Serenata alternativa

Una finestra che dà su una via secondaria, in strada c’è un ragazzetto seduto sul cofano dell’auto a guardare quei vetri, sta pensando qualcosa e lo sta facendo più forte che può:

“Nina affacciati che ti canto la serenata. Ok, magari la serenata no, ma ho scritto una cosa che parla di te. No, non è una poesia, non sono bravo con le rime, però ecco, forse è meglio se rimani a dormire, perché a parlare faccio casino con le frasi e di sicuro non riuscirei a farmi capire. Che quando apro bocca sento questo rumore che rimbomba nella testa, come se il cuore facesse di tutto per confondermi ancora di più. E allora dormi Nina che non ti perdi granché, però mentre scrivevo mi tremavano le mani, capirai, ho già una calligrafia di merda, immagina che scarabocchi ho fatto su questo foglio, ma la penna non si fermava, come se le parole avessero una loro volontà e non riuscissero più a trattenere l’urgenza di uscire. Dormi Nina, che se dormi trovo il coraggio di lasciarmi andare, come quando mi tuffo di testa nel mare agitato, senza pensare alle conseguenze, che quelli come me non sono pratici a parlare con qualcuno senza sentirsi un coglione. Se dormi non cambia niente e questo è un pensiero tremendo e rassicurante, lo so che sembra assurdo, ma se stai dormendo ti sento qui vicino e allora tutti questi pensieri strampalati prendono forma e sorrido. E scrivo.  

Dormi Nina e lasciami inciampare in questa cosa strana che sento nello stomaco, che non la so spiegare, mi logora e mi salva e un po’ lo capisco Troisi quando diceva “voglio solo soffrire bene”, dormi e lasciami sognare, che quest’anima incasinata non riesco a capirla, ma se mi siedo davanti a un foglio bianco sento qualcosa di leggero, come un nodo che si scioglie. 

Dormi, che le notti come queste sono infinite e proprio non ce la faccio a gestirla tutta questa agitazione, Nina non lo sai, ma c’è una band heavy metal nella mia testa, comunque è sempre meglio del reggaeton, lo so, però c’è questo tizio con la chitarra elettrica che proprio non la smette di rompermi i coglioni. Che palle, ma come fanno quelli che se ne fregano? Quelli che sentono qualcosa di strano, non dico un sentimento forte, solo un accenno di affetto, vanno lì e vuotano il sacco, così, senza pensarci, come se prendessero una tachipirina. 

Io invece sto qui fuori come uno stronzo, alle tre di notte, seduto sul cofano della macchina a girarmi questo foglio pieno di cazzate fra le mani. Oltretutto l’auto non so di chi sia e già me lo immagino domani il proprietario che vede l’impronta del mio culo sulla carrozzeria, sai quante maledizioni. 

Non lo so Nina, non lo so davvero come si fa a non complicarsi la vita, non lo so quanto deve indurirsi un cuore per lasciarci in pace. Ogni tanto penso che basterebbe mandare a fanculo la paura, l’imbarazzo, la vergogna e tutta quella compagnia di nobili stronzate, forse è così che si diventa uomini, sì, credo che sia così. Basterebbe diventare un po’ più impermeabili alle emozioni, un po’ più cinici, più sfrontati con quella spruzzata di figlio di puttana che non guasta mai. 

Penso che non finirò mai di farci i conti con questa vigliaccheria che mi strozza le parole in gola, ma credo che ci voglia anche un gran coraggio per rimanere nella penombra.

Dormi Nina, io ora torno a casa che qui c’è un’umidità che mi mangia vivo. Ho scritto una cosa per te ma non è niente di importante, magari te la lascio domani, comunque non ti perdi granché.”

IL VENTOFOLLE

Ci sarebbe da chiedersi dove vanno a finire certe cose e certe persone. Quelli che partono per andare, che ne so, in Australia, o in Irlanda, o in qualsiasi altra parte del mondo, che poi non tornano più, neanche per le feste comandate. Ecco, quelle persone lì, che fine fanno? L’avranno trovato ciò che stavano cercando? Magari si sono accontentate, non ci sarebbe niente di male nell’accontentarsi, nell’ammettere di aver chiesto troppo e accettare un premio minore. Ecco, mi piacerebbe che qualcuno di loro tornasse a dirmi com’è andata, roba di cinque minuti eh, giusto per sapere la fine della storia, tutto qui.

E i palloncini? Che fine fanno i palloncini che sfuggono dalle mani e salgono su? Me lo sono sempre chiesto, li guardo salire, sospinti da un vento strano, il “ventofolle”, che qui sulla terra manda le onde cattive e tira giù santi e tempeste, ma forse lassù, dove si fermano i palloncini sfuggiti alla presa, è più comprensivo. Li guardo allontanarsi, lasciandosi dietro le strade e le case e il mare, lo fanno senza esplodere e non è cosa da poco.

Ecco, magari quelli che sono andati in Australia, o in Irlanda o in qualsiasi altro dannato posto lontano da qui sono un po’ come quei palloncini, che non abbiamo saputo trattenere. Hanno lasciato tutto e si sono affidati al “ventofolle” delle decisioni improvvise, senza esplodere. E a noi non resta che rimare qui come stronzi a chiederci che fine avranno fatto. Pensandoci però va bene così, perché tutto ciò che non vediamo finire non muore mai.

STORIE DI PIRATI D’ACQUA DOLCE.

Ho un debole per le persone, per le loro storie, sono un fanatico delle esistenze altrui. Penso che nessuna vita sia insignificante, spesso siamo noi a sminuirla a non coglierne le sfumature, i dettagli che ci rendono unici e interessanti,

Ci sono cresciuto con questa predisposizione alla gente. Appena mi decisi a nascere, miei genitori presero in gestione un bar, il famoso Dopolavoro Ferroviario, una sorta di circo stabile che si affacciava sui binari della stazione centrale. Un palcoscenico sul quale si alternavano prestigiatori di carte, funamboli del calcio balilla, nani ubriachi e ballerine in pensione, studenti senza libri, sognatori, fancazzisti, politicanti senza patria, rivoluzionari con le pistole ad acqua.

C’era Paolino l’ubriaco, che dopo il terzo bicchiere di bianco fermo iniziava a parlare della moglie che aveva lasciato a casa con il guardiano dei campi da tennis. Paolino lo raccontava ridendo, parlava di quell’uomo unto e grasso che si faceva la sua donna, lui lo sapeva e andava bene così. Lo diceva ridendo, con quella voce impastata e disperata.

Il mercoledì pomeriggio arrivava Vicius il tassista, alto due metri, con i capelli lunghi i tatuaggi e tutto quello che fa girare la testa alle donne, almeno così diceva lui. Si sedeva in attesa del suo compagno, un certo Mollino, passavano la serata a far volare le palline nel calcio balilla, fra birre, bestemmie e sudore. Si vociferava che il Vicius non avesse una casa, se gli diceva bene rimediava una scopata e una notte da passare in un letto sconosciuto. Così parlavano di lui, con una punta di invidia. Lui li lasciava parlare e nel frattempo pensava al figlio che la vita gli aveva strappato. Da quel giorno aveva smesso di illudersi e se la fotteva, la vita. Perché quella sì che è una gran puttana.

Il Muto era uno dei miei preferiti, lo chiamavano così perché non diceva mai un cazzo di niente. Prendeva un mazzo di carte e si metteva al tavolo. Niente, neanche una parola, ma se ti azzardavi a giocare il settebello di prima mano ti fulminava con lo sguardo e riuscivi a contare tutti i santi del paradiso che stava tirando giù. L’unica volta che lo sentirono parlare fu il 6 giugno 1978, durante la partita dei mondiali Italia-Ungheria. Erano tutti seduti a disquisire chi fosse il miglior giocatore e fra un “vaffanculo” e “c’hai la mamma maiala” il Muto si alzò in piedi e disse perentorio: «Giancarlo Giannini!», poi tornò a sedersi in silenzio, come aveva fatto per tutti quegli anni.
Tutti pensarono che fosse impazzito e forse lo era davvero, ma lui Giannini l’aveva visto veramente, in quel preciso momento intendo. Nessuno lo sapeva, ma in quei giorni c’era un certo Mario Monicelli, che nessuno conosceva, che stava girando un film e, incredibile ma vero, in quel preciso momento stava fuori dal Dopolavoro e parlava con Mastroianni, quello vero eh. Nessuno ci fece caso ma l’anno successivo uscì “Viaggio con Anita” e per un attimo, alle spalle di Giancarlo Giannini e Goldie Hawn, si intravedeva la “D” verde dell’insegna del Dopolavoro Ferroviario. Era una scena di poco conto, di quelle che non aggiungono niente di particolare alla storia del film, ma a noi bastava così. Non ci importava di essere i protagonisti, ci bastava far sapere che c’eravamo, che esistevamo anche noi.

Le persone da queste parti sono rimaste più o meno così, si ritrovano ancora per risolvere i problemi del mondo fra un bicchiere di vino e una briscola parlata. Ce la cantiamo e ce la suoniamo fra di noi, le nostre rivoluzioni durano un giro di carte, siamo pirati d’acqua dolce che fanno battaglie su misura. Ma ce l’abbiamo tutti una storia da portarci dietro, che se l’avesse saputo Monicelli sai che capolavori ci costruiva sopra. Ma non importa, che quella vita lì, fatta di luci e casino non fa per noi. E chi se ne frega se ora al posto del Dopolavoro c’è un sushi bar, a noi interessa solo sapere che siamo qui, che esistiamo anche noi.

Io, cespuglio

Boh, ho scritto un libro, un libro vero eh, con una trama, una copertina e la prefazione di Enrica Tesio.

Potete trovarlo forse in libreria, mi dicono anche su Amazon, di sicuro qui: https://www.gemmaedizioni.it/prodotto/io-cespuglio/

#Iocespuglio #GemmaEdizioni

La differenziata salverà il mondo.

Dove vivo io non ci sono quartieri, quelli li lasciamo alle grandi città, qui siamo in provincia e ci sono i rioni. Raggruppamenti di case, di persone e di storie, simili a tante altre ma allo stesso uniche. Noi ci proviamo a mantenere un certo distacco e una nostra privacy, ma si finisce inevitabilmente di conoscere i cazzi di tutti gli abitanti del rione e loro i nostri, ovviamente.

Siamo persone semplici, ogni tanto proviamo ad atteggiarci a manager impegnati, ma il risultato non è credibile. E siamo abitudinari, i rituali ci rassicurano, le novità ci spaventano e sul momento non le accettiamo, protestiamo, ma alla fine, lo sappiamo già, ci adegueremo, magari sbuffando, ma lo faremo.

Ecco, nel mio rione una settimana fa è iniziata la raccolta differenziata. “Embè?” direte voi, giustamente. Ormai la fanno tutti la differenziata, è sinonimo di civiltà e di rispetto per l’ambiente. Parole sacrosante, ma per noi del rione è comunque una novità. Noi eravamo abituati a separare la carta dalla plastica e già così ci sentivamo un gradino sopra a Greta Thunberg. Lungo le strade c’erano tre cassonetti, il giallo per la carta, il blu per la plastica e lui, il grigio, il grande vecchio, il “vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole”: l’indifferenziata!
L’indifferenziata è il “cazzonesò” dell’immondizia. Come quando ti chiedi dove vada buttato il cartone del latte, ci pensi un po’ e alla fine opti per un “cazzonesò, indifferenziata. Alé!” Il cassonetto grigio è rassicurante, ci consola, come quando rovesciavo il caffelatte nel letto e mia madre mi diceva “non preoccuparti, ci penso io”. Che mi veniva voglia di abbracciarla stretta. Ecco, il cassonetto dell’indifferenziata è così, ti alleggerisce dai tormenti, si fa carico lui del tuo tetra pack, del tuo sughero, dei pannolini dei tuoi figli. Il cuore grande del cassonetto grigio non ti lascerà mai solo.

Ma c’è un pianeta da salvare, ognuno deve fare la propria parte e allora tutti noi abitanti del rione ci siamo ritrovati in fila per la distribuzione dei nuovi bidoncini, da tenere in casa, o sul terrazzo, o in garage, o in qualunque altro posto ma non in strada. O meglio, in strada sì, ma nei giorni stabiliti. È finito il tempo di buttare l’immondizia alla cazzo di cane. Ora è tutto, preciso, definito e regolamentato.

Mentre ero lì in fila per ritirare i bidoncini ascoltavo i dubbi e le incertezze degli altri rionali. C’era chi si domandava come smaltire il cartone di pizza impregnato di mozzarella, chi chiedeva dell’alluminio, chi delle lattine. Ci confrontavamo tra di noi cercando di darci coraggio, mentre gli addetti alla distribuzione si limitavano a rispondere che era tutto scritto nel volantino illustrativo, ostentando un freddo distacco.
Lì ho pensato che i bidoncini non fossero sufficienti a contenere tutto quello che le persone hanno bisogno di smaltire. Servirebbe un contenitore per le delusioni, uno per le giornate storte, uno enorme per la rabbia, da svuotare almeno tre volte al giorno. Servirebbe un contenitore per gli sbagli che non riusciamo a perdonarci, per le frasi taglienti scagliate per ferire, ci vorrebbe un bel bidoncino per i rospi ingoiati, per i nodi alla gola, per certi rimorsi che non ci lasciano in pace. Servirebbe un compromesso: togliete il cassonetto dell’indifferenziata ma dateci quello dell’indifferenza, che se riuscissimo a gettarne via un po’ avremmo qualche chance in più di salvare il pianeta.

Privata, libera o Molise?

Ormai siamo ripartiti, sono riaperti i ristoranti, i parchi, i locali e sono riaperte anche le spiagge.
Quindi possiamo andare al mare, anzi, dobbiamo andare al mare. Soprattutto noi che abitiamo sulla costa. Sì, perché se vivi a meno di due chilometri dalla spiaggia e non sei abbronzato la gente non te lo perdona.

«Fammi capire, abiti al mare e sei bianco come un cencio? Noi spendiamo un sacco di soldi per venire lì e te che ci vivi non vai?, ma sei impazzito?», In pratica ogni tanto vado in spiaggia solo per non farli incazzare.

Già, in spiaggia. Nell’immaginario collettivo le spiagge sono una sequenza ordinata di ombrelloni, sdraio e cabine, che ogni cinquanta metri cambiano colore. Ogni stabilimento ha il suo, come le squadre di calcio e come sul campo di gioco ci sono delle regole da rispettare: niente partitelle a pallone sulla battigia, niente racchettoni o roba simile, tu hai il tuo spazio e io ho il mio e se metti lo zaino sotto l’ombra del mio ombrellone chiamo il bagnino. Già, il bagnino. Ogni stabilimento ne ha uno e ti senti protetto e se fai una cazzata lui fischia, come un arbitro (o un vigile urbano). Ma sai che puoi fare il bagno tranquillamente perché ci sarà sempre lui che si prenderà cura della tua incolumità. Tipo un family banker.

E poi c’è il ristorante e il bar e anche la sala giochi. Che quando sei scalzo e mezzo bagnato e metti la moneta nella gettoniera del flipper prendi uno schiaffo di corrente elettrica che brilli tutto il giorno come una supernova. E alle cinque sfornano bomboloni e focacce calde. Pensano a tutto loro, il bancone del bar trabocca di bibite, granite, frappé, il frigo dei gelati è pieno come un uovo.

Ok, un ombrellone e due sdraio ti costano quanto un vestito di Armani, ma vuoi mettere la comodità?

Già, la comodità. La comodità è fatta per i forestieri, noi indigeni lo sappiamo che la vera essenza del mare si trova solo nelle spiagge libere. Noi siamo un po’ selvaggi e un po’ selvatici.

La giornata tipo di una famiglia che si gode la spiaggia libera in una tranquilla domenica estiva si svolge pressappoco così:

il nonno esce di casa alle cinque di mattina, in bicicletta e con l’ombrellone sotto all’ascella, tipo i francesi con la baguette. Va a prendere il posto. E’ stabilito che lo faccia lui perché gli anziani, si sa, dormono poco e si svegliano presto. La nonna invece è già in cucina a mescolare la besciamella e a far bollire la carne per il ragù. Probabilmente ha passato l’intera nottata a preparare e alle prime luci dell’alba tutta la casa è impregnata da un odore di soffritto che sembra di stare alla trattoria “Non solo aglio”.

Il marito si alza dal letto, va in cucina e guarda la suocera ai fornelli, poi guarda il cane che lo fissa come a dire “per fortuna che io sono castrato”. Arriva anche la moglie che non finisce più di ringraziare la madre per tutto ciò che sta facendo, per aver passato la notte a cucinare e per aver saldato anche questo mese la rata del mutuo.

Sulla tavola ci sono talmente tante cose da mangiare che basterebbero a risolvere il problema della carestia nel Burkina Faso. Il marito guarda con disperazione tutti quei vassoi perché già sa che dovrà metterli tutti nelle ventisette borse frigo, ma soprattutto sa che sarà lui a trasportarle in spalla per tutti i quindici chilometri che separano il parcheggio dell’auto dalla spiaggia. In pratica, casa sua è più vicina al mare rispetto al parcheggiò libero che troverà. A pensarci, converrebbe andare a piedi. Lo propone, ma le due donne gli si rivoltano contro come un mastino napoletano quando vede un gatto siamese.

«Ma cosa dici? Arrivi vicino al mare con la macchina, noi scendiamo e te vai a cercare parcheggio. Così è più comodo, no?», certo, per loro è sicuramente più comodo.

Alla fine si sveglia anche il figlio di cinque anni ed escono tutti di casa. Il marito lascia le due donne vicino alla spiaggia e poi va a cercare un posto. Lo trova settecento metri dopo il confine con il Molise, si carica tutte le borse sulle spalle e si incammina verso il mare. Durante il tragitto cade tre volte, come Gesù sulla via Crucis, ma c’è sempre qualcuno che grida “non lo aiutate altrimenti è squalificato”, tipo Dorando Pietri alle olimpiadi di Londra.

Arriva alla spiaggia e la suocera lo cazzia perché ha impiegato un’infinità di tempo e si saranno freddate le lasagne e la peperonata.

La spiaggia è un frastuono assordante di voci, radio a tutto volume, tornei di calcio fiorentino sul bagnasciuga con tanto di scazzottata finale. Mentre tutti iniziano a mangiare al marito arriva una pallonata sul piatto di cozze. La moglie e la suocera lo guardano come si guarda un bimbo che fa le bizze e gli cade il gelato. “Ti sta bene! E non frignare che tanto non te lo ricompro”.

Il figlio nel frattempo è andato a fare il bagno, il nonno è un po’ preoccupato:
«Ha mangiato dodici salsicce non gli farà male buttarsi in acqua?», la nonna risponde subito.
«Ma cosa dici? Se fa subito il bagno non succede niente, l’importante è non farlo durante la digestione», che ricorda tanto il comandante del Titanic quando diceva “è tutto sotto controllo”.

Il marito si sdraia collassato al sole delle tredici e trenta, con settecento gradi fahrenheit. In dodici secondi passano nell’ordine: un venditore di occhiali, un venditore di libri (tutti scritti da lui), un venditore di coccobello, un tatuatore, un venditore di tappeti, una improbabile estetista che fa le treccine. La moglie si gira e guarda il marito.
«Dai, fatti fare le treccine così poi le dai i soldi, magari ha bisogno, sembra proprio una brava persona. Avrà dei figli».
«Ma sinceramente non mi sembra il caso», risponde lui cercando di sorridere.
«Lo vedi come sei? Il solito egoista, che ti costa, è per una buona causa», insiste.
«Ma sono pelato, anche volendo non potrei farlo», dice lui cercando l’approvazione dell’estetista. Lei due donne si lanciano sguardi complici.
«Lo scusi signorina, è un insensibile» sentenzia la moglie, trovando immediatamente la solidarietà dell’improbabile estetista.

La giornata passa fra secchiate d’acqua, olio solare della friggitoria “il paradiso dei trigliceridi” e ustioni di terzo grado su tutta la schiena, che quando la suocera tocca la spalla del marito per dirgli che è ora di andare, lui si volta di scatto e prova ad azionare il pulsante dell’ammazza la vecchia Beghelli.

Il nonno torna a casa con la bicicletta e l’ombrellone sotto al braccio, la moglie, la suocera e il figlio rimangono ad aspettare il ritorno del marito dal Molise. Hanno tutti la pelle incartapecorita dal salmastro e dal sole, con le lasagne avanzate fanno una donazione a Save the children, con il colesterolo accumulato invece ci pagheranno la villa alle Maldive del cardiologo di fiducia.

Alla fine rientrano tutti a casa, sudati, sfatti e con un paio d’anni in meno da campare. L’unico davvero rilassato è il cane che li guarda come a dire “la cosa bella di essere castrato è che nessuno ti può rompere le palle”.

Comunque, non voglio influenzarvi nella scelta, se siete dei tipi che amano il comfort e la tranquillità lo stabilimento balneare è il vostro mondo. Se invece siete persone a caccia di avventura ed emozioni forti tuffatevi nella spiaggia libera. Se invece siete poveri mettiamoci d’accordo, si fa una macchina sola che in Molise i parcheggi iniziano a scarseggiare.

Ingredienti sparsi.

Sembra scientificamente provato che ogni sette anni il nostro corpo si rigenera completamente, ogni singola cellula sparisce per lasciare posto a una nuova.


Voglio dire, svaniscono le cellule ma noi, rimaniamo “noi”, se ci pensi c’è da perderci la ragione. E’ come se fossimo fatti di qualcos’altro, come se ciò che ci portiamo dentro sopravvivesse agli atomi e al ciclo naturale della vita. E’ come se una parte di noi fosse fatta di qualcos’altro. Già, e allora mi sono messo lì a pensare, che ultimamente non mi capita spesso di farlo, pensare, intendo, mi sono messo lì a cercare di capire di cosa sono fatto, cercando di trovare la composizione molecolare che è resistita a tutti questi anni e ha continuato ad essere me.


Sono fatto della Lambretta di mio padre, che ogni tanto prendevo di nascosto anche se non la sapevo guidare.


Sono fatto degli abbracci di madre, non troppi a dire il vero, ma dati sempre nel momento più giusto.


Sono fatto di sabbia, acqua, salmastro, libeccio, sole, burrasche e qualche tormento. In una parola, sono fatto di mare.


Sono fatto delle sere passate in macchina con due amici, ascoltando i Nirvana dicendoci che era ancora tutto possibile.


Sono fatto di una settimana passata a fare l’artista di strada a Copenaghen, con la mia Ibanez e una tastiera con dietro un compagno di sventura.


Sono fatto di un paio di piazze, che urlavano giustizia, e io là in mezzo, con una maglietta, senza capire bene cosa stessimo facendo, ma ci piaceva molto farlo. Ci stavamo illudendo, saremmo stati traditi, ma allora non potevamo saperlo.


Sono fatto di lettere, ma proprio tante, che non ho mai avuto il coraggio di spedire, ma va bene così, rinunciare a qualcosa ci rende più consapevoli. O più ingenui, chissà.


Sono fatto di Marco Tardelli e degli occhi commossi di mio padre, perché sì ok, il 2006, ma nell’82…


Sono fatto di lei, arrivata improvvisa e rimasta con me. Non è sempre facile ma continuiamo a sceglierci ogni giorno. Ogni tanto allungo la mano e lei c’è. Questo è quello che so dell’amore.


Sono fatto di Marco, Simone, Cristiano, Samuele, sono fatto di Federico, di Mirko, di Carlo, di Roberta, di Claudia, di Gemma e di pochi altri che mi hanno lasciato qualcosa di loro. Che non mi lascerò sfuggire.


Sono fatto di treni, di tutti quei treni che guardavo partire e arrivare e sono fatto di volti, di tutti quei volti che si incontravano o si lasciavano allontanare.


Sono fatto di chilometri e di tutte le aurore che continuo a fotografare, ma anche di tutti i tramonti su strade veloci mentre sto riportando tutto a casa.


Sono fatto di accordi e di tutti i concerti, di casse e rullanti, di muri scavalcati senza biglietto. Sono fatto di viaggi improvvisati a Pavana per bere qualcosa con Francesco Guccini.


Sono fatto di Camilla, la mia Cinquecento avuta in regalo, fuori tempo, fuori moda, caricata all’impossibile. E di tutte le doppiette venute male che terza marcia non c’era più.


Sono fatto di cicatrici, cicatrici vere eh, ginocchio, caviglia, occhio, naso, parti di me andate in frantumi che qualcuno ha rattoppato. Che se raccoglievo tutti quei punti di sutura un tostapane lo avrei preso di sicuro.


Sono fatto dei libri che ho letto e delle frasi che ho rubato per stupire, delle persone che ho conosciuto e dei luoghi in cui sono stato, senza mai andarci veramente.


Sono fatto di giorni sprecati, una serie lunghissima di giorni sprecati. E di cose non fatte, di parole non dette, di tutti quei momenti messi lì a prendere polvere e basta.


Sono fatto di lei, di lei che è fatta un po’ di me, che ha i miei occhi ma uno sguardo tutto suo, che ha cambiato la mia prospettiva e che, senza il minimo sforzo, ogni giorno mi rende migliore. Come solo i gesti inspiegabili riescono a fare.


Forse sono queste le particelle di me che sopravvivono al naturale corso della vita, qualcosa che faccio fatica a comprendere ma che, nel bene o nel male, porterò per sempre con me.

Pane, mozzarella, yogurt e maledetto ultimo quindici.

Per noi ragazzi degli anni ’80 una delle soddisfazioni più grandi era riuscire a risolvere “il gioco dei quindici”. Per quelli cresciuti a Playstation e YouPorn (che quindi non lo sanno), il mitico “quindici” consisteva in un rompicapo: una tabellina di forma quadrata all’interno della quale c’erano 15 tessere numerate da spostare e mettere in ordine da 1 a 15, per l’appunto. Ok, detto così sembra una cazzata, ma vi assicuro che c’erano persone che organizzavano caroselli in piazza e fuochi d’artificio ogni volta che riuscivano a risolvere il diabolico giochino.

Era tutta una questione di logica e mosse giuste. Arrivavi all’ultima tessera e ti ritrovavi il 15 al posto del 14, ma era quasi fatta. Spostavi il 12, facevi posto al 9, su il 14, giù il 10 e poi… partiva il trittico magico:  “vaffanculo”- cazzotto sul tavolo – giochino di merda rinviato di piede a 90 metri. Stile Dino Zoff.

Non c’era niente da fare, arrivavi ad un passo dal traguardo, sbagliavi una mossa e ti si incasinava tutto. Un po’ come nella vita.

Ecco, dovessi fare un paragone con i tempi moderni, direi, senza ombra di dubbio che “il gioco dei quindici” è come fare la spesa al supermercato con il Salvatempo. Qualcosa di apparentemente innocuo, innocente e rassicurante, praticamente Maculay Culkin in “L’innocenza del diavolo”. Vediamo nel dettaglio il dramma umano che può abbattersi su un uomo medio italico alle prese con questo strumento del Maligno.

Il preludio alla tragedia inizia con toni soft, come in tutti i film horror che si rispettino.

Sono le undici di una domenica mattina, c’è il marito sul divano, la televisione sintonizzata sull’oroscopo di Paolo Fox di bianco vestito che pronostica, con una certa soddisfazione, una settimana di merda per i segni d’aria, per quelli doppi in particolare, per i gemelli nello specifico. Ma non per tutti i gemelli, solo per quelli seduti sul divano alle undici di mattina. La moglie è in cucina, cioè, la moglie del tizio sul divano è in cucina, quella di Paolo Fox invece starà sicuramente riposando perché fa un lavoro particolare, che la tiene fuori la notte. No, non è l’astronoma. Torniamo a noi, l’atmosfera pre-prandiale della piccola famiglia viene bruscamente interrotta da una frase proveniente dalla cucina e che per il marito “divanato” ha lo stesso effetto che ha il fischietto ad ultrasuoni sui i cani. Che non capiscono bene da dove arrivi, ma sanno che seguirà una rottura di palle. La frase in questione è «Se per caso esci mi servirebbe…». Il finale non importa, ormai l’uccello padulo ha già spiccato il volo e si sta inesorabilmente avvicinando. L’uomo perde conoscenza per ventidue secondi e quando torna in sé capta soltanto «… tanto fai presto perché c’è il salvatempo». In altre parole, il povero martire dovrà andare al supermercato sotto casa a fare la spesa. Oddio, “la spesa”è una parola grossa, deve comprare pane, mozzarella e yogurt. Non necessariamente in quest’ordine.

Pane, mozzarella, yogurt. Pane-mozzarella-yogurt. Panemozzarellayogurt. Ce la può fare. Per sicurezza però si scrive il biglietto con la lista. Anzi, lo fa scrivere alla moglie. Perché in questo caso il biglietto non serve a ricordare i prodotti da comprare (#panemozzarellayogurt) ma sarà usato come prova regina a favore dell’imputato durante il processo protocollato come “ti sei dimenticato lo zucchero”. Eh no signor giudice, il foglietto parla chiaro “panemozzarellayogurt”, le altre parole indecifrabili sono imprecazioni scritte da me durante il tragitto casa-banco frigo, che comunque sono completamente estranee a questo dibattimento. Quindi, cari amici uomini, mai, e dico MAI, buttare la lista della spesa nell’immondizia. Va conservata vent’anni, come i pagamenti del 7 e 40.

Quando state per uscire la vostra compagna di vita vi ricorderà di prendere il telefono, voi non sapete il motivo, ma lei sì. Bene, siete pronti. Panemozzarellayogurt non ti temo.

Il nostro eroe giunge all’ingresso del supermercato. L’entrata è luminosa e accogliente, le porte si aprono automaticamente e una brezza di lavanda e rosmarino lo spinge a varcare la soglia.

È iniziato “il gioco dei quindici” e i primi quattro numeri sono andati via lisci. Grazie al cazzo, sei appena entrato.

La prima vera difficoltà consiste nel prelievo della pistola Salvatempo. Il problema è che ce ne sono centinaia, una parete intera di pistole da fare invidia al poligono di tiro di Pontedera Il nostro impavido ne prende una a caso. Bloccata. Prova con un’altra. Bloccata. Legge le istruzioni sul pannello, passa la tessera del supermercato sotto la banda luminosa e… non succede niente. Riprova, una pistola si accende, ok, il caricatore è pieno. Che guerra sia..

Inizia a scivolare con la schiena lungo le pareti dei surgelati, fa capolino per controllare il campo, poi impugna la sua arma con entrambe le mani e la punta verso il pensionato al banco dell’insalata gridando «Crepa fottuto vietcong!».

Il nostro cowboy continua a ripassare mentalmente la lista “panemozzarellayougurt”, rilegge il biglietto, perché non si sa mai. “Pane, porcatroia, mozzarella, merda, che coglioni, yogurt, Paolo Fox untore”.

Prende il numeretto per il banco del pane.

«Mezzo chilo di pane», chiede alla commessa che lo guarda con compassione.

«Pane come? Casalingo, rosetta? Baguette?», risponde la stronzetta con occhi beffardi. Ma che ne so, pane, maremma maiala, pane e basta. Pensa lui digrignando i denti.

«Casalingo… », risponde infine con la voce rotta da un brivido di terrore.

«Sì, ma casalingo chiaro o casalingo scuro?», rilancia la bastarda.

«Ma lei lavora insieme alla moglie di Paolo Fox?», chiede lui facendo scrocchiare le nocche delle mani.

«Come dice?».

«Ho detto, casalingo chiaro, per favore. Però me lo deve lanciare gridando “pool” così lo prendo al volo con il Salvatempo».

Ok, sistemati anche i numeri da 4 a 8. Il nostro giochino procede.

Panemozzarellayogurt.

E’ la volta della mozzarella. Lì, il nostro tiratore scelto, si ricorda le parole di sua madre quando lo mandava a prendere il latte e lui usciva con il terrore di incontrare Gianni Morandi. «Prendi quello dietro che scade più tardi». Probabilmente lo stesso principio si può applicare anche alle mozzarelle.

Panemozzarellayogurt.

Ecco, il nostro condottiero è arrivato alla scelta dello yogurt. Ma quanti tipi ne fanno? Ai frutti di bosco, a tutti i tipi di frutta di tutto il Fantacazzobosco, vegetali, senza latte, col bifidus, leggero, alto, basso, grasso, snello, brutto, bello, Riccardo, Riccardo (che quello fa i corredi ma mi sta sui coglioni come il bifidus). Yogurt! Sant’iddio, che ci vuole? Prendi un barattolo bianco, un pennarello indelebile e ci scrivi sopra “Yogurt”, con lo slogan “C’è questo, se non ti piace vaffanculo”.

Panemozzarellayogurt.

La lista della spesa è finita! Sistemati i numeri da 9 a 12! Ormai ci siamo.

Il nostro beniamino si avvicina alla cassa quando improvvisamente… gli squilla il telefono.

«Ciao, sei ancora lì?, perché mi servirebbe il lievito di birra». Lei lo sapeva che ti sarebbe servito il telefono, ricordi?

«No, mi dispiace, sono appena uscito, ma se vuoi torno dentro, rifaccio tutta la fila, c’è tantissima gente, forse qualcuno non sopravviverà, ma se ti serve torno dentro».

Il lievito di birra non ha la più pallida idea di cosa sia e poi il nostro paladino è astemio e la birra proprio gli fa schifo.

Ok, dopo lo scampato pericolo non rimane che andare alla cassa e pagare. Il 13, 14 e 15 e il rompicapo sarà risolto.

Ma chi decide di schierarsi dalla parte del crimine brandendo la pistola del Salvatempo deve essere emarginato. Non ha diritto a interagire con una cassiera in carne e ossa, è obbligato a usare il suo ultimo proiettile sparando contro un monitor cercando di colpire il bersaglio con la scritta “Concludi la spesa”. E non ci pensare neanche a fallire il colpo. Non esiste una seconda chance. Il nostro novello Capitan Futuro chiude l’occhio sinistro, mano sul grilletto, fiato sospeso, un condor vola alto nel cielo. Bang! Bersaglio centrato. Colpito e affondato.

Ma qualcosa va storto. Il monitor inizia a diventare rosso e lampeggiare, una sorta di allarme atomico che destabilizza tutti i presenti. Il nostro Actarus di Ufo Robot si sente al centro dell’attenzione come quando da bambino fece la pipì nella vasca della piscina e l’acqua si colorò di un verde acceso. Ma quella era semplice ammoniaca a contatto con un reagente qui si tratta di… RILETTURA!!!

E’ qualcosa di umiliante, la rilettura, come se ti dicessero «hai la faccia di chi ha tre omicidi sulla coscienza. Meglio controllare», non ispiri fiducia. E allora il nostro Terminator inizia davvero a sudare freddo, gli passa tutta la vita davanti, inizia a ripercorrere a ritroso ogni singola mossa dal momento in cui ha messo piede in quel maledetto supermercato. «Ci sarà caricato anche il pensionato? Ho sparato al culo della commessa, se ne accorgeranno?».

Il controllo va buon fine, nessun reato evidente riscontrato. Ora il nostro Power Ranger può uscire.

Il 9 va al suo posto, il 10 e 11 lo seguono, il 12, il 13, solo il solito 15 al posto del 14.

Già, l’uscita. Il nostro maschio alfa arriva al cancelletto automatico ma… non si apre! Il primo istinto è scavalcarlo ma il direttore del supermercato lo sta guardando con un’espressione che dice «se ti azzardi a farlo ti mando a schiacciare i ricci col culo». E’ in confusione, chiede l’aiuto del pubblico ma quelli alzano il dito medio, non rimane che la telefonata a casa. Senti che il telefono sta squillando, dall’altra parte una voce amica non dice neanche “pronto”, ma esordisce con  «devi mettere il codice a barre dello scontrino sotto il lettore. Lo sapevo che non ero uscito, ti aspetto a casa, dobbiamo parlare».

Finalmente hai il via libera, ma non puoi prendere la porta a sinistra perché è riservata all’ingresso, quella centrale è volutamente occultata da due piante di baobab, alla tua destra ci sono le frecce con scritto “Partenza” tipo Il gioco dell’oca. Ho visto gente che per uscire dai supermercati è salita sul tetto dello stabile chiedendo un elicottero e una Alfa Sud con 120 mila euro nel bagagliaio in banconote di piccolo taglio. La fuga non è mai andata a buon fine perché dove cazzo la trovi una Alfa Sud di questi tempi?

Incredibilmente il nostro Ranatan arriva a casa ma il pane casalingo doveva essere di quello scuro, la mozzarella è scaduta da tredici minuti, perciò quando l’hai presa era ancora buona, è scaduta a te! E lo yogurt doveva essere quello da bere e non in vasetto.

E allora al nostro Medioman non rimane altro da fare se non spostare il 12, far posto al 9, su il 14, giù il 10 e poi… “vaffanculo”-  cazzotto sul tavolo – rinviare lontano il giochino di merda. Stile Dino Zoff.

Gli “Altrove”.

Partiamo tutti da qui, da questo posto che attira sciagure, una dopo l’altra. Lasciamo questo luogo che nessuno vuol vedere, come se fosse il culo del mondo.

La strada si scioglieva morbida, un serpente liquido sotto un cielo che prometteva vento di Mistral e polvere da sparo. Continua a leggere

La valigia senza peso.

Finì di piovere il giorno della festa del santo. In realtà nessuno aveva mai dubitato di questo. Non c’è memoria di una festa del santo sotto la pioggia. Il temporale era finito, come era logico aspettarsi, se n’era andato lasciando poche tracce di sé, tranne qualche pozzanghera qua e là, che presto sarebbe scomparsa, eliminando definitivamente le prove del suo passaggio. Andato, svanito, così come si era manifestato adesso non esisteva più. Come quando arrivi alla sera, in un giorno come tutti gli altri, che neanche te lo saresti aspettato che fosse quel giorno lì, invece arrivi alla sera e ti rendi conto che quel dolore non c’è più. Finito, come era logico aspettarsi. Se n’era andato lasciando poche tracce di sé, tranne qualche livido in fondo all’anima, che sarebbe rimasto lì per sempre, mostrando in eterno le prove del suo passaggio.

Sabrina è arrivata qui, oggi, per caso, viene da lontano, in fuga da qualcuno e cerca chissà cosa. Ed è arrivata qui. Cammina per i vicoli, come se fosse in cerca di risposte. Cammina tenendo in mano una valigia senza peso, cerca meraviglie. E oggi le troverà.

Sabrina è partita qualche giorno fa, ha lasciato il suo lavoro di insegnante, suo marito che dormiva abbracciato ad un fucile e una bottiglia, suo fratello chissà dove sotto tre metri di terra e una raffica di mitra nel costato, ha lasciato il suo paese con un mare troppo scuro ed un cielo troppo basso che si piega sotto il peso delle bombe, che da quelle parti tiri a sorte con la vita.

E’ partita per trovarlo, il suo sogno, per farsi cogliere dallo sgomento e dalla bellezza che avrebbe accompagnato la sua ricerca. E’ partita per imparare a crederci davvero nel suo sogno possibile.

E’ arrivata qui, con una valigia senza peso, il giorno della festa. E trova Robert l’inglese, che suona con le dita i suoi bicchieri e ti ci perdi a guardare quelle mani frettolose che corrono sui bordi di vetro, come chi ha perso ogni speranza e danza sul ciglio di un burrone.

Trova Coppelia delle tenebre, che morì dieci anni fa ma nessuno glielo disse. Si aggira per i vicoli bui di questo borgo declamando versi di Lucrezio e Ceronetti, gli occhi neri come il culo dell’inferno e la voce di ragazza davanti a uno stupore. Un vestito di nebbia fitta a coprire il suo scheletro inquietante. Si avvicina ad un metro dal cemento, ti si pianta davanti, con quell’anima che ha e ti sfiora il viso con un dito. E tu lo senti il freddo delle ossa sulla pelle e preghi iddio che non si abbandoni mai. Ma Coppelia fa un inchino e si allontana e a te non rimane che un rivolo di cenere sullo zigomo sinistro.

Sabrina non smette neanche per un attimo di guardarsi intorno. E di cercare le sue risposte.

Da un angolo un po’ nascosto sbuca Mirandola dei ratti, vestita di crepuscoli e curiosità. Si aggira fra la gente all’ora del tramonto con il suo corteo di topi a farle da riparo. Sono scappati da una fiaba che profumava di tragedia, sfuggiti al controllo del loro distratto romanziere. Mirandola non ha un passato, la penna dell’autore non ha fatto in tempo a descrivere i giorni che ha vissuto. Così non conosce i suoi pensieri di bambina, il batticuore e le complicazioni del destino di ragazza. Non sa cosa sia l’amore da ricevere e poi dare, le notti con lenzuola intrise di istinto e di sudore. Lei impara ogni singolo dettaglio guardando le persone che le passano vicine, prende la tua mano fra le sue, ti soffia sulla fronte. Ti ruba un singolo ricordo, uno soltanto e in cambio ti dona un topolino per farsi perdonare. Lei, curiosa come un gatto.

Sabrina è frastornata, in mezzo a tutta quella gente dimentica il rumore delle bombe, dimentica l’odore aspro della guerra. Questo è soltanto il suo viaggio e non ci vuole rinunciare. Non smette neanche per un attimo di guardarsi intorno. E di cercare le sue risposte.

In mezzo alla discesa che porta alla piazza delle erbe c’è la tenda di Alice del nigredo. Alchimista e ciarlatana, insegna filastrocche ai bambini e piaceri di altro tipo ai loro padri. Un po’ strega in calze a rete un po’ fata immacolata, additata come eretica dalle donne del paese, bramata come il vino nel deserto dagli uomini furtivi. Trasforma il metallo in oro, il vile in guerriero, medica le ferite dell’anima cantando frasi in rima.

Sabrina si affaccia all’ingresso di quella tenda, un gesto appena accennato.

–  Ti stavo aspettando ragazza della sabbia, dimmi cosa cerchi e io ti aiuterò

–  Cerco le risposte, tutte quelle che posso avere, le cerco da sempre, da quando quel boato annunciò l’inizio di un mondo che non volevo. Non le trovo, le mie risposte, maledizione non le trovo.

– Saranno loro a trovare te, è sempre stato così, fin dall’inizio dei tempi. Noi non possediamo niente, abbiamo solo l’illusione del possesso. Adesso chiudi gli occhi, segui il ritmo del respiro, pensa alla domanda, sceglila bene, senza giri di parole. Quando sarai pronta apri gli occhi e prendi la tua risposta da uno di questi calici di fronte a te. E non dimenticare mai che sarà stata lei a scegliere te.

Sabrina formulò la sua domanda, era un pensiero deciso, quasi fastidioso, puntuale come l’inizio dell’inverno, poi senza dire una parola aprì gli occhi e prese un biglietto da un calice viola.

– Questo è ciò che stavi cercando, solo tu riuscirai a comprenderne l’esattezza dell’inchiostro sulla carta.

Le due donne si guardarono per un istante lungo quasi un’esistenza, poi Alice la baciò sulla bocca e le indicò l’uscita.

Appena in strada Sabrina aprì la sua valigia, completamente vuota, portata in giro per metterci dentro le risposte, prese il biglietto che teneva tra le dita lo rilesse ancora una volta.

Lasciò fuori i timori, le paure e i ripensamenti, mise dentro solo quel biglietto, con la sua potente filastrocca.

Chiuse la valigia e partì.

– Svegliati Sabrina, è ora di scrollarsi i sogni di dosso.

La ragazza aprì gli occhi, i contorni della stanza le furono subito familiari, un rapido inventario con lo sguardo, giusto per essere sicura che fosse tutto regolare. Ad una prima occhiata non si notavano sobbalzi strani, solo un biglietto rosso arrivato da chissà dove, l’inchiostro color oro proclamava una filastrocca che suonava come una sentenza.

“Dopo una lunga guerra Re Bianco si arrese. – Mandami alla forca, dunque! – Ma Re Nero gli donò castelli, cavalli e tesori. – Non li voglio! – No? – E la guerra ricominciò”

Se questo sogno avesse una colonna sonora sarebbe questa: Dei pensieri – Ezio Bosso