Diciotto passi oltre il confine.

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Era quasi l’inizio di un nuovo autunno, una di quelle date strane che segnano un inizio a metà di qualcos’altro. Che le stagioni sono così, nascono a metà di qualcosa già in corso e un po’ ti confondono, ti fanno perdere il conto dei giorni, le stagioni. Tutte e quattro. Ma questa un po’ di più.

In uno di questi giorni qui, uno di quelli a metà, Leo giunse a Clès, più che un paese era uno sputo di mondo. Clès. Uno di quei posti che sono frazione di qualcosa di più completo. Frazione, come a sottolinearne l’inferiorità, come se la vita in questi posti qua avesse un volume ridotto. Una frazione, così come lo sono le emozioni rispetto ad un amore. Riassunti di un qualcosa di più complicato. Non città ma frazioni, non profumi ma essenze, non amori ma colpi all’anima.
Questo era Clès: un posto piccolissimo con l’infinito del mondo a disegnarne i confini.
Questo era Leo: un uomo in cerca del perimetro della vita.

Leo era un pittore, a vederlo così non lo avresti mai detto. E in invece era un pittore. Faceva solo ritratti, solo quelli, niente paesaggi, nature morte o roba simile. Solo ritratti.
Prendevi la strada che portava verso la collina, contavi diciotto passi, non uno di più. Una misura assoluta, ci avresti potuto costruire sofisticati strumenti di precisione con quella misura lì. Potresti contarci qualsiasi distanza. Quanto sei lontano dalla piazza, due volte diciotto passi, quanto sei lontano da casa, due milioni di diciotto passi. Quanto sei lontano da capire chi sei. Una vita di infiniti diciotto passi. Non uno di più.
Al diciottesimo passo ti fermavi e guardavi a sinistra. Un portone verde, di legno, ti guardava come a dirti “entra se hai il coraggio. Entra e vieni a vedere chi sei. Piccolo illuso che non sei altro. Una volta per tutte. Vieni a vedere chi sei.” E tu non potevi far altro, cosa avresti potuto rispondere ad un portone che ti guarda in quel modo. Niente. Oppure, “fatti da parte e lasciami entrare”.

E una volta dentro ti si spalancavano davanti un paio di rampe di scale, di quelle fatte in pietra, stritolate fra pareti, di pietra. Come se i muri si inchinassero concedendoti il privilegio di salire lungo la loro spina dorsale. Arrivato in cima lo vedevi. Leo, seduto in un angolo della stanza, pronto a dipingere, come se non avesse niente di meglio da fare che stare lì. Non poteva sapere che saresti arrivato da lui, ma stava lì. Ad aspettarti.
Non diceva una parola, alzava lo sguardo verso di te. Niente di più.
Al centro della stanza c’era un divano, uno di quelli in pelle rossa, la sua, che ti si attacca alla pelle, la tua, come certi ricordi. E alla fine non distingui quale siano le tue cellule e quali le sue cuciture.
Avresti potuto dire qualcosa, che ne so, un saluto, una qualsiasi fottuta frase per interrompere quell’assurda atmosfera, ma niente. Nessuno di quelli che entrava la dentro, nessuno, mai, diceva una parola. Si sedevano su quel divano, tutti. E alzavano lo sguardo verso di lui. Niente di più.

Leo dipingeva, ma non usava i pennelli ed i colori, no, niente affatto, lui prendeva la sua matita di grafite, apriva il pentagramma e disegnava. Le note.

I suoi ritratti erano melodie. Niente di più.
Ti guardava, ti scrutava, ti sentivi scavare dentro come se avessi le termiti nelle vene.
Leo ti guarda ed era come se ti avesse fra le mani. Ti teneva stretto e ti spremeva l’esistenza. Ti svuotava, entrava nel tuo spazio, ci vagava dentro. Cercava qualcosa, sempre. E ogni volta lo trovava, il tuo perimetro di vita. Lo trovava. Sempre.
Potevi fare qualunque cosa, in quella stanza, su quel divano. Eri libero. Stare in silenzio o cantare a squarciagola, vestito come un aristocratico il giorno della festa del santo o nudo come un verme ad affrontare i tuoi pudori e i pregiudizi di qualcun altro.
Potevi essere chiunque, in quella stanza, su quel divano. Il prete e il peccatore, il carceriere e l’avvocato, la sposa e la puttana, l’ingenua e la regina.
Leo non ti giudicava, lui cercava i tuoi confini, come una persecuzione, con un sant’iddio di costanza che faceva quasi paura. Che ti faceva sentire a casa. Davvero. Faceva scorribande dentro il tuo destino, come un amante insaziabile, violento e dolcissimo. Lui era il veleno e la tua cura. Ascoltava la tua musica e ne disegnava i contorni, in un tripudio di diesis e bemolle, di pause e di biscrome. Fra un adagio ed un andante, un notturno e una ballata. Come se tutto il mondo conosciuto si comprimesse su quel divano di pelle rossa e sprigionasse la colonna sonora della tua vera essenza. La trascriveva su quello strano foglio di carta, ne curava i dettagli, la imprigionava fra quelle righe e alla fine lo trovava davvero. Il perimetro della vita.

Non potevi opporre resistenza, ti lasciavi trucidare, eri un bersaglio facile, per lui. Lui che mirava dritto al cuore.

Una volta finito, si alzava, senza dire una parola. Si metteva al pianoforte. E lì accadeva qualcosa di straordinario. Ti spiegava chi eri. Senza dire una parola. Roba da non credere. Straordinario. Descriveva le tue rughe, i tuoi errori, le tue gioie non godute, i tuoi tormenti di coperte notturne. Ti mette davanti i tuoi giorni travagliati, ti ci fa sbattere il muso contro, forse per la prima volta in vita tua, ti mostra davvero chi sei. Che da solo non avresti mai avuto il coraggio di farlo. E non hai scampo, ti vedi chiaramente in ogni nota, come se fossi nella stanza degli specchi. Non c’è via d’uscita, perché la vita è così, se ti metti a guardarla ti ci perdi dentro. E alla fine non vorresti più uscirne. Non ne uscirai, almeno non uguale.

Questo faceva Leo, cercava il perimetro delle esistenze altrui, per liberarle, per farle cessare una volta per tutte di essere frazioni, sputi di mondo con l’infinito addosso a disegnarne i confini.

Era quasi l’inizio di una nuova stagione, una di quelle date strane che segnano un inizio a metà di qualcos’altro. Che le stagioni sono così, nascono a metà di qualcosa già in corso e un po’ ti confondono, ti fanno perdere il conto dei giorni, le stagioni. Tutte e quattro. Ma questa un po’ di più.
Leo svanì che era il venti di Marzo, che se svanisci di Marzo dai meno nell’occhio, che ti nascondi meglio in mezzo a quei profumi, che in quel periodo dell’anno la gente pensa più spesso a ciò che verrà e non a ciò che è stato.

Lui ha ripreso il cammino, che se ti fermi come lo trovi il perimetro della vita. Ci sono ancora altri sputi di mondo da dover esplorare, altre frazioni da dover liberare. In una di queste, prendendo la strada che porta verso una nuova collina, ti trovi davanti ad un nuovo portone. Non devi far altro che entrare, dentro c’è Leo che ti aspetta con la matita in mano come un fucile spianato. Sparerà una volta sola, sparerà per ammazzare, tu sarai la preda e lui il tuo bracconiere. Non è lontano da te, quel portone verde di legno, trova il tuo confine e poi fai diciotto passi. Non uno di più.

Là c’è Leonardo che si ostina a cercare il perimetro della vita. La sua Monna Lisa.

Nell’aria Pezzi di vetro – De Gregori.

L’isola all’orizzonte.

 

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Ai viandanti senza méta, ai fuggiaschi dei respiri, ai sognatori in controluce. A tutti quelli che continuano a cercarla senza sosta.

Non dubitate, esiste davvero, un po’ come Atlantide, un po’ come “Il bacio” di Klimt, come le ossessioni, come le tempeste improvvise, i concerti all’aperto.
Lei è reale, come gli amori nei sonetti di Shakespeare, il senso di vuoto fra le dita, il sapore del vento sulla lingua. Come il mare. Dentro. Che allaga il torace.

Lei si lascia toccare, come un’anima tiepida in un letto disfatto, come un’amante in armatura e calze a rete, come una voglia insoddisfatta, un diamante dietro a un vetro, un odore di ricordi

Tutti la stiamo cercando, anche chi si ostina a non ammetterlo, ognuno a suo modo, anche chi si è arreso, la cerca di nascosto, magari al buio per non farsi vedere, magari protetto da un “io me ne frego”.

La parte più difficile non è trovarla, ma saperla riconoscere. Perché lei è sfuggente, come le idee più segrete, è quasi trasparente, come un bambino che scrive su un vetro.
Lei è devastante, come una vedova di trent’anni che vuol capire, un mercenario senza più nome che vuole amare, un condannato pieno di sogni senza catene.

È intrigante, come un sospiro sul collo scoperto, come infilarsi le mani addosso in mezzo alla gente, come trovarsi in una stazione alle due di notte.

Lei è rabbiosa, ammaliante, testarda, indifesa, capricciosa, leggera, esaltante, sincera, spiazzante, vogliosa. Lei è viva.

Tutti l’abbiamo cercata, molti lo stanno facendo ancora, altri l’hanno lasciata fuggire. In pochi, pochissimi l’hanno trovata sul serio. Sono quelli che si ostinano a dire che esiste davvero.

E allora non importa se siamo viandanti, fuggiaschi, sognatori o magari solo dei poveri illusi, no, non importa, andiamo avanti, che forse da qualche parte esiste davvero la nostra isola all’orizzonte. La nostra forma di America.

“Allora si inchiodava, lì dov’era, gli partiva il cuore a mille, e, sempre, tutte le maledette volte, giuro, sempre, si girava verso di noi, verso la nave, verso tutti, e gridava (piano e lentamente): l’America. “ (Alessandro Baricco)

In qualunque direzione stiate andando, fate attenzione, che qui non è Hollywwod.

In attesa di Atlantide.

Foto presa dal web, che l'ha presa...chissà dove.
Foto presa dal web, che l’ha presa…chissà dove.

Da qualche tempo a questa parte i miei post nascono di notte, o almeno, si affaccia qualche idea che metto in un cassetto sperando di ritrovarla la mattina successiva. non sempre è li ad aspettarmi, a volte c’è ma ha cambiato pelle.

Non sono sicuro che la notte porti consiglio, spesso porta qualche preoccupazione in più, ansie che durante il giorno riesci a mascherare perchè nascoste sotto la coperta degli impegni, del “va tutto bene” o dei “ci penserò domani”.
Ma di notte i pensieri escono allo scoperto, così come le nostre emozioni e si prendono gioco di noi togliendoci con forza le mani dagli occhi per costringerci a prendere coscienza del loro peso.
Si, di giorno ci trasformiamo in fuggiaschi, capaci di eludere qualsiasi forma di sorveglianza, ma al buio i posti di blocco non sono visibili e la nostra evasione termina nel commissariato delle decisioni non prese con una bella lampada da cento watt puntata negli occhi.

Ma pensandoci bene di notte siamo tutti un po’ meno bugiardi, forse perchè si ha l’illusione che sia tutto un sogno e allora ci lasciamo andare un po’ di più, convinti che il peso delle nostre parole possa dissolversi con il suono della sveglia. E ci viene più facile confidarsi, perchè la notte ha il potere di forzare un po’ di più la serratura dell’animo umano e ci esponiamo, ma raccogliamo anche pezzi di vita altrui, della persona che ci sta ascoltando, che prova magari le nostre stesse sensazioni e si sente altrettanto libera di raccontarci un po’ del proprio universo.
Quel buio è nostro complice rendendoci allo stesso tempo confessati e confessori. Come quando da ragazzo facevo il gioco della verità e quando era il mio turno chiudevo gli occhi, perchè se non vedo chi mi sta di fronte, forse neanche lui vede me e allora, per tre minuti netti, non esisto e posso mostrarmi per quello che sono, che appena li riapro è tutto superato ed è già il turno di quello a fianco.

Le mie amicizie più forti sono nate di notte, i miei amori più travolgenti si sono consolidati dentro gli abbracci dell’oscurità, i miei pianti più disperati sono esplosi con gli schiaffi del buio. Non credo siano semplici casualità.

Le persone di notte sono più trasparenti, si incontrano senza pregiudizi, si parlano, si raccontano, si perdonano i vizi. Da qualche parte ho letto che “la notte è una tasca rivoltata”, ed è vero. Non c’è bisogno di fingere, perchè nessuno ci giudica, ognuno porta in piazza le proprie emozioni, un pò sgualcite, rammendate, tutte quelle fragilità che di giorno rimangono sommerse. E non ha importanza se “la piazza” è un bar, una spiaggia, un’auto, una chat, vale tutto, si, di notte vale (quasi) tutto. Parli con qualcuno e te ne freghi se è un ladro, una puttana, un impiegato di banca o l’infermiera di un matto; di notte il conto in banca non serve ad un cazzo, siamo tutti sott’acqua, esploratori alla ricerca di Atlandide, e la troviamo, incredibilmente la troviamo, nella pazienza di qualcuno che ha voglia di ascoltarci. Protetti dall’oscurità entriamo nel “Bar della rabbia” e lì scopriamo che ce ne sono altri, e sono tutti in attesa, e aspettavano noi. Perchè di notte qualcuno che aspetta lo trovi sempre e per stabilire un contatto non serve granchè, basta un fischio, un gesto con la mano, un sorriso, un click su “invia”.

Noi uomini di notte siamo più veri, più sinceri, più liberi di manifestarci per quello che siamo, senza la fatica di doversi mostrare forti a tutti i costi.
Perciò che siate nostre amiche, amanti, fidanzate o impiegate dell’agenzia delle entrate, fateci parlare, approfittate del nostro momento di tregua dalla battaglia e, se potete , fate in modo che ciò che ascolate nel miglio verde rimanga nel miglio. Noi lo faremo, statene certe.

E adesso….”click”.

“Di notte si ascolta molto meglio il mondo, perché il sapore del mondo se n’esce forte, acre, profondo. Di notte le cose parlano. Di notte gli uomini ascoltano e le cose parlano. La notte è il tempo dell’impercettibile. Ci sono colori nella notte. Ci sono tutti i colori del buio. Ci sono incontri nella notte. Ombre che diventano giganti, così grandi che ci sembra di non avere le braccia abbastanza lunghe per poterle abbracciare.” Mario Pollo.

L’amante volubile.

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Prima di scrivere questo post vorrei fare una doverosa premessa: è inutile fare finta di niente, quelli che di voi mi seguono da un po’ di tempo si saranno resi conto che ultimamente sto pubblicando articoli “leggermente” diversi da quelli iniziali, si insomma, è un periodo in cui il mio lato “caciarone” sta lasciando il passo a quello un po’ più personale, oh tranquilli, questo non significa che stia diventando una persona seria, ci mancherebbe altro, solo che scrivendo vengono fuori parti di me, un po’ alla volta, adesso è il turno di quella riflessiva. Quello che (a fatica) sto cercando di dire è che spero che nessuno si senta tradito o che lo si possa sentire in futuro quando altri aspetti della ia persona verranno fuori, semplicemente…questo sono io e sarebbe ipocrita da parte mia nasconderlo. Ok, premessa finita, ora veniamo al prossimo “mapaSSone”.

Non lo ammetteremo mai, ma noi uomini abbiamo paura. E’ una verità scomoda da accettare ed è per questo che facciamo di tutto per nasconderla

Se penso a voi donne, mi rendo conto che siete capaci di esternare questo sentimento molto meglio di noi, voi vi disperate, vi incazzate, chiedete di essere aiutate e per questo (come sempre) vi ammiro, perchè non temete di essere sminuite ne tantomeno di mostrare alle persone che vi circondano le vostre fragilità. Voi siete capaci di prendere il mestolo e sbatterlo sul coperchio di una pentola pur di farvi ascoltare, si, se avete paura non riuscite a tenervela dentro. Almeno le donne che ho conosciuto io facevano così.

Noi no, noi abbiamo paura in silenzio. Ecco, il motivo non saprei spiegarlo bene, è come se avessimo un paio di mani che ci stringono alla gola e non lasciano uscire le parole, le teniamo per noi, abbiamo paura del futuro, nostro e dei nostri figli e compagne, paura di fallire sul lavoro e non riuscire a dare alla nostra famiglia le cose che merita, paura di essere giudicati, paura di non essere amati, paura di morire. In una sola parola, paura di vivere. Perchè questa è la nostra unica occasione e la maggior parte di noi non ha nessun piano b.

Poi ci sono le paure “minori”, tipo sbagliare un congiuntivo, fare la figura del fesso mentre pranzi con una vecchia amica (e mentre lo pensi…la stai facendo veramente), paura che il navgatore perda il segnale nel centro di una grande e sconosciuta città.

Ma ci abituiamo così tanto a convivere con le nostre paure che alla lunga ne diventiamo gelosi, non deve vederle nessuno, restano li, due dita sopra il pomo d’adamo, in qualche modo le custodiamo. Sono solo nostre.

C’è solo un piccolissimo, quasi insignificante particolare: la nostre paura non ne vuole sapere di tacere, parla in continuazione, dio quanto parla, dio quanto grida, ha una voglia matta di essere ascoltata e fa come voi, prende i mestoli e li sbatte sui coperchi. E allora noi arriviamo al punto in cui non è più possibile fare finta di niente, perciò se ci osservate potrete cogliere i segnali della nostra insofferenza. Non avremo voglia di parlare, uscire, ridere, cantare. Quando un uomo ha paura non ha voglia di fare niente. Rimaniamo li in attesa che la paura faccia il suo corso e ci lasci, nel frattempo ci abbracciamo gelosamente a lei, come fosse un’amante volubile e traditrice da proteggere, da nascondere. Una di quelle relazioni clandestine che non potranno mai essere vissute alla luce del sole, ma consumate in amplessi fugaci e intensi di qualche albergo a ore.

Però noi uomini abbiamo trovato il modo giusto per allontanare le nostre paure: la donna.

Non aspettatevi di sentirvelo dire, che a parole non siamo molto bravi, ma ci basta un vostro sguardo, una vostra parola detta al momento giusto e noi ritroviamo il coraggio. Per nostra natura siamo portati a proteggere e con quel gesto voi ci ricordate con chi dobbiamo farlo, perchè se la paura è la nostra amante, voi ci fate capire che non varrà mai quanto la nostra compagna.

E’ un compito arduo il vostro, me ne rendo conto, voi avete già le vostre beghe e dovete accollarvi anche le nostre, ma ci siamo e se noi ci incartiamo con le parole, voi siete bravissime, perciò prendeteci per il bavero e costringeteci a condividere le nostre paure e ad ascoltare le vostre che, sarò il solito illuso sentimentale, ma sono certo che insieme ce la possiamo fare.

Quindi non crediate che gli uomini che avete vicino non abbiano mai paura, il segreto è organizzarsi, magari voi portate il mestolo, noi porteremo il coperchio. E’ tempo di far baccano.

La donna è uscita dalla costola dell’uomo,
non dai piedi perché dovesse essere pestata,
non dalla testa per essere superiore,
ma dal fianco per essere uguale.
Un po’ più in basso del braccio per essere protetta,
e dal lato del cuore per essere amata.

– Talmud –