LA RAGAZZA DEL PIRATA.

L’estate è di gran lunga la stagione che mi piace meno. Gli amici del mio quartiere se ne vanno tutti al mare e i compagni di scuola, anche loro vanno al mare. Io ne farei volentieri a meno, cioè, il mare mi piace, ma fa troppo caldo e poi mi rimane il segno bianco degli occhiali sul viso. Ma la cosa che proprio mi fa vergognare di più sono i miei costumi. Ogni anno la mamma me ne compra un paio nuovi, ma sono troppo colorati, mi si nota da tutta la spiaggia, come l’insegna del bar Marilena quando c’è la festa del quartiere. Io invece vorrei essere guardata il meno possibile, perché ogni volta che qualcuno mi vede o mi parla fa sempre quell’espressione come a dire “poverina”, che alla fine non lo dice mai, ma ce l’ha scritto in faccia e si vede benissimo. Come l’insegna del bar Marilena. La mamma dice che quei colori mi illuminano il viso, io vorrei dirle che così mi si nota di più il segno bianco degli occhiali, ma mi limito a sorridere alla meglio e fare di sì con la testa.

Sono Maria e ho sette anni, ma sembro un po’ più piccola dei ragazzini della mia età. La mamma dice che è questione di tempo, che anche sua sorella, la zia Antonella, era bassina ma ora è una stangona. E io le credo, anche se quando lo dice la sua voce si incrina un po’ e lo sguardo è meno croccante. Faccio visite da quando sono nata, un dottore dopo l’altro, come quando sei sul treno e vedi passare le stazioni dal finestrino e ti fermi giusto il tempo per fare pipì e ripartire subito senza che sia cambiato niente e non vedi l’ora di scendere davvero e goderti la vita oltre la stazione.

Pare che io abbia una malattia che chiamano “sindrome” legata a un cromosoma, roba complicata, però io non mi fido mica tanto di questi dottori, perché non mi sembra di essere malata, io sto benissimo. Sì ok, leggo lentamente e sbaglio spesso le parole, ma lo fa anche nonno Michele che ha ottantasette anni e non mi pare che faccia tutte queste visite. Anche se dicono che lui ha il “morbo” e quando lo dicono allargano tutti le braccia rassegnati. Forse lo hanno fatto scendere a forza dal treno in una stazione che non era la sua e ora si guarda intorno in cerca di un passaggio, che forse non arriverà mai.

Alla fine mi rassegno e parto per la spiaggia, anche perché a Livorno se d’estate non vai al mare finisci per passare le giornate dentro casa e come dice nonno Michele mentre cammina dalla cucina alla sala cercando l’uscita della sua stazione, «a stare in casa ti incattivisci». E appena finisce la frase piscia al termosifone convinto che sia la statua della Libertà. Perché dice sempre che «gli americani non capiscono un cazzo», ma non si ricorda il motivo.

Mi piace venire al mare qui, in mezzo a tutta questa gente con nomi importanti. Sembra di stare a Hollywood. La mamma dice che se fossi nata in America avrei fatto sicuramente l’attrice. Magari quando sarò alta come zia Antonella ci farò un pensierino, per il momento cerco di imparare a parlare bene, perché non si è mai vista un’attrice che inciampa sulle parole, traballa, e alla fine si scapicolla.

Ogni giorno alle sedici in punto vado a fare la fila al bar, per prendere un ghiacciolo alla fragola. La mamma dice che con questo caldo c’è bisogno di qualcosa di rinfrescante, e ogni giorno, sempre, cascasse il mondo, mi viene incontro Samuel, il barista. Lui è alto, la barba disegnata bene e i capelli raccolti in una coda. Sembra un pirata con quegli anelli e gli orecchini. Un pirata che profuma di buono. A lui non interessa se sono bassa, se ho il segno degli occhiali, lui non ha l’insegna del Bar Marilena dentro allo sguardo, o se ce l’ha la tiene spenta. Ogni giorno si avvicina, ha un tatuaggio di Che Guevara sul braccio destro e lo stemma del Livorno Calcio su quello sinistro. Io non lo conosco questo signore Che Guevara, ma pare che qui sia amico di tutti. Mi solleva, bacino sul collo e poi mi dice:

«Te oggi sei la mia ragazza, se ti azzardi a farmi le corna ti stacco le braccine, intesi?». Ogni giorno. Cascasse il mondo.

Io non glielo dico che mi piace Iuri di terza F, non vorrei che ci rimanesse male. Però un po’ mi fa piacere essere la ragazza del pirata.

Magari quando sarò alta come zia Antonella mi farò invitare a cena fuori. Perché certe occasioni vanno prese al volo, alla faccia di tutte le sindromi e di tutti i cromosomi.

Marta fa il libera tutti.

Marta sopravvive in una piazza vuota senza far rumore tra una pizzeria e un caffè,

lei ti guarda e ride quando la sua rabbia non riesce a contenerla dentro sé

un vestito rosso, scarpe senza tacco, labbra di cristallo le ginocchia al petto senza età,

e certe giornate si diverte a indovinare il destino di qualcuno che passa e che va,

Quello è un tipo strano, forse è innamorato e non si rassegna a scrivere sui muri frasi sovversive tipo tu sei mia

Marta che sospira, fuma una marlboro, butta fuori l’aria e la guarda andare via.

Se solo anche i ricordi, quelli spaventosi, fossero solubili in lacrime e bestemmie, o potessero affogare alla fine del bicchiere senza riaffiorare allora sì,

sì che si potrebbe respirare, correre e lasciarsi andare, senza la paura di cadere, avere soltanto l’urgenza di esserci.

Marta che cammina, stringe fra le mani, una birra media e la faccia di suo padre che le urla contro frasi scellerate con il pugno in aria già da un po’

Uno sulla schiena, uno sul costato, uno sulla bocca per provare in tutti i modi a cancellarle quel sorriso che si ostina a stare su,

Ma la paura del dolore non era mai abbastanza per farle dire “basta, io mi arrendo adesso, hai vinto tu”,

Marta porta addosso tutti i segni del passato, ma non sono quelli sulla pelle a fare male a farla smettere di respirare proprio no,

certe cicatrici non si fanno mai vedere, come vipere di bosco, escono di notte spargono veleno senza antidoto.

E non ti puoi salvare, non c’è un cazzo da fare, devi lasciarti torturare fino quasi a scomparire, finché non vanno via.

Che certi pensieri sono spaventosi, vivono in simbiosi come fossero due sposi il terrore e la follia.

Marta se ne andò, aveva sedici anni, si lasciò alle spalle, un uomo mostruoso e una madre che sapeva e non parlava, arresa ormai

E tutte le serate a sputare sangue per i pugni presi non avrebbero raggiunto il grado di dolore di quelle parole dette mai.

Marta si è salvata, forse non del tutto, ma ci sta provando a regalarsi il sogno di una vita presa contromano come certa musica,

lei ci sta provando, coi suoi occhi asciutti, a nascondersi dietro a un sospiro e fare “libera tutti” all’anima.

Marta è la nostra terza onda, quella che restituisce tutto, le immagini più belle, ricordi profumati, lenzuola stese al sole e brividi di sale,

lei si è rialzata dopo ogni caduta, perché Marta è sempre stata viva e non sopravvissuta.

Se Marta fosse una canzona sarebbe questa: L’anima non conta (Zen Circus)https://www.youtube.com/watch?v=TtLcvqCCXBI

La rabbia addosso

Mi sveglio, nel cuore della notte, apro gli occhi e lei è lì, in piedi a fianco del letto che mi guarda.

–          Cristo santo! Mi hai fatto prendere un colpo. Che succede?

–          Hai scritto oggi?

–          Sì, qualcosa, ma faccio fatica, le parole mi sfuggono. Ho bisogno di un’ispirazione.

–          Scrivi di me.

–          Non posso Arianna, mi prenderebbero per pazzo. Prenderebbero per pazzi entrambi.

–          Io parlo e tu scrivi di me.

 

Arianna te la trovi accanto, non sai neanche come abbia fatto ad arrivare fin lì, senza farsi sentire, senza un rumore. Arianna arriva leggera, come quelli che non hanno colpe da espiare.

Non dice mai una parola, ti guarda, con i suoi occhi svelti, ma non apre bocca. Lei si parla dentro. Come se avesse bisogno di tenere al riparo le sue emozioni. Arianna ha trentadue anni da quasi quindici anni e tra mille anni ne avrà ancora trentadue.

Ci sono persone che hanno bisogno della loro camera del silenzio, Sono quelli con il buio in fondo agli occhi un po’ più nero del normale e il mare dentro all’anima più profondo.

Quelli che si perdono dietro un’illusione, quelli come Arianna hanno le parole nelle tempie che fanno un frastuono insopportabile e l’esistenza piena di lividi da smaltire, ci passano vicino lungo i marciapiedi, magari ci sfiorano, ma non ci facciamo caso, è il loro modo di chiedere attenzione, ma non sanno neanche loro dove son finiti coi pensieri.

Arianna tiene gli occhi bassi, come a voler nascondere una vergogna e le mani strette a pugno, come fanno quelli che vivono con la rabbia addosso. Ha una sorta di terrore sulla pelle, che è più di una paura. E’ l’attesa di una tempesta.

–          Scrivi di me e fai capire che non sono sbagliata. Quelle come me non sono sbagliate.

Quelle come lei sono solo spaventate, perché l’uomo che le ha prese a schiaffi ha ridotto a brandelli le loro sicurezze. E noi non sappiamo un cazzo di ciò che hanno provato, che a stare da questa parte è facile dire “perché non hai reagito?”, ma per quelle come lei la fuga non è contemplata, lei non smetterebbe mai di aggrapparsi alla speranza di una redenzione. Perché di forza ce n’è infinita nel cuore grande di Arianna.

Davvero non lo sappiamo ciò che passa nei pensieri di questa donna forte quando lui rientra con la bottiglia in mano e il diavolo nelle vene. E la guarda e lei lo sa che non servirà misurare i gesti e le parole. Che poi non è neanche il dolore nelle ossa quello che fa male, ma gli sguardi della gente il giorno successivo. Perché è una fitta enorme sentirsi fuori posto e non poterlo dire. Arianna non ha quasi niente da farsi perdonare, ma nonostante questo farebbe di tutto per non farsi notare.

–          Scrivi di me, ti prego e fai capire l’importanza dei miei silenzi

Arianna ha bisogno di rifugiarsi nella sua stanza, quella in cui non c’è nessun rumore, con le pareti di cotone, per quelle come lei anche il suono dell’aria che si muove potrebbe essere letale. Lei vive così, nei suoi corridoi senza frastuoni, lei vive lì, fra le mura di quelli che non sanno dove andare, che anche se si perdono ormai non ci fanno più caso. E vanno a senso. Che in quel luogo non c’è nessuno che vuol sapere, non serve dare spiegazioni, Quello è il posto di quelli a cui scappa l’anima.

Arianna mi guarda dormire, ha un vestito chiaro e i capelli sul volto a coprire gli ematomi, ha trentadue anni, da almeno quindici anni e fra mille anni ne avrà ancora trentadue. La sua forza non l’ha salvata, ma è riuscita a non farsi scappare l’anima. Non è sbagliata Arianna, non sono sbagliate le donne come lei che resistono agli schiaffi e a tutti gli altri tipi di dolore. Neanche una lo è. Viene solo voglia di salvarle tutte, ma non ce la faremo mai e allora non ci rimane che andare in giro con le mani chiuse a pugno e la rabbia addosso per non esserci riusciti.

–          Che dici? Può andare? E’ troppo patetico? Ho provato a scrivere di te, ma credimi, non è per niente facile. E comunque mi prenderanno per pazzo.

–          Pazienza, non sarà grave.

–          Avrei potuto fare di meglio, lo so, ma davvero non escono le parole. E poi non dimentichiamoci che sto parlando con qualcuno che non c’è. (decisamente mi prenderanno per pazzo)

–          Stai parlando con qualcuno che non puoi toccare, ma che è sempre stata qui.

–          Perché proprio io?

–          Perché hai risposto alla mia richiesta

–          Quale richiesta?

–          Di un atto d’amore

–          E io che pensavo che fosse la Telecom

–          Comunque non abbiamo finito.

–          Lo so, ma adesso lasciami dormire. Che qui domani c’è gente che lavora. Arianna…comunque…grazie. (Decisamente, mi prenderanno per pazzo. Decisamente)

 

 

Sara senza scampo.

Non c’è niente da fare, il mondo visto dal finestrino di un treno in corsa ha qualcosa di assolutamente perfetto. Un susseguirsi isterico di fotogrammi indefiniti, alcuni dei quali passano e via, altri, per una ragione che nessuno riuscirà mai a spiegarti, ti restano addosso. E non puoi farci niente, non sei tu a selezionare quali tenere e quali far scivolare via, decidono loro. Passano veloci, confusi in mezzo a tutti gli altri, ma per un motivo che nessuno riuscirà mai a spiegarti, ti restano addosso. Non c’è niente da fare.

Sara era quel tipo di donna lì, quella che sta seduta sopra un treno in corsa, con alcuni fotogrammi indefiniti che non ne vogliono sapere di andarsene dalla mente e qualcuno direbbe, perfino dal cuore.
Lei è una di quelle donne “senza scampo”, quelle che hanno la giusta età, anche se non si bene per cosa, quelle con la giusta eleganza, con la giusta leggerezza nei gesti, con la giusta risata morbida come un cuscino di piume e speranze. Tutto perfettamente equilibrato, tutto dosato a meraviglia, come una pozione giustissima di vita e passione. Tutto. Tranne gli occhi.
Quegli occhi lì hanno qualcosa di spaventoso, come una catastrofe, come uno sparo a bruciapelo. Quasi come un bisogno infinito d’amore.
Quegli occhi lì non ti lasciano in pace, ti si aggrappano addosso, non ti danno vie di fuga.
Quegli occhi lì sono senza scampo.

Sara si ripete che va bene così, in fondo va bene così, che si può vivere contando gli attimi di un qualcosa che somiglia ad una fotocopia di felicità. Un po’ più sbiadita rispetto all’originale, ma sempre meglio di niente. Si ripete che va bene così, anche se ogni maledetta sera si ritrova a contare tutti qui fogli, che occupano spazio ma non riempiono nessun vuoto, ma si ripete che in fondo va bene così, e continua a contare, e alla fine arrotonda per eccesso. Che il vuoto da riempire è davvero grande.
E allora Sara ha scelto di vivere con le illusioni coperte da una colata di cemento armato, che alla fine è più sicuro così.
C’è stato un tempo in cui ci credeva davvero, in quella cosa assurda dell’essere felice, intendo. Ci credeva davvero. Ne parlava come fosse qualcosa di tangibile, che a pensarci adesso si sente davvero una povera illusa, che se ci credi finisci solo per farti del male, Che tanto mica esiste davvero quella cosa lì, quella dell’essere felice, intendo.
Ce ne ha messo di tempo per capirlo, ma di certe illusioni proprio non riesci a farne a meno, e lei ce ne ha messo davvero tanto, di tempo, quasi cinque anni, che detto così potrebbe pure sembrare una cosa accettabile. Cinque anni di tempo, cinque anni di schiaffi e lividi da mascherare. Cinque anni di fondotinta a coprire ematomi e scuse da inventare. Cinque anni passati a trovare spiegazioni plausibili, che alla fine quello diventa il dolore più grande. Che poi i lividi spariscono, come fanno tutte le cose che ti aiutano a ricordare, invece di rimanere indelebili e fare il loro dovere, spariscono. E allora le sensazioni si confondono, la vita passa su quegli istanti e ne addolcisce il ricordo, che la vita si nutre di tempo e viceversa. E come due amanti, fanno compromessi, il tempo e la vita. Uno passa più veloce sui dolori dell’altra, la vita contraccambia falsando il grado di inquietudine sugli istanti più lunghi. Sono due amanti perfetti, non c’è niente da dire, il tempo e la vita.
E Sara ce ne ha messo davvero tanto di tempo per decidersi ad andarsene. Ce ne ha messo davvero un sacco. Di tempo. E di vita.

E così questa mattina ha preso la valigia che teneva da tre anni sotto al letto ed è partita. Questa mattina ha deciso così, non si è fermata a pensare, è partita e basta. E’ una cosa folle, partire e basta, un qualcosa difficile da spiegare, come quando prendi la rincorsa e salti dentro una pozzanghera. Una di quelle pozze d’acqua lasciate a terra come a ricordo di un temporale ormai andato. Non ti fermi a pensarci, ci salti dentro e via. E’ una cosa folle, Come partire e basta.

E’ arrivata alla stazione e senza starci a pensare ha preso il primo treno che la riportava verso casa. Sembrava che fosse lì per lei, quel treno, per lei e per la sua valigia piena di vestiti da dimenticare e di ematomi da indossare.
E’ partita, con la sua valigia e con i suoi occhi senza scampo.

Si è seduta nel primo posto libero e non ha potuto fare a meno di pensare, per la prima volta dopo cinque anni, non ha potuto fare a meno di pensare che non c’è niente da fare, il mondo visto dal finestrino di un treno in corsa ha qualcosa di assolutamente perfetto. E’ un susseguirsi isterico di fotogrammi indefiniti, alcuni dei quali passano e via, altri, per una ragione che nessuno riuscirà mai a spiegarti, ti restano addosso.

In quel preciso istante si è resa conto che quegli occhi senza scampo ne avevano viste tante di giornate sbagliate, anche troppe, ne avevano vissute davvero tante di emozioni, anche troppe. Ma erano servite, qualcuno potrebbe dire che l’avevano perfino aiutata ad essere più forte. Balle, lei ne avrebbe fatto volentieri a meno di tutti quei pensieri cattivi. Che quelle mani scagliate a lasciarle segni sul viso non la rendevano più forte, ma solo insensibile al dolore. A ogni tipo di dolore. Ad ogni tipo di sentimento.

Continuava a pensare, per la prima volta dopo cinque anni, non poteva fare a meno di pensare, quasi ci stava prendendo gusto, come se il suo cervello avesse iniziato a sgranchirsi i muscoli dopo un tempo assurdo passato a dormire.

E il secondo pensiero che le si affacciò alla mente era uno di quei pensieri leggeri, come la luce di certe sere, che anche se piove si ostina a brillare. Ed è quasi una forma di estasi. Pensò che in fin dei conti, erano solamente due le cose che la facevano fremere e allo stesso tempo la spaventavano davvero.
Una era l’idea di amare, quando si illudeva di essere amata.
L’altra era questo viaggio che la stava riportando verso casa. O comunque, verso qualcosa che si avvicinava molto a quell’idea un po’ appannata di vita.

Perché, in fondo, la vita è così, una miscela perfetta di amore e guerra. (Neil Young – Love ad War).

“Ci sono due modi per guardare il volto di una persona. Uno, è guardare gli occhi come parte del volto, l’altro, è guardare gli occhi e basta… come se fossero il volto.” (Alessandro D’Avenia)

Il Natale a febbraio.

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Chi mi segue da un po’ lo avrà capito, non riesco ad essere puntuale, e non intendo solo come orario, ma più in generale, proprio come date, si tipo, fare il regalo di Natale a febbraio. Arrivo sempre un po’ dopo. Che in alcuni casi puo’ essere pure divertente vedere la faccia di chi riceve il dono in un giorno che non c’entra niente.

Ho immaginato di vivere in un mondo parallelo, capovolto, dove le cose vanno al contrario. In questo mondo il femminismo la fa da padrone. Ed è decisamente un inferno.

Noi uomini siamo esseri umani di serie b, la nostra virilità è castrata dai luoghi comuni e dagli inaccettabili atteggiamenti delle donne che ci sottomettono in ogni modo possibile.

Siamo costretti ad andare in giro con la gonna, perchè se per caso indossiamo un paio di pantaloni un po’ più sgargianti c’è sempre qualcuna che ci tocca il culo sugli autobus, che poi se una di loro ci mette la mano sul “pacco” puoi farci ben poco, te la sei cercata, punto e basta. E’ consigliabile radersi ogni giorno, che la barba incolta fa troppo “sesso”. Se disgraziatamente quella mattina il tuo Gillette bilama ha dato forfait…son davvero cazzi…anzi…fighe.

Ti ritroverai addosso gli sguardi lussuriosi delle passanti, noterai gomitate e risatine d’intesa e commenti del tipo “chissà quello lì quante se ne è fatte, che se le metti tutte in fila ci arrivi a Pechino”.

Entri a prendere un caffè e la barista ti fa subito gli occhi allupati, cercando di sbirciare nella scollatura della tua camicia sbottonata dalla quale spunta un ciuffetto di peli, tipo cinghiale abruzzese. Non azzardarti a mangiare la pizza con le mani e a scolarti una birra tutta d’un sorso con rutto psichedelico a correzione, avrai immediatamente un gruppetto di almeno sei fanciulle che faranno a gara per estorcerti il numero di telefono.

Sei condannato a fare la doccia almeno tre volte al giorno, che se per caso te ne vai a spasso odorando di babbuino bagnato, ti ritroverai a dover fronteggiare uno stuolo di valchirie pronte ad assalirti a colpi di complimenti sboccati e suonate di clacson.

Non farti illusioni, puoi metterti tutti i tacchi a spillo che vuoi, potresti essere pure uno dei sette savi, avere un q.i. pari a “più infinito”, sarai comunque bollato come “bello ma stupido”, dovrai farti un mazzo come un cesto di vimini per dimostrare quanto vali a quella donna seduta davanti a te con l’aria saccente e odiosamente superiore, che ha di te la stessa stima che ha Silvio per Francesco Foti, il giudice di Forum.

E’ inutile che ti affanni a fare straordinari e gesti di riverenza, non riuscirai mai a guadagnare quanto le tue colleghe del piano di sopra, anche perchè, gli uomini, al piano di sopra non ci arriveranno mai, neanche dalla scala anti incendio.

Quando la sera esci dal tuo ufficio ricordati di non passare da quel vicolo buio, o almeno fallo insieme a qualche collega maschio, tenete strette le vostre borse e non rallentate mai il passo, neanche se cade un meteorite, che questo quartiere di notte fa schifo e c’è sempre qualche ronda di bionde arpie bastarde pronte ad approfittare di voi.

Lo so che non avete nessuna voglia di tornare a casa e trovare vostra moglie sul divano che si scaccola con l’alluce del piede sinistro, con la lavatrice ancora da stendere, i piatti del giorno prima da rigovernare e la tavola ridotta come la discarica di Malagrotta. Non vi lamentate, in fondo siete uomini, è compito vostro, dai non fate gli ingenui, lo sappiamo tutti:mutande da lavare, camicie da stirare, pranzi, cene, pulizie, pannolini dei bimbi, spesa…(e potrei continuare per ore) spettano a voi, oh, che volete, lei ha lavorato sei ore piene, poi calcetto, e aperitivo, è stanca morta, mica puo’ fare tutto lei. Ecco, magari evitate di passare l’aspirapolvere sul tappeto di sala durante la partita, che fate un casino bestiale e lei deve pure alzare i piedi. E finitela di rompere i coglioni (ops scusate..le ovaie) con questa storia di portare fuori l’immondizia, non lo vedete che deve terminare il torneo di Fifa 2014?, lasciatela in pace, che il cassonetto mica lo tolgono stanotte.

E smettete di inventarvi finti mal di testa, che cazzo, son donne, hanno le loro esigenze e se non glielo date voi, vanno a dare cinquanta euro al senegalese in tangenziale, così imparate a fare i preziosi.

Sentite, ora ve lo dico chiaramente: avete veramente scocciato con questa storia delle quote azzurre in politica. Ma che capite voi di come gira il mondo. E cosa pretendete, mica possiamo ridurre il parlamento ad una combriccola di mignotti dal petto villoso, rassegnatevi, siete inferiori, accontentatevi di un ministero sulla famiglia e festa finita, anzi, dovreste pure ringraziarle queste donne così magnanime.

E infine piantatela di fare le vittime, capirai che tragedia se ogni tanto la vostra compagna vi da un ceffone, se le fate saltare i nervi è il minimo che vi possa capitare, che volete, non vi fa mancare niente, siete serviti e riveriti, a costo zero. Quindi, un occhio nero ogni tanto è fisiologico e non date ascolto a vostro figlio di cinque anni, lui è un bambino, che volete che ne sappia di cosa sia la vita vera. Anche se a volte vi dice “papà, se restiamo qui prima o poi la mamma ti uccide”.

Ogni tanto varrebbe davvero la pena fare un giro su questo pianeta parallelo, anche solo una volta nella vita. Sarebbe utile.

Ecco, questo voleva essere il mio contributo, in netto ritardo, alla giornata contro la violenza sulle donne. Il regalo di Natale dato a febbraio.