Limbes. (parte 1 di boh)

Questo è una parte di un qualcosa a cui non riesco a dare un senso logico, ma che comunque ha il diritto di prendere aria. Forse ci saranno altre parti, forse no, lasciamo fare al caso.

Chi arriva a Limbes si ritrova davanti a questo lago che si illude di essere mare, acqua che travisa lo sguardo dei passanti, nascondendo alla vista gli argini della riva opposta. Un tappeto liquido che porta con sé una nebbia complice. Il mago e l’assistente, imprescindibili l’uno dall’altra. È questo che fa il presuntuoso lago, ammalia le menti, offuscandone la percezione, come una donna che sfuma il perimetro della pelle con abiti morbidi nel tentativo di regalarsi un profilo migliore.

Le persone giungo qui attraversando il lago, si materializzano lentamente, oltre i rovi della nebbia. Sono un punto in lontananza che, col passare dei minuti, prende la forma di una barca. Arrivavano remando. Tutti. Come se dall’altra parte non esistessero barche a motore. Hanno lo sguardo fisso davanti a loro, mentre affogano i remi nel lago facendoli riemergere prima che sia troppo tardi. Poi rimettono i legni di nuovo in acqua e poi in aria. In un eterno equilibrio fra la vita e la morte.

Quelli che arrivano qui hanno una luce. Tutti. Fosse anche solo una candela, una lampada a olio o chissà quale altra diavoleria che a contatto con la foschia si trasforma in un alone biancastro. Li vedi in lontananza, con questa idea di faro messa sulla prua, sembrano anime sfuggite a un castigo, e forse lo sono. Forse quel castigo se lo portano dentro. Appena toccano terra la loro luce svanisce, come a sancire la fine di un viaggio che non ha più bisogno di schiarite.

Era quasi l’inizio di un nuovo autunno quando Piero giunse a Limbes, più che un paese, uno sputo di mondo. Uno di quei luoghi che molti chiamerebbero frazione, come a sottolinearne l’inferiorità. In posti come questo la vita segue logiche alternative, chi vive qui non si fa troppe domande su ciò che accade, qui le persone si limitano a prendere atto, adeguandosi al naturale svolgimento degli eventi. Limbes è una frazione, così come lo sono le emozioni rispetto a un amore, un posto piccolissimo con l’infinito del mondo a disegnarne i confini. Tutti quelli che sbarcavano qui cercavano qualcosa, Piero giunse in cerca di un perdono.

Arrivò come arrivavano tutti gli altri, su di una barca a remi, ma non aveva nessun tipo di luce sulla prua, niente lampade, niente candele, niente di niente. Solo lui e la sua barca. E un pianoforte sopra. Un pianoforte a mezza coda, nero, come se ne vedono pochi in giro. Linee morbide, suono leggermente graffiato, in altre parole un connubio perfetto di legno, corde e bestemmie. Come diavolo fosse riuscito a trascinarlo fin qui senza far affondare la barca rimane un mistero. Gli abitanti di Limbes si limitarono a prenderne atto.

Scese dalla sua barca trascinando a fatica il pianoforte sulla terraferma, tornò a prendere lo sgabello e si sedette davanti al suo strumento, poi con lo sguardo perso chissà dove appoggiò le dita sui tasti bianchi e neri. L’intenzione di iniziare a suonare non lo sfiorò neanche per un attimo.

Piero Giuliani trascorreva le giornate sulla spiaggia, con quel lago a fare da sentinella, seduto al suo pianoforte. Applicava un rituale consolidato: lasciava cadere la giacca delicatamente, arrotolando le maniche della camicia appena sotto al gomito e si sgranchiva le mani. Gesti  precisi, armoniosi e impeccabili. Posava le dita sui tasti, senza affondare il colpo. E apriva gli occhi, rimaneva così fino alla fine del giorno, senza suonare neanche una nota. Con lo sguardo teso verso un qualcosa che vedeva solo lui, oltre la spiaggia, oltre il sipario di nebbia. Oltre ogni cosa visibile. Se qualcuno avesse avuto il coraggio di domandargli cosa stesse guardando, lui avrebbe risposto perentorio – Il mare aperto –.  Lo avrebbe detto come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

Guardando quell’immagine dalla strada si aveva la sensazione di trovarsi di fronte a un quadro, uno di quelli appoggiati momentaneamente in un angolo, tra il pavimento e la parete, che interrompono le linee ordinate della stanza . Era la visione di un pianoforte a mezza cosa in attesa che il suo condottiero si decidesse a prendere le briglie per iniziare una cavalcata a perdifiato. Quella meraviglia di strumento era un alveare che racchiudeva uno sciame di note, pungenti e smaniose, che proprio non ne volevano sapere di rimanere chiuse in quella prigione di corde e legno. Si dimenavano, sbattevano contro le pareti, alcune perfino imploravano l’uomo seduto di fronte a loro di renderle libere. Lui non le guardava neanche, teneva lo sguardo teso verso d  solo sa cosa, avvicinava le dita a quel tappeto di tasti, senza sfiorarli. Con movimenti impercettibili faceva salire quelle note su per le mani, lungo le braccia, le lasciava confluire al centro del torace, su per il collo, in mezzo alla gola. Un tumulto di suoni armoniosi, graffianti, come quando non c’è via di scampo; ma anche ballate dolci, di quelle che ti profumano i pensieri , notturni leggeri, capaci di prenderti per mano e portarti a spasso per i tuoi sogni. Tutta quella musica, silenziosa e testarda arrivava alla sua mente, fermandosi al centro di un’emozione. E moriva.

Dal pianoforte non usciva nessuna melodia,  ma in realtà Piero Giuliani stava suonando. Perché ognuno suona la propria musica, che  lo voglia o no e nella mente di Piero si affollavano armonie composte molti anni prima, suoni che lo tormentavano, odori che diventano nodi irrisolti. Insieme ai suoni arrivavano immagini, perché è questo il meccanismo diabolico dei ricordi. Vedeva una sposa innamorata e sognante, una bambina intenta a raccogliersi i capelli in una treccia, ma vedeva anche le liti furibonde, quella donna in una camera bianca d’ospedale, quella bambina che non riusciva a capire la forza devastante di certe malattie della mente. In mezzo a tutto questo c’era la musica, pronta a curare i patimenti creandone di nuovi, l’antidoto e il veleno. Piero Giuliani non riusciva a fare a meno di quella dolcissima ossessione. In qualche modo salire su un palco e iniziare a suonare era la sua salvezza e allo stesso tempo la sua condanna.

Guardando quell’immagine dalla strada si aveva la sensazione di trovarsi di fronte a un uomo che guardava lontano in cerca di un’ispirazione, in realtà Piero Giuliani stava seduto sulla riva del lago in attesa di un perdono.

Tremilasette giorni sulla Luna.

Sono Arianna e cammino sulla Luna. All’inizio è stata solo una condanna senza appello e non è servita a niente la mia smania di evitare il verdetto ineluttabile – Imputata si alzi in piedi e ascolti la sentenza -.E non hanno sortito nessun effetto le suppliche, gli strilli e le bestemmie contro il fato, la giuria sembrava seria, tutta gente che ha studiato, quelle parole dette con fredda severità non ammettevano margine di errore. – Colpevole. E nessuno potrà farci niente. – E allora vaffanculo, se devo stare sulla Luna voglio farlo a modo mio.

Ci porto la mia borsa, comprata a Copenaghen un giorno senza sole e te lo ricordi il freddo che faceva? Dio com’era bella la luce del mattino. Te lo ricordi? Che poi alzavi lo sguardo e mi dicevi – C’è da perdersi dentro un cielo così-
E ci porto l’anima del mare, tutta quanta, con i gabbiani e le anatre spose, con le grida del porto e gli odori del libeccio. E i pescatori nelle balere a dividersi sigari e leggende. E poi le aurore e i temporali e il salmastro nei polmoni. Ce lo porto veramente che, da quelle parti mi farà comodo avere uno sputo d’infinito. Da quelle parti farà comodo un posto in cui sentirmi viva.
E ci porto la musica, altroché se ce la porto, che la nebbia sarà tanta e servirà di sicuro avere un sogno da inseguire. E ci porto la chitarra, con gli arpeggi e gli accordi più rabbiosi, con le corde che vibrano e tagliano la pelle, come quando mi guardi e mi dici qualcosa, qualunque cosa e io lì che penso – vorrei non finisse mai di guardarmi così- e mi ci perdo in quegli angoli di bocca. E poi le canzoni, con le parole improvvisate e quelle che indovinano i tumulti della mente. E ci porto un palco e qualcuno che abbia voglia di ascoltare, che anche se cammino sulla Luna la voce non ci pensa neanche a starsene al riparo. E allora la lascio uscire che magari che ne so, potrebbe tornare buona per qualcuno che voce non ne ha.
E ci porto le emozioni, giuro che lo faccio, che là di spazio ce n’è quanto ne vuoi. Quelle impronunciabili di “guardami dormire”, quelle rumorose di “scuotimi i pensieri”, quelle inconsolabili di “non farti più vedere”, quelle senza fine di “tienimi per mano che ho paura di svanire”. E le voglio fotografare, più che posso, senza perdermi un momento, come quando ti dicevo – inquadrami bene e scatta ancora, che mi sento bella da morire – Alcune andranno smarrite, già lo so, ma resteranno gli odori e la sensazione di pace sulla pelle che hanno lasciato. E alla fine andrà bene così.
Cammino sulla Luna e vado a tastoni, ma mi hanno detto che è normale, imparerò a contare le distanze, prima o poi, io che già faccio fatica a misurare gli slanci dei pensieri. Mi sento in equilibrio fra un abisso ed un sorriso, dicono che la mente si deve abituare, che poi sarà come ballare sopra le vite dei passanti. E sfioro i contorni, seguendo il profilo delle cose, come ad indovinare l’anima che hanno. E la sento, ogni tanto la sento davvero. Tutti quegli atomi di cuore intenti a dare una forma tangibile agli inganni dei sensi.
E mi sembra di vederli gli sguardi di chi incrocia il mio cammino incerto, che per una frazione di secondo stringono più forte la mano in altre mani, come a dire “per fortuna che ci sei”. 
Io sento solo mani addosso, tocchi inaspettati di qualcuno che farò fatica a riconoscere. Le dita lievi di mia madre, che va veloce per evitare di pensare, che lei lo sa come vanno certe cose, è un attimo ritrovarsi con le mani fra i capelli a inveire contro il destino. Sento il palmo di mio padre, che ha timore di mandarmi in mille pezzi e allora desiste dall’intento di abbracciarmi, ma io le sento lo stesso le sue braccia a tenermi in superficie. Parla poco e ride piano, ma lo fa spesso, che è il suo modo per non cadere negli inganni della sorte.

Sento le mani di un amore che svanisce a poco a poco, magari neanche se ne accorge, ma lo percepisco, lui si ostina a volerlo mascherare, ma io lo so, questo sforzo per lasciare tutto inalterato finirà per farlo fuori. 

Perché a camminare sulla Luna, in mezzo a tutta questa nebbia, ho imparato a percepire i tormenti della gente. Come se non fosse già abbastanza vivere nell’ombra.
Arianna avrà trent’anni, minuto più minuto meno, non si guarda nello specchio da tremilasette giorni, da quando i suoi occhi hanno smesso di far filtrare luce, divorati da una malattia lenta e inesorabile come l’arrivo di un dolore. Ma ha trovato la sua strada per fottere il corso degli eventi e si porta dietro tutta quella vita che ha attraversato senza perdersi un dettaglio. Arianna adesso è sopra un palco abbraccia una chitarra e si gode l’applauso di un pubblico che ha avuto voglia si ascoltarla. Lei sorride, fa un gesto che ricorda l’accenno di un inchino, alza una mano in segno di saluto e anche se nessuno può saperlo, lei percorre i sentieri di tutte quelle vite, misurandone i tormenti. 
Che si vede chiaramente l’orizzonte camminando sulla Luna.

Il bacio della vita

  

La stanza è avvolta in un buio che notte non è, al centro un fascio di luce, come fosse una cascata, scavata fra due pareti nere come la paura dell’ignoto.

Claudio continua a girare intorno a quella pianura artificiale, mentre la nebbia che nebbia non è si sta addensando sempre di più, prendendolo alla gola, come quando stai per saltare giù, come quando non sai come andrà a finire ma nonostante tutto continui ad avanzare, come quando chiudi gli occhi ed aspetti e sono momenti interminabili e rimani immobile, senza dubitare e alla fine arriva e ti scava nella bocca. E’ il bacio della vita.

Gira intorno studiando la prossima mossa, prendendo i punti di riferimento per eseguire le traiettorie sicure, che su questo altopiano è tutto perfetto, non ci sono sorprese o inciampi o insidie celate nel terreno. Puoi piantare certezze e traguardi raggiungibili, in quest’aria verde di polvere tagliente hai il tuo destino fra le mani, non avrai nessuno disposto a prendersi le colpe dei tuoi insuccessi e potrai goderti il pieno merito delle vittorie. Perché questa è una dimensione strappata alle dinamiche della vita, regolata da geometrie precise e assolute.

Claudio ha lo sguardo fisso sul campo di battaglia, è sempre così, ogni volta che sta per sferrare il colpo decisivo, si abbassa e trattiene il fiato, potrebbe stare senza respirare per un tempo indefinito, finché resta giù l’aria non serve, come se fosse un fermo immagine mentre tutto intorno ci sono persone affannate ad inseguire secondi irraggiungibili.
E’ sempre così l’attimo che precede l’inizio della lotta, Claudio lo vive come fosse un formula matematica, un copione da ripetere, una serie di gesti abituali che portano nella loro ritualità tutta la sicurezza del mondo.
Passa la mano sull’erba che erba non è, sente sotto le dita la terra perfettamente liscia, come la pelle di una donna tra l’orecchio e la spalla, ne sente l’odore, il calore di quella luce bruciare nelle vene delle mani. In piedi, con il petto quasi appoggiato al terreno di quel finto prato, in cui finché non ti muovi non corri nessun pericolo, come quando cerchi di non farti notare, aspettando l’attimo ideale per uscire allo scoperto e fare il bomba libera tutti.

Claudio tira indietro la spada, come a caricare il colpo, come se in quel colpo ci fossero racchiuse tutte le sue speranze, il riscatto da una vita spoglia, il perdono di tutti i suoi sbagli.
E’ una questione di millimetri, è sempre una questione di millimetri. Il proiettile che si ferma ad un respiro dal cuore, la distanza dei baci non dati, il confine tra realtà e illusione. Tutta roba di pochi millimetri. La spada di Claudio deve colpire il bersaglio, proprio nel centro, esattamente e irrimediabilmente, nel centro.

Il colpo è stato sferrato, adesso Claudio può restare giù e chiudere gli occhi e finalmente sognare. Immaginare gli effetti della sua azione, i danni procurati e quelli evitati, restare giù, come fosse una cosa normale, come quando ascolti una canzone e ti viene da piangere, una cosa normale, come quando stai bene e ti trattieni ancora un po’, cercando di rimandare di qualche secondo il minuto successivo, solo qualche secondo, che profuma di eterno.

Il punto dove colpire, l’effetto da trasmettere alla spada, le linee fantasiose e intolleranti sulle quali far rotolare una palla di cannone carica di speranza. Tutto deve essere preciso, perfetto e assolutamente calcolato.

Dentro un buio che notte non è, su di un prato che prato non è, sotto una luce che luna non è, avvolto in una nebbia che nebbia non è, in una stanza di vita che reale non è, Claudio apre gli occhi e vede una palla bianca disegnare origami all’interno di un tavolo da biliardo, rimbalzare tra le sponde e fermarsi esattamente nel punto sperato.
La lampada che scende dal soffitto fermandosi ad un metro dal tavolo verde, illumina perfettamente il perimetro del biliardo, fino ai bordi e non oltre, come fossero frontiere invalicabili, per escludere allo sguardo dei giocatori tutto il superfluo che li circonda, che tanto non serve vedere oltre, che al di là della luce ci sono solo cose secondarie, trascurabili. Al di là della luce non esistono traiettorie perfette. Al di là della luce c’è soltanto il mondo di sempre.

Prende tra le dita la sigaretta e dà il suo contributo al velo pesante di fumo che avvolge la sala, riprende contatto con la realtà, quella imperfetta, quella degli inciampi improvvisi, delle assolute incertezze.

Percepisce di nuovo la sua esistenza prenderlo sottobraccio e camminargli a fianco, tornano i timori e le angosce. Riprende a vivere aspettando il momento ideale per tornare a morire un po’.
Quel momento in cui sentire ancora il bacio della vita.

“La distanza è immensa, punge finché è densa, solo un bacio è capace di riportar la pace” (Bramante).