Vent’anni in mezzo al temporale.

Senti scusa…scusa eh, non sai mica quando passa il prossimo? Di treno, intendo, Sì, insomma, un treno qualunque, non importa la direzione…non importa. A sud…a nord…non importa. Devo prenderne uno, uno qualunque e scorrerlo tutto, vagone per vagone, posto per posto. Faccia per faccia. Devo scorrerlo tutto perché…perché lei non scende mai dal treno e se lo fa…sì insomma…se lo fa è solo per salire su un altro. Lo so che sembra assurdo ma saranno passati vent’anni, sì, più o meno e non ho smesso di cercarla. Ogni giorno, tutti i giorni, uno dopo l’altro, fino a diventare vent’anni, più o meno. E fra vent’anni sarò ancora qui a cercarla…Me ne stavo lì, no? Me ne stavo lì seduto accanto a finestrino a guardare ogni cosa là fuori, ogni cosa che correva via. Buffo no?, buffo come le cose corrono via e ci sfuggono dalle mani quando siamo là fuori. Sul treno invece…sul treno invece è tutto più lento. Tutto decisamente più lento. Me ne stavo lì a pensare alle cose veloci della vita quando sento qualcosa di strano nell’orecchio e dentro Cat Stevens che cantava “Sad Lisa”. E io mi volto di scatto, no? Mi volto e la vedo seduta accanto a me con l’altro auricolare nell’orecchio. Così, senza dire niente, se ne stava lì a occhi chiusi. “ti chiami Lisa?”, le ho detto, “che importanza ha?, che te ne fai di un nome nel bel mezzo di un viaggio?”, così mi ha risposto. E io non ho detto niente, no?, non ho detto più niente, però le ho preso la mano, già…le ho preso la mano…perché certi viaggi è giusto farli in due, è giusto così, no? Poi la canzone è finita. E lei si è alzata. “Come ti ritrovo?” le chiesto, “sul treno, uno qualunque. Niente stazioni, le stazioni sono per chi arriva, o per chi parte. Io sto già facendo il mio viaggio”. Così ha detto. Mi ha lasciato una foto, C’è lei, con un sorriso croccante, nel bel mezzo di un temporale, Ma un temporale vero, con i fulmini e tutto il resto, che quando mi capita di farla vedere c’è sempre qualcuno che dice “guarda che meraviglia di temporale”. Nessuno fa caso a lei, come se non ci fosse neanche in quella foto. E invece c’è. Mi ha lasciato la foto. E poi è andata via. L’ho vista dal finestrino che saliva su un altro treno e andare nella direzione opposta. Io l’ho cercata, ogni giorno, tutti i giorni, sono passati vent’anni, più o meno. Sono salito e sceso da ogni treno, li scorrevo tutti, vagone per vagone, posto per posto, faccia per faccia. Sono salito sull’ultimo vagone, ho passato tutto il treno, tutti i treni, dall’inizio alla fine, ho guardato centinaia di facce, una per una, mentre cantavo Sad Lisa. Erano tutti impazienti di arrivare, nessuno che facesse caso all’istante che stavano vivendo. Erano tutti attesi, o in attesa. E’ questo che facciamo, no? Passiamo il tempo ad aspettare o a essere aspettati da qualcuno. Ma nel bel mezzo del viaggio siamo soli e questo ci spaventa. E allora ci illudiamo un po’, no? se non abbiamo nessuno in attesa o da attendere e magari prendiamo un treno, così, tanto per vedere il mondo fuori che si muove. Ma io no, io salgo sul treno, su ogni treno che riesco a prendere e inizio a cercarla, scorrendo tutti quei visi, in ogni vagone. La cerco più che posso, come un coglione, ogni giorno, uno dopo l’altro, fino a diventare vent’anni. E non importa se nessuno riesce a vederla in quella cazzo di foto, Io non smetterò di cercarla. Perché ho ognuno ha il diritto di rivederla almeno una volta la forma della propria solitudine nel bel mezzo di una meraviglia di temporale. – Senti..scusa eh, scusami se ti ho annoiato, ti lascio qui ad aspettare, io ora devo salire sul treno.

LA RAGAZZA DEL PIRATA.

L’estate è di gran lunga la stagione che mi piace meno. Gli amici del mio quartiere se ne vanno tutti al mare e i compagni di scuola, anche loro vanno al mare. Io ne farei volentieri a meno, cioè, il mare mi piace, ma fa troppo caldo e poi mi rimane il segno bianco degli occhiali sul viso. Ma la cosa che proprio mi fa vergognare di più sono i miei costumi. Ogni anno la mamma me ne compra un paio nuovi, ma sono troppo colorati, mi si nota da tutta la spiaggia, come l’insegna del bar Marilena quando c’è la festa del quartiere. Io invece vorrei essere guardata il meno possibile, perché ogni volta che qualcuno mi vede o mi parla fa sempre quell’espressione come a dire “poverina”, che alla fine non lo dice mai, ma ce l’ha scritto in faccia e si vede benissimo. Come l’insegna del bar Marilena. La mamma dice che quei colori mi illuminano il viso, io vorrei dirle che così mi si nota di più il segno bianco degli occhiali, ma mi limito a sorridere alla meglio e fare di sì con la testa.

Sono Maria e ho sette anni, ma sembro un po’ più piccola dei ragazzini della mia età. La mamma dice che è questione di tempo, che anche sua sorella, la zia Antonella, era bassina ma ora è una stangona. E io le credo, anche se quando lo dice la sua voce si incrina un po’ e lo sguardo è meno croccante. Faccio visite da quando sono nata, un dottore dopo l’altro, come quando sei sul treno e vedi passare le stazioni dal finestrino e ti fermi giusto il tempo per fare pipì e ripartire subito senza che sia cambiato niente e non vedi l’ora di scendere davvero e goderti la vita oltre la stazione.

Pare che io abbia una malattia che chiamano “sindrome” legata a un cromosoma, roba complicata, però io non mi fido mica tanto di questi dottori, perché non mi sembra di essere malata, io sto benissimo. Sì ok, leggo lentamente e sbaglio spesso le parole, ma lo fa anche nonno Michele che ha ottantasette anni e non mi pare che faccia tutte queste visite. Anche se dicono che lui ha il “morbo” e quando lo dicono allargano tutti le braccia rassegnati. Forse lo hanno fatto scendere a forza dal treno in una stazione che non era la sua e ora si guarda intorno in cerca di un passaggio, che forse non arriverà mai.

Alla fine mi rassegno e parto per la spiaggia, anche perché a Livorno se d’estate non vai al mare finisci per passare le giornate dentro casa e come dice nonno Michele mentre cammina dalla cucina alla sala cercando l’uscita della sua stazione, «a stare in casa ti incattivisci». E appena finisce la frase piscia al termosifone convinto che sia la statua della Libertà. Perché dice sempre che «gli americani non capiscono un cazzo», ma non si ricorda il motivo.

Mi piace venire al mare qui, in mezzo a tutta questa gente con nomi importanti. Sembra di stare a Hollywood. La mamma dice che se fossi nata in America avrei fatto sicuramente l’attrice. Magari quando sarò alta come zia Antonella ci farò un pensierino, per il momento cerco di imparare a parlare bene, perché non si è mai vista un’attrice che inciampa sulle parole, traballa, e alla fine si scapicolla.

Ogni giorno alle sedici in punto vado a fare la fila al bar, per prendere un ghiacciolo alla fragola. La mamma dice che con questo caldo c’è bisogno di qualcosa di rinfrescante, e ogni giorno, sempre, cascasse il mondo, mi viene incontro Samuel, il barista. Lui è alto, la barba disegnata bene e i capelli raccolti in una coda. Sembra un pirata con quegli anelli e gli orecchini. Un pirata che profuma di buono. A lui non interessa se sono bassa, se ho il segno degli occhiali, lui non ha l’insegna del Bar Marilena dentro allo sguardo, o se ce l’ha la tiene spenta. Ogni giorno si avvicina, ha un tatuaggio di Che Guevara sul braccio destro e lo stemma del Livorno Calcio su quello sinistro. Io non lo conosco questo signore Che Guevara, ma pare che qui sia amico di tutti. Mi solleva, bacino sul collo e poi mi dice:

«Te oggi sei la mia ragazza, se ti azzardi a farmi le corna ti stacco le braccine, intesi?». Ogni giorno. Cascasse il mondo.

Io non glielo dico che mi piace Iuri di terza F, non vorrei che ci rimanesse male. Però un po’ mi fa piacere essere la ragazza del pirata.

Magari quando sarò alta come zia Antonella mi farò invitare a cena fuori. Perché certe occasioni vanno prese al volo, alla faccia di tutte le sindromi e di tutti i cromosomi.

La musica di Matilde.

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Erano le 23:30 e il regionale 11740 arrivava distratto al binario 6, distratto e leggero, con rumori e fischi conosciuti, talmente conosciuti che passavano inosservati. Silenziosi direi.
Matilde guardò fuori dal finestrino del vagone, il cartello appeso al soffitto diceva “Firenze S.M.N.”. Se ne stava lì, immobile, il cartello, come un’altalena sopra i visi della gente, con quel nome freddo e tassativo, avvisandola che era giunto il momento di scendere. Dal vagone, dal libro che teneva fra le mani e dalla sua vita. Anche se ancora non lo sapeva.

Le stazioni, alla fine, sono tutte uguali, un po’ deserte, un po’ distanti dal mondo, le persone parlano sottovoce come se fossero in chiesa, o almeno, così le immaginava Matilde. Tutte quelle persone che camminano sicure, come se stessero attraversando un incrocio con il verde al semaforo, si sfiorano senza toccarsi, si vedono senza guardarsi. Ma in tutte le stazioni, qualunque sia la stagione, in tutte, sempre, soffia uno strano vento freddo.

Matilde controlla le lettere che corrono veloci sul tabellone degli orari, il treno per Bologna è stato cancellato, soppresso, svanito nel nulla. Il prossimo parte alle 4:35.
Vorrebbe chiedere informazioni, ma non può e comunque, non servirebbe. Tira fuori un blocchetto dalla borsa e una penna dalla tasca dei jeans, sta per scrivere qualcosa, poi ci ripensa, alza gli occhi al cielo e decide di uscire da quella dimensione  di finta realtà, tiene la penna fra le dita, è il suo ago per far scoppiare la sua bolla e riprendere contatto con la vita.

Matilde cammina verso l’uscita leggendo i messaggi dei cartelli appesi al muro, Andrea verso l’entrata leggendo i messaggi di un addio appeso al telefono. Si scontrano. Un impatto frontale, uno scontro devastante e senza sangue, l’incidente di un risveglio. Non c’era nessun incrocio, nessun semaforo da rispettare, nessuna direzione precisa da inseguire, forse è per questo che si sono sfiorati e toccati, visti e guardati.

“Perdonami ero distratto, ti sei fatta male?” Matilde sorride e dice no con la testa,
“Per farmi perdonare posso offrirti da bere?” lei sorride, non risponde ma sorride. Ancora,
“Ma non sei italiana? Capisci la mia lingua?” lei annuisce e Andrea prende il “Sì” come risposta, lo prende per entrambe le domande.
“Ok, facciamo così, parlo solo io, tu ascolti e basta, ci stai?”. Lei sorride e quello è il “Sì” più bello che potesse pronunciare.

Camminano vicini, lui parla dei suoi progetti, di un amore finito all’improvviso, dell’estate che sta per arrivare, che dicono sarà una delle più calde del secolo.
Parla di un viaggio a Copenaghen, della gente di lassù che sorride con un suono di monete cadute in un piatto di vetro, parla della musica, di come l’ha amato e tradito e poi amato ancora e poi tradito. Ancora. Tira fuori l’ipod dalla tasca della giacca, dicendo “ascolta e se ti piace, fammelo capire. Se ti piace sorridi.”. Lei non sorride, ma si mette a ballare, su un tempo tutto suo, fregandosene della cassa e del rullante della batteria, balla anche se la musica è finita da un pezzo, balla perché ha bisogno di farlo, perché è il suo modo di andare oltre le parole della gente, oltre i pensieri, oltre i pregiudizi. Ad occhi chiusi balla, come se il tempo si fosse dilatato,balla perché questa notte sta per finire e chissà quando ce ne sarà un’altra così, balla tenendo le mani di Andrea che non dice niente. E sorride.

Sono le 4:30 del mattino, il treno per Bologna sta arrivando, Matilde lascia la mano di Andrea, tira fuori un blocchetto dalla borsa e una penna dalla tasca dei jeans, la usa come un ago per far esplodere la bolla che la tiene prigioniera, scrive qualcosa, si avvicina ad Andrea, gli mette la mano destra sul petto, all’altezza del cuore, con la sinistra  gli lascia un foglio fra le dita, lo guarda negli occhi, lo bacia sulle labbra. Sorride.

4.40, il treno è stato inghiottito dalle luci del mattino, Andrea legge le parole disegnate sopra il foglio “Mi chiamo Matilde, almeno credo, non sono straniera, almeno credo, non ho mai udito nessun suono in tutta la mia vita, ma se l’amore è una musica, allora stanotte ti ho amato”.

Perché a certe notti, come a certi amori, non servono parole da pronunciare, cadono così, come cade l’umidità sopra i panni stesi al tramonto. Perché certe emozioni non hanno bisogno di essere tradotte, non vanno spiegate, sarebbe riduttivo, devono essere così: perfette e indefinite. Perché capirsi senza parole è come baciarsi al buio dei portoni, è prendersi le mani incrociando le dita in un un’unica esistenza, è avere qualcuno che arriva alle spalle mettendoti le braccia intorno alla vita. Intorno a tutta la tua vita.

Sono le 7 del mattino, Firenze si è svegliata, Andrea cammina distratto per le vie del centro, ha gli auricolari nelle orecchie, un foglietto nel taschino della giacca, sfiora le persone che camminano veloci, le sfiora senza toccarle, le guarda senza vederle.

E sorride..

“E ricordati, io ci sarò. Ci sarò su nell’aria. Allora ogni tanto, se mi vuoi parlare, mettiti da una parte, chiudi gli occhi e cercami. Ci si parla. Ma non nel linguaggio delle parole. Nel silenzio” (Tiziano Terzani).

Matilde stanotte ha ballato su questa canzone (Tonight, Tonight – The Smashing Pumpkins)