Caterina come l’acqua.

Caterina è chiusa a chiave, ma il suo spirito viene da lontano, come l’acqua delle fontane, che ne ha fatti di chilometri prima di finire in quella vasca, ne ha viste di cose prima di lasciarsi cadere e confondersi con il resto del mondo, fino quasi a scomparire. E se la trascina dietro, tutta quella vita, piena di amori e cicatrici, che quando la porti alla bocca riesci a sentirlo il sapore di terra e passione. Che Caterina è come l’acqua, puoi decidere di berla o di baciarla. In entrambi i casi ti salverà la vita.

Caterina vive in una casa fatta di legno e vento forte, sulla spiaggia di un mare sconosciuto, che alle sei del pomeriggio si mette a contemplare. L’ora perfetta, quella ai bordi di un giorno che sta per terminare, l’ora in cui tutto è quasi compiuto e rimane poco tempo per poter rimediare a un qualsiasi tipo di disastro. E’ l’ora magnifica in cui si siede sulla sabbia e punta lo sguardo dritto verso l’infinito, a mescolarsi con l’andirivieni della marea, si osservano, Caterina e il mare, come duellanti in un’arena, sospirano forte, Caterina e il mare, come due amanti alla fine di un amplesso, con l’odore dell’istinto che ti rimane addosso. Alla fine lei si alza e ci cammina dentro. E le sente davvero, tutte le storie che quelle onde si portano dietro, le sente davvero, mentre si frantumano ai suoi piedi, come doni offerti da quell’immensa distesa d’acqua. Ci cammina dentro, come fosse un richiamo, perché avverte le vene che si sciolgono.

Unisce le mani e lo raccoglie. Il mare infinito. Lei ne strappa un brandello e lo tiene fra le mani, come se fosse un cuore pulsante. Come fosse il viso di un figlio. Come se fosse tutto l’amore che c’è, dolce e scandaloso, che ti fa sentire sicura e disperata, irraggiungibile e indispensabile, eterea e puttana, che sa calmarti ed incendiarti. Lo tiene fra le mani. Il mare smisurato. Lo alza verso il cielo, come a farlo benedire dall’ultimo sole. Lo riscalda, lo brama e, lo giuro, lo trascina alla bocca. E lo bacia. Lo giuro. Quel mare pieno di tramonti.

E si perdono, uno sulle labbra dell’altra, con tutta la passione che c’è, quella vera, quella di un bacio. L’atto più intimo, quello che scatena le passioni, le voglie represse. Che quando baci qualcuno, quando lo baci davvero intendo, non te ne liberi più. Da quel tipo di bacio non si torna più indietro. Quando baci qualcuno hai un sussulto di vita. Quando baci il mare hai una cascata nell’anima.

E alla fine si guardano, il mare e Caterina. E lo fanno forte, quasi a farsi male. Che viene da chiedersi se anche lui si ferma a guardare negli occhi di certe persone e magari ci si perde dentro, anche lui, e ci vede i suoi sogni. E sospira. Anche lui.

Caterina vive in una cella di pochi metri quadrati, lo fa da talmente tanto che ormai non ricorda il motivo. Il tempo le ha strappato via i ricordi, le facce delle persone che ha conosciuto fuori da lì, i loro turbamenti. Non c’è più traccia di tutti quei profumi, delle gioie e dello schifo che la vita ti regala. Ha imparato a bastarsi da sola, a fare a meno del mondo. E il mondo di lei.

Ma c’è una cosa, una sola, che quelle sbarre e quel soffitto umido non potranno mai arginare. Il mare che si porta dentro.

E ogni giorno, alle sei del pomeriggio, lei guarda verso il muro, unisce le mani, le alza verso il cielo, come a farle benedire dall’ultimo sole. E lo bacia. Lo giuro. Lo bacia. Lo sconfinato mare.

Perché Caterina se la merita tutta quella vita, quell’abbraccio di madre infinito. E’ la sua ricompensa. Caterina se lo merita un mare così. E addirittura, forse, lui merita lei.

Caterina vive in una casa fatta di legno e vento forte, sulla spiaggia di un mare sconosciuto, lei è come l’acqua, puoi decidere di berla o di baciarla. In entrambi i casi ti salverà la vita.

(Caterina vola con il pensiero, poi si ferma. E quella diventa la sua casa. – La mia casa. Daniele Silvestri.)

Diciotto passi oltre il confine.

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Era quasi l’inizio di un nuovo autunno, una di quelle date strane che segnano un inizio a metà di qualcos’altro. Che le stagioni sono così, nascono a metà di qualcosa già in corso e un po’ ti confondono, ti fanno perdere il conto dei giorni, le stagioni. Tutte e quattro. Ma questa un po’ di più.

In uno di questi giorni qui, uno di quelli a metà, Leo giunse a Clès, più che un paese era uno sputo di mondo. Clès. Uno di quei posti che sono frazione di qualcosa di più completo. Frazione, come a sottolinearne l’inferiorità, come se la vita in questi posti qua avesse un volume ridotto. Una frazione, così come lo sono le emozioni rispetto ad un amore. Riassunti di un qualcosa di più complicato. Non città ma frazioni, non profumi ma essenze, non amori ma colpi all’anima.
Questo era Clès: un posto piccolissimo con l’infinito del mondo a disegnarne i confini.
Questo era Leo: un uomo in cerca del perimetro della vita.

Leo era un pittore, a vederlo così non lo avresti mai detto. E in invece era un pittore. Faceva solo ritratti, solo quelli, niente paesaggi, nature morte o roba simile. Solo ritratti.
Prendevi la strada che portava verso la collina, contavi diciotto passi, non uno di più. Una misura assoluta, ci avresti potuto costruire sofisticati strumenti di precisione con quella misura lì. Potresti contarci qualsiasi distanza. Quanto sei lontano dalla piazza, due volte diciotto passi, quanto sei lontano da casa, due milioni di diciotto passi. Quanto sei lontano da capire chi sei. Una vita di infiniti diciotto passi. Non uno di più.
Al diciottesimo passo ti fermavi e guardavi a sinistra. Un portone verde, di legno, ti guardava come a dirti “entra se hai il coraggio. Entra e vieni a vedere chi sei. Piccolo illuso che non sei altro. Una volta per tutte. Vieni a vedere chi sei.” E tu non potevi far altro, cosa avresti potuto rispondere ad un portone che ti guarda in quel modo. Niente. Oppure, “fatti da parte e lasciami entrare”.

E una volta dentro ti si spalancavano davanti un paio di rampe di scale, di quelle fatte in pietra, stritolate fra pareti, di pietra. Come se i muri si inchinassero concedendoti il privilegio di salire lungo la loro spina dorsale. Arrivato in cima lo vedevi. Leo, seduto in un angolo della stanza, pronto a dipingere, come se non avesse niente di meglio da fare che stare lì. Non poteva sapere che saresti arrivato da lui, ma stava lì. Ad aspettarti.
Non diceva una parola, alzava lo sguardo verso di te. Niente di più.
Al centro della stanza c’era un divano, uno di quelli in pelle rossa, la sua, che ti si attacca alla pelle, la tua, come certi ricordi. E alla fine non distingui quale siano le tue cellule e quali le sue cuciture.
Avresti potuto dire qualcosa, che ne so, un saluto, una qualsiasi fottuta frase per interrompere quell’assurda atmosfera, ma niente. Nessuno di quelli che entrava la dentro, nessuno, mai, diceva una parola. Si sedevano su quel divano, tutti. E alzavano lo sguardo verso di lui. Niente di più.

Leo dipingeva, ma non usava i pennelli ed i colori, no, niente affatto, lui prendeva la sua matita di grafite, apriva il pentagramma e disegnava. Le note.

I suoi ritratti erano melodie. Niente di più.
Ti guardava, ti scrutava, ti sentivi scavare dentro come se avessi le termiti nelle vene.
Leo ti guarda ed era come se ti avesse fra le mani. Ti teneva stretto e ti spremeva l’esistenza. Ti svuotava, entrava nel tuo spazio, ci vagava dentro. Cercava qualcosa, sempre. E ogni volta lo trovava, il tuo perimetro di vita. Lo trovava. Sempre.
Potevi fare qualunque cosa, in quella stanza, su quel divano. Eri libero. Stare in silenzio o cantare a squarciagola, vestito come un aristocratico il giorno della festa del santo o nudo come un verme ad affrontare i tuoi pudori e i pregiudizi di qualcun altro.
Potevi essere chiunque, in quella stanza, su quel divano. Il prete e il peccatore, il carceriere e l’avvocato, la sposa e la puttana, l’ingenua e la regina.
Leo non ti giudicava, lui cercava i tuoi confini, come una persecuzione, con un sant’iddio di costanza che faceva quasi paura. Che ti faceva sentire a casa. Davvero. Faceva scorribande dentro il tuo destino, come un amante insaziabile, violento e dolcissimo. Lui era il veleno e la tua cura. Ascoltava la tua musica e ne disegnava i contorni, in un tripudio di diesis e bemolle, di pause e di biscrome. Fra un adagio ed un andante, un notturno e una ballata. Come se tutto il mondo conosciuto si comprimesse su quel divano di pelle rossa e sprigionasse la colonna sonora della tua vera essenza. La trascriveva su quello strano foglio di carta, ne curava i dettagli, la imprigionava fra quelle righe e alla fine lo trovava davvero. Il perimetro della vita.

Non potevi opporre resistenza, ti lasciavi trucidare, eri un bersaglio facile, per lui. Lui che mirava dritto al cuore.

Una volta finito, si alzava, senza dire una parola. Si metteva al pianoforte. E lì accadeva qualcosa di straordinario. Ti spiegava chi eri. Senza dire una parola. Roba da non credere. Straordinario. Descriveva le tue rughe, i tuoi errori, le tue gioie non godute, i tuoi tormenti di coperte notturne. Ti mette davanti i tuoi giorni travagliati, ti ci fa sbattere il muso contro, forse per la prima volta in vita tua, ti mostra davvero chi sei. Che da solo non avresti mai avuto il coraggio di farlo. E non hai scampo, ti vedi chiaramente in ogni nota, come se fossi nella stanza degli specchi. Non c’è via d’uscita, perché la vita è così, se ti metti a guardarla ti ci perdi dentro. E alla fine non vorresti più uscirne. Non ne uscirai, almeno non uguale.

Questo faceva Leo, cercava il perimetro delle esistenze altrui, per liberarle, per farle cessare una volta per tutte di essere frazioni, sputi di mondo con l’infinito addosso a disegnarne i confini.

Era quasi l’inizio di una nuova stagione, una di quelle date strane che segnano un inizio a metà di qualcos’altro. Che le stagioni sono così, nascono a metà di qualcosa già in corso e un po’ ti confondono, ti fanno perdere il conto dei giorni, le stagioni. Tutte e quattro. Ma questa un po’ di più.
Leo svanì che era il venti di Marzo, che se svanisci di Marzo dai meno nell’occhio, che ti nascondi meglio in mezzo a quei profumi, che in quel periodo dell’anno la gente pensa più spesso a ciò che verrà e non a ciò che è stato.

Lui ha ripreso il cammino, che se ti fermi come lo trovi il perimetro della vita. Ci sono ancora altri sputi di mondo da dover esplorare, altre frazioni da dover liberare. In una di queste, prendendo la strada che porta verso una nuova collina, ti trovi davanti ad un nuovo portone. Non devi far altro che entrare, dentro c’è Leo che ti aspetta con la matita in mano come un fucile spianato. Sparerà una volta sola, sparerà per ammazzare, tu sarai la preda e lui il tuo bracconiere. Non è lontano da te, quel portone verde di legno, trova il tuo confine e poi fai diciotto passi. Non uno di più.

Là c’è Leonardo che si ostina a cercare il perimetro della vita. La sua Monna Lisa.

Nell’aria Pezzi di vetro – De Gregori.

In attesa di Atlantide.

Foto presa dal web, che l'ha presa...chissà dove.
Foto presa dal web, che l’ha presa…chissà dove.

Da qualche tempo a questa parte i miei post nascono di notte, o almeno, si affaccia qualche idea che metto in un cassetto sperando di ritrovarla la mattina successiva. non sempre è li ad aspettarmi, a volte c’è ma ha cambiato pelle.

Non sono sicuro che la notte porti consiglio, spesso porta qualche preoccupazione in più, ansie che durante il giorno riesci a mascherare perchè nascoste sotto la coperta degli impegni, del “va tutto bene” o dei “ci penserò domani”.
Ma di notte i pensieri escono allo scoperto, così come le nostre emozioni e si prendono gioco di noi togliendoci con forza le mani dagli occhi per costringerci a prendere coscienza del loro peso.
Si, di giorno ci trasformiamo in fuggiaschi, capaci di eludere qualsiasi forma di sorveglianza, ma al buio i posti di blocco non sono visibili e la nostra evasione termina nel commissariato delle decisioni non prese con una bella lampada da cento watt puntata negli occhi.

Ma pensandoci bene di notte siamo tutti un po’ meno bugiardi, forse perchè si ha l’illusione che sia tutto un sogno e allora ci lasciamo andare un po’ di più, convinti che il peso delle nostre parole possa dissolversi con il suono della sveglia. E ci viene più facile confidarsi, perchè la notte ha il potere di forzare un po’ di più la serratura dell’animo umano e ci esponiamo, ma raccogliamo anche pezzi di vita altrui, della persona che ci sta ascoltando, che prova magari le nostre stesse sensazioni e si sente altrettanto libera di raccontarci un po’ del proprio universo.
Quel buio è nostro complice rendendoci allo stesso tempo confessati e confessori. Come quando da ragazzo facevo il gioco della verità e quando era il mio turno chiudevo gli occhi, perchè se non vedo chi mi sta di fronte, forse neanche lui vede me e allora, per tre minuti netti, non esisto e posso mostrarmi per quello che sono, che appena li riapro è tutto superato ed è già il turno di quello a fianco.

Le mie amicizie più forti sono nate di notte, i miei amori più travolgenti si sono consolidati dentro gli abbracci dell’oscurità, i miei pianti più disperati sono esplosi con gli schiaffi del buio. Non credo siano semplici casualità.

Le persone di notte sono più trasparenti, si incontrano senza pregiudizi, si parlano, si raccontano, si perdonano i vizi. Da qualche parte ho letto che “la notte è una tasca rivoltata”, ed è vero. Non c’è bisogno di fingere, perchè nessuno ci giudica, ognuno porta in piazza le proprie emozioni, un pò sgualcite, rammendate, tutte quelle fragilità che di giorno rimangono sommerse. E non ha importanza se “la piazza” è un bar, una spiaggia, un’auto, una chat, vale tutto, si, di notte vale (quasi) tutto. Parli con qualcuno e te ne freghi se è un ladro, una puttana, un impiegato di banca o l’infermiera di un matto; di notte il conto in banca non serve ad un cazzo, siamo tutti sott’acqua, esploratori alla ricerca di Atlandide, e la troviamo, incredibilmente la troviamo, nella pazienza di qualcuno che ha voglia di ascoltarci. Protetti dall’oscurità entriamo nel “Bar della rabbia” e lì scopriamo che ce ne sono altri, e sono tutti in attesa, e aspettavano noi. Perchè di notte qualcuno che aspetta lo trovi sempre e per stabilire un contatto non serve granchè, basta un fischio, un gesto con la mano, un sorriso, un click su “invia”.

Noi uomini di notte siamo più veri, più sinceri, più liberi di manifestarci per quello che siamo, senza la fatica di doversi mostrare forti a tutti i costi.
Perciò che siate nostre amiche, amanti, fidanzate o impiegate dell’agenzia delle entrate, fateci parlare, approfittate del nostro momento di tregua dalla battaglia e, se potete , fate in modo che ciò che ascolate nel miglio verde rimanga nel miglio. Noi lo faremo, statene certe.

E adesso….”click”.

“Di notte si ascolta molto meglio il mondo, perché il sapore del mondo se n’esce forte, acre, profondo. Di notte le cose parlano. Di notte gli uomini ascoltano e le cose parlano. La notte è il tempo dell’impercettibile. Ci sono colori nella notte. Ci sono tutti i colori del buio. Ci sono incontri nella notte. Ombre che diventano giganti, così grandi che ci sembra di non avere le braccia abbastanza lunghe per poterle abbracciare.” Mario Pollo.