocriti dai, non è tempo perso, è un’occasione per tirare il fiato e per poter parlare da soli ad alta voce senza essere presi per pazzi. A vederli così mi ricordano sempre il signor Dogale, un personaggio decisamente strampalato che abitava nel mio quartiere, camminava da solo e inveiva contro tutto e tutti, si incazzava perchè faceva caldo, perchè i puffi erano blu, perchè non nascevano i funghi e perchè la fiat aveva creato la Duna (e qui non mi sento di dargli torto), tutti lo guardavano e ridevano, poi un bel giorno qualcuno gli regalò un auricolare bluetooth e nessuno fece più caso a lui. E poi dai, diciamocelo, molti fanno la parte dei sacrificati ma in realtà non hanno una mazza da fare.

Un paio di giorni fa, mi sono fatto ben quattro ore di coda, accompagnando una persona (speciale) che doveva realizzare un suo desiderio (sempre speciale). E così sono stato catapultato in un piovoso martedi pomeriggio, in una libreria nel cuore di Firenze insieme ad altri settecento invasati, anzi invasate. Si perchè la maggior parte delle persone erano donne/ragazze/varia umanità. E dopo circa mezz’ora è iniziato un tripudio di bimbeminkia che si facevano l’auto-foto con l’Iphone 5, io mi vergognavo come un ladro a tirar fuori il mio 4S, acquistato ormai nel lontano Marzo 2013 e appartenente all’era paleozoica. Ma si sa, il divertimento è contagioso e allo scoccare della prima ora di attesa ho iniziato a notare anche una moltitudine di mammeminkia che emulavano le mosse delle giovani pulzelle. A metà della seconda ora le chiacchere si sono fatte più intense e praticamente conoscevo i cazzi di almeno 150 persone, abbiamo iniziato a fidarci l’un l’altro: c’era la ragazzina che ” chi se ne frega se piove, pur di vedere “lui” mi prendo pure la polmonite”, la segretaria quarant’enne che “speriamo che non mi becchi il mio capo perchè dovrei essere a casa malata, ma per “lui” sarei disposta anche a farmi licenziare”, la madre di famiglia che “speriamo che non mi becchi mia figlia sennò faccio una figura di merda stratosferica, ma per “lui” potrei stirare camicie a vita” e il giapponese che “ma come sono  belli tutti questi animali domestici transennati, faranno parte del paesaggio?, nel dubbio scatto foto”. E io che guardavo tutte quelle donne e ripetevo alla mia accompagnatrice “oh, non fare scherzi….chiamami zio”.

Insomma per 4 ore ho condiviso, paure, inquietudini, panini al prosciutto, odore di piedi, sogni svaniti, grandi amori, rotture di palle, canzoni, libri rubati (signor Feltrinelli…io sono innocente), mariti in ciabatte la domenica pomeriggio, amiche mignotte che ti rubano il fidanzato, racconti di concerti, matrimoni passati, ricordi di spiagge, occasioni mancate….e il tempo è passato , “lui” è arrivato dispensando sorrisi e autografi, in 25 secondi eravamo fuori, il  giapponese era ancora dall’altra parte delle transenna a scattare foto, la “mia” persona speciale aveva gli occhi sognanti e io mi sarei fatto altre 10 ore di fila pur di rivedere quegli occhi.

Solo una cosa…senta signor…Marco Mengoni, non per essere pignolo, ma la prossima volta prima di fissare una data a casaccio, potrebbe mica controllare le previsioni del tempo?…no perchè c’ho un raffreddore da urlo.